«Nuova» evangelizzazione
C’è una ricorrenza che rende febbraio un mese speciale per i fedeli di sant’Antonio. Il 15, infatti, si celebra la festa della Lingua del Santo. Anche se, in realtà, il ritrovamento della Reliquia incorrotta risale all’8 aprile del 1263. Il frate francescano, noto per la potente dialettica, era morto da trentadue anni. In occasione della prima traslazione nella Basilica padovana, il suo corpo venne riesumato. Le testimonianze storiche dell’evento ci ricordano che, di fronte al rinvenimento della lingua del Santo ancora intatta, san Bonaventura da Bagnoregio,allora Ministro generale dell’Ordine dei frati minori, esclamò: «O lingua benedetta, che sempre benedicesti il Signore e l’hai fatto benedire da altri, ora manifestamente appare quanti meriti hai acquistato presso Dio». Parole che suonano come un riconoscimento, dunque, per l’impegno profuso da sant’Antonio – «migrante della parola di Dio» – nell’annuncio instancabile del Vangelo.
Ma quale senso può avere oggi questa memoria, in un contesto culturale «scristianizzato», che pone dei seri interrogativi alla nostra fede? In un momento in cui la Chiesa promuove con urgenza una «nuova» evangelizzazione, per noi cristiani celebrare il miracolo antoniano ha ancora significato. Più che ai contenuti della fede – che rimangono immutati –, il termine «nuova» evangelizzazione si riferisce allo slancio rinnovato da imprimere nell’annun-cio del Vangelo. Uno slancio che sa di freschezza, ma che affonda le radici nel passato e che, più precisamente, trae ispirazione dal fervore tipico delle prime comunità cristiane.
«I nostri tempi sono tempi duri per la fede, per ogni fede, sacra o secolare; per la fede nella Provvidenza o in una divina catena di essere, ma anche per la fede in un’utopia laica, in una futura società perfetta», scriveva nel 2003 Michele Illiceto sulle pagine del periodico «Rivista di scienze religiose».
Sempre più spesso assistiamo alla caduta delle utopie e di quel progresso scientifico che al suo posto lascia soltanto un baratro di insicurezze. Contro una globalizzazione dilagante, che investe popoli e culture in ogni angolo del pianeta, riconsiderare il ruolo della fede e tornare umilmente alla «questione di Dio» è forse l’unico asso che ancora teniamo nella manica.
Quanto a sant’Antonio – frate portoghese che, dopo aver dovuto rinunciare a una missione in Marocco, percorse l’Italia e il Sud della Francia per diffondere la parola di Dio –, il suo esempio può offrire ancora oggi degli spunti su come attualizzare l’annuncio del Vangelo. In un passo dei Sermoni, il Santo sottolinea che «la carità è l’anima della fede, la rende viva; senza l’amore, la fede muore». Un messaggio che, come ha sottolineato Benedetto XVI nell’udienza generale del 10 febbraio 2010, Antonio rivolgeva agli inizi del XIII secolo «nel contesto della rinascita delle città e del forte fiorire del commercio, quando cresceva il numero delle persone insensibili alle necessità dei poveri. […] Non è forse questo – ha aggiunto il Pontefice – un insegnamento molto importante anche oggi, quando la crisi finanziaria e i gravi squilibri economici impoveriscono non poche persone e creano condizioni di miseria?».