Per Obama una strada tutta in salita

La riforma sanitaria ha ridato fiato al presidente. Ma ora lo attendono le elezioni di Mid-Term. Mentre la ripresa economica resta lenta, e la dissocupazione alta. In sofferenza anche la pancia dell'America.
14 Aprile 2010 | di
New York
Bettero. Barack Obama ce l’ha fatta a ottenere, anche se tra non pochi compromessi, la riforma della Sanità negli Stati Uniti. E adesso che cosa cambia?
Molinari
. Quello provocato da Obama è un «terremoto» auspicato fin dalla sua campagna elettorale: 32 milioni di cittadini americani non coperti dall’assicurazione sanitaria, adesso potranno, anzi dovranno averla in ragione di una riforma che comporta l’obbligo, per ogni cittadino americano, di ottenere una polizza assicurativa. Le Compagnie private non potranno negare le polizze per motivi pregressi, e i datori di lavoro dovranno assicurare i loro dipendenti. E, soprattutto, l’intero sistema sanitario privato sarà obbligato a ridurre le tariffe. È una riforma che va incontro in particolare ai bisogni dei ceti medio-bassi. Infatti i poveri erano già coperti dai programmi assistenziali esattamente come la terza età. Questi 32 milioni di americani scoperti si posizionavano invece nella fascia medio-bassa del reddito. D’ora in poi, anche loro potranno avere accesso alla medicina preventiva.
Qualcuno ha insinuato che la fretta di Obama di chiudere la partita sanitaria sia dipesa in gran parte dalle elezioni di Mid-Term di Novembre. Questo ha intaccato l’integrità del suo progetto iniziale o possiamo dire che Obama ha comunque incassato un successo a pieni voti?
Obama auspicava un accordo sulla riforma sanitaria già nell’autunno scorso. L’accordo gli è sfuggito, e questo ha comportato una dura disputa politica all’interno del Partito Democratico che lo ha indebolito; ha indebolito l’immagine dell’amministrazione presso i cittadini, lo ha fatto scendere nei sondaggi e, quindi, nelle ultime settimane c’è stata davvero una maratona politica nel tentativo di evitare che il fallimento della sanità si ripercuotesse in maniera negativa sul Partito Democratico alle elezioni di novembre. Obama ci è riuscito, e la Casa Bianca sta tentando ora di sfruttare il momento positivo con tutta una serie di iniziative: dall’accordo Start con la Russia sulla riduzione delle armi nucleari strategiche, al lancio della riforma finanziaria al Congresso, fino al viaggio in Afghanistan per rilanciare le riforme anche in quel Paese, in chiave anti talebana. La strategia che ispira queste mosse è quella di sostenere un recupero di popolarità del presidente che al momento è al 46% cioè 22 punti in meno del giorno del suo insediamento, per aiutare i Democratici nella sua volata contro i Repubblicani alle elezioni di Novembre.
Quali sono i compromessi più pesanti – anche con il mondo cattolico e con gli antiabortisti – che Obama ha dovuto raggiungere per convincere il Congresso degli Stati Uniti ad approvare la sua riforma sanitaria?
L’accordo sulla Sanità alla Camera non sarebbe stato possibile e la riforma non sarebbe passata senza il consenso di una folta e combattiva pattuglia di antiabortisti guidata dal deputato del Michigan, Bartholomew Stupak. Fino alla fine Stupak ha lasciato in forse il suo sostegno. Senza quei voti, la riforma non sarebbe passata. Obama, attraverso la mediazione della presidente della Camera, Nancy Pelosi, ha ceduto accettando di firmare un ordine esecutivo che proibisce lo stanziamento di fondi federali per l’interruzione della gravidanza. Il nodo da sciogliere era decisivo perché all’interno della riforma sanitaria approvata dalla Camera, ci sono i fondi federali per l’interruzione della gravidanza; perché l’ala liberal del Partito Democratico era riuscita a ottenere questo. L’ordine esecutivo neutralizza questo aspetto della legge e garantisce i gruppi antiabortisti. Naturalmente si è innescato subito un duro scontro all’interno della galassia antiabortista nel quale i conservatori hanno contestato a Stupak di aver ottenuto un ordine esecutivo che, in realtà, è molto ingannevole, mentre Stupak ha affermato che a sbagliare sono i conservatori, e che questa vittoria antiabortista è arrivata da sinistra e non da destra.
Sugli Stati Uniti grava la pesante incognita della ripresa. Gli osservatori internazionali e anche gli indicatori economici dicono che la spinta recessiva sembra essersi fermata ma il ritorno ai livelli del 2006-2007 sembra essere ancora lontanissimo. Lei che ne pensa?
Penso che questo sia il vero tallone d’Achille dell’amministrazione Obama. Le previsioni erano di una disoccupazione attestata in primavera all’8%. In realtà siamo al 9,7%, e questo nonostante esista una ripresa seppur debole. Al momento vengono creati ogni mese circa 100 mila posti di lavoro, ma questo non consente di abbassare il livello della disoccupazione a causa della crescita demografica di questa grande nazione. Le piccole e medie imprese non riescono ad aumentare il livello delle assunzioni. Obama spera che la riforma appena approvata possa innescare un sistema di sgravi a favore delle imprese che garantiranno la copertura sanitaria, e che quindi possa indirizzare risorse nella direzione dello sviluppo. Inoltre sono in atto una serie di iniziative pubbliche, soprattutto a favore degli Stati, per incentivare l’occupazione. È chiaro che su questo fronte restano ancora le difficoltà maggiori, e se sarà così, la partita delle elezioni di Mid-Term si giocherà non tanto sulla riforma sanitaria, ma anche sull’umore della classe media falcidiata dalla disoccupazione.
Le elezioni di novembre possono essere un pericolo concreto per l’amministrