Nuovi impulsi per la diffusione dell'italiano

L'italiano è parlato molto meno di altre lingue, ma è tra le prime studiate al mondo. Ciò che manca è un'industria culturale della lingua italiana, e la capacità di farla fruttare.
20 Settembre 2010 | di
Siena
L’italiano è la lingua di un sistema di valori culturali, di cultura intellettuale, che da secoli contraddistingue la nostra identità; ma è anche una missione: in un mondo globale di «plastica», forse, chi si avvicina all’italiano, cerca altri tipi di valori.
L’Università di Siena è specializzata. Perciò ci chiediamo: che cosa può fare, oggi, un’Università come la nostra, o come quella di Perugia? Ci occupiamo di alta formazione, insegniamo l’italiano ma non soltanto. Non soltanto insegniamo l’italiano a migliaia di ragazzi e ragazze che arrivano in Italia anche se negli ultimi anni stanno arrivando anche molti adulti e anziani; sta cambiando qualcosa nel pubblico potenziale degli stranieri che si avvicinano alla nostra lingua. Insegnare l’italiano agli anziani significa scrivere manuali, proiettare dei power point con caratteri enormi, oppure mettere il megafono in bocca alle insegnanti. Insegniamo l’italiano a migliaia e migliaia di persone straniere. Tuttavia abbiamo fatto una scelta forte di politica culturale: insegniamo cinese, arabo, russo, giapponese, inglese, francese, spagnolo, tedesco, serbo, croato, lituano e coreano agli italiani. Facciamo questo non soltanto per gli studenti e le studentesse dei corsi di laurea, di laurea magistrale, che abbiamo nella nostra Università; lo facciamo anche alle imprese di un territorio che vede la sua cifra nell’eccellenza produttiva.
L’immaginario che gli stranieri hanno dell’Italia, probabilmente è la classica collina con i cipressi: chissà se significa Toscana, Marche, Umbria, Lazio o cos’altro, ma è quello l’emblema essenziale che evoca l’Italia; un’esperienza che si concretizza in prodotti che possono essere quelli della enogastronomia, della manifattura industriale, e che sono scelti perché evocano il sistema di valori culturali che si concretizzano nella nostra storia dell’arte, nella musica, nel paesaggio, ecc. Ebbene, facciamo un servizio anche alle imprese: abbiamo fatto questa scelta di aprirci alle lingue degli altri perché pensiamo che gli stranieri saranno invitati a scegliere la nostra lingua se vedranno, da parte nostra e della nostra società, altrettanta attenzione per le loro lingue. Non possiamo più proporre una politica centrata soltanto sulla diffusione della nostra lingua, ma in termini di dialogo tra la nostra lingua e le altre: oggi la questione della lingua in Italia è la questione delle lingue straniere entro il nostro sistema sociale e scolastico. Stiamo perdendo un’occasione, su questo punto, cioè il fatto di avere in casa – a scuola sono ormai quasi un milione – i bambini di origine straniera, che cioè hanno all’interno del loro spazio linguistico un’altra lingua; magari, il più delle volte, mai entrata, mai stata presente nei nostri spazi linguistici e culturali. Stiamo perdendo un’occasione che invece gli inglesi non perdono: di utilizzare questi bambini come soggetti primari di un plurilinguismo attivo che vede convivere le lingue d’origine familiare e l’italiano, e che per questo diventano veri ambasciatori, veri soggetti capaci di diffondere il nostro sistema industriale, produttivo, economico e, ovviamente, culturale. Che cosa può fare un’Università in questo settore? Insegnare alta formazione, fare ricerca scientifica. Nel 2001 il Ministero dell’Università ha istituito, presso l’Università di Siena, un centro d’eccellenza della ricerca: l’Osservatorio dell’italiano diffuso tra gli stranieri, e delle lingue immigrate in Italia.
Nel 2000 circa il 25% degli stranieri si avvicinavano alla nostra lingua perché con l’italiano si poteva fare commercio e fare carriera sul posto di lavoro. Se vogliamo pensare a un posizionamento dell’italiano nella graduatoria delle possibili lingue più diffuse nel mondo, troviamo un fatto interessante: come lingua parlata da nativi, l’italiano è intorno al 20° posto. Siamo, nella migliore delle stime, al livello della lingua vietnamita. Ma come lingua oggetto di studio da parte degli stranieri saliamo, almeno nel 2000, al 4° posto. È questo scarto che segnala la grande vocazione internazionale dell’italiano. Ma ricordiamoci di quando diceva Aristotele: «potenza è atto». Allora, «potenzialità» deve corrispondere a un «atto» che soggiace a condizioni di possibilità di questo atto; e alcune di queste condizioni oggi non sono assolutamente presenti. La domanda che mi pongo è questa: il posizionamento come lingua straniera ci vedeva messi bene. C’è stata la crisi globale che ha colpito i consumi culturali, dunque anche i consumi linguistici.
