Nord Corea, il Paese recluso
Il ragazzo avrà una decina d’anni, indossa una divisa di almeno due taglie di troppo, giacca verde militare su un paio di pantaloni dello stesso colore. Si tiene a distanza e ci segue con lo sguardo mentre passeggiamo lungo il viale alberato nel centro di Kaesong, città nordcoreana a pochi chilometri dal confine con la Corea del Sud. Sa che la guida lo tiene d’occhio e che dovrebbe ignorarci (ai nordcoreani il contatto con gli stranieri, salvo rare eccezioni, è vietato), ma non resiste alla curiosità e incede con noi mano a mano che avanziamo. Quando ci fermiamo, si apposta dietro a un albero e ci fissa.
Gli stranieri in Corea del Nord sono una rarità e qui, in provincia, lo sono ancora di più: ogni tanto arriva qualche turista, per lo più cinesi, in visita ai siti archeologici protetti dall’Unesco, come il ponte in pietra del 1200 che sovrasta un canale parallelo al viale. Quando ci muoviamo, Kim, la guida, gli dice qualcosa in tono brusco, e il ragazzo si allontana. Un saluto con la mano che lui ricambia timidamente è l’unico scambio che ci è concesso. Forse uno dei rari momenti di autenticità nel corso di una visita studiata nei minimi dettagli per dare un’immagine positiva del Paese più recluso del pianeta, dove internet non c’è, la tv trasmette solo propaganda e la gente non sa nulla del resto del mondo. In realtà, in altre occasioni ci hanno permesso di interagire con dei bambini incontrati per caso, ma erano figli della ristretta classe media che sta prendendo forma nella capitale, dove vivono 2,5 milioni di persone considerate le più fedeli al regime: funzionari di governo, militari, medici, scienziati, insegnanti e le loro famiglie.
Anche se in misura non paragonabile a qualsiasi metropoli straniera, chi vive a Pyongyang ha accesso a uno stile di vita impensabile altrove nel Paese e a luoghi di svago – qualche ristorante, un bowling, un paio di centri commerciali (numero 1 e 2), giardini curati e un parco acquatico – che danno una parvenza di modernità alla capitale di una nazione altrimenti ferma agli anni Cinquanta e prevalentemente agricola. Fuori dalla capitale il panorama è costellato di contadini chini nelle risaie e aratri trainati da buoi magrissimi a lavorare una terra che produce poco e male. Un divario che il regime, impegnato nello sviluppo dell’arsenale nucleare da cui dipende la sua esistenza, non ha alcun interesse a colmare.