I dati che abbiamo raccolto come Osservatorio ci restituiscono una fotografia un po’ strana ma interessantissima. Prendiamo il caso di Londra, la capitale europea con il più alto tasso di plurilinguismo. Ebbene, il maggior numero di lingue si concentra a Londra; il maggior numero di corsi di lingua si fa a Londra. Eppure a Londra, nel 2000, fu fatta un’indagine che rivelò che la lingua italiana è la 5° per numero di corsi organizzati a Londra, ed è solo per appena cinque corsi dietro al tedesco. Questa indagine è stata rifatta, esattamente pochi mesi fa. E il risultato è strabiliante: il tedesco e il francese sono calati del 40%: la crisi evidentemente ha picchiato duro; l’italiano, invece, tiene la posizione: è calato appena del 5%, e quindi dovremmo essere abbastanza soddisfatti. Ma cinese e arabo sono aumentati del 40%. Il cinese perché il governo di Pechino ha deciso che la propria lingua, nel giro di pochi anni, diventerà la lingua straniera più parlata nel mondo; e l’arabo per motivi geopolitici, di rilevanza industriale e quant’altro, che fanno sì che i giovani, quando devono investire il proprio futuro professionale in una lingua, lo fanno nell’arabo. Allora mi chiedo: sapremo sostenere questa concorrenza? Potremo puntare solo alla rendita di capitale che ci deriva dall’essere lingua di una tradizione intellettuale plurisecolare? Nel mercato globale delle lingue, delle culture, delle economie e delle società, non basta avere un capitale forte, bisogna saperlo investire. C’è una grande carenza di approccio all’industrializzazione della nostra lingua. Innanzitutto non esiste un’industria italiana della lingua italiana. A livello comunitario è stato redatto qualche mese fa un bellissimo rapporto sull’industria delle lingue in Europa, e l’Italia non esiste.
Abbiamo quattro case editrici che pubblicano manuali di italiano come lingua straniera, e forse un’impresa che realizza materiali multimediali. Ma dove sono gli industriali che investono, che creano poli industriali, che danno lavoro e speranza a coloro che si laureano a Siena, Perugia, Roma Tre o altrove? Manca un’industria culturale della lingua italiana, manca un approccio di industrializzazione alla diffusione della lingua italiana. E questo si riflette anche su una possibile politica rivolta alla comunità d’origine italiana nel mondo. Noi incontriamo sistematicamente i giovani toscani nel mondo: vengono a Siena, vengono in Toscana, e ci chiedono: «come posso investire, come posso far fruttare questo patrimonio d’origine italiana, di cui sono comunque portatore, nella mia attività professionale, nei Paesi di cui sono cittadino e dove vivo?». La lingua italiana è capace di evocare valori identitari forti: il gusto, l’estetica. Se noi chiediamo un «freddoccino» qui in Italia, non sanno che cosa sia. Gli stranieri si sono creati una bevanda, un cappuccino freddo, e gli hanno dato un nome inventato, preso appunto dalla base semantica italiana. Se camminiamo per una qualsiasi città del mondo, da Tokyo a New York, dopo l’inglese e dopo la lingua locale, la lingua più visibile è l’italiano. È su questa forza evocatrice che dobbiamo puntare. Lingua di pace: in Israele abbiamo lavorato con l’Istituto Italiano di Cultura all’elaborazione di alcuni manuali di italiano che possono essere utilizzati. In Libano era in missione di pace il 186° Reggimento Folgore che è di stanza a Siena. Un giorno mi chiama il comandante e mi dice: «Professore abbiamo un problema: i sindaci delle cittadine in cui operiamo ci chiedono di insegnare l’italiano». E dato che in Libano avevamo lavorato all’inserimento dell’italiano nel sistema scolastico – dove l’italiano è la seconda lingua più studiata dopo l’inglese e prima del francese –, avendo realizzato il materiale didattico, abbiamo dovuto insegnare al caporal maggiore Lo Surdo a fare l’insegnante di italiano. Mentre gli altri contingenti militari non capivano perché agli italiani nessuno sparasse addosso. Alla fine, per verificare se era vero che dipendeva dalla nostra capacità di utilizzare la nostra lingua e cultura come strumento di pace, hanno mandato i loro ufficiali e sottoufficiali a fare i corsi d’italiano alle dirette dipendenze del caporal maggiore Lo Surdo.
Tra certificazioni e progetti di ricerca, manca l’industria e manca un riconoscimento vero di quello che le università stanno facendo oggi. È una cosa molto semplice: creare i docenti di italiano come lingua straniera. È dal 2000 che, per la prima volta dall’Unità d’Italia, il nostro Stato ha un percorso coerente e completo per diventare insegnante d’italiano, valutatore d’italiano, come lingua straniera. Vorrei sapere: in che modo i giovani che investono in queste lauree, lauree magistrali, delle scuole di specializzazione, dei dottorati, possono vedere riconosciuto questo loro investimento culturale?
 
* Testo tratto dalla relazione tenuta alla Tavola Rotonda promossa a Roma dalla Società Dante Alighieri e dai parlamentari eletti nella Circoscrizione Estero.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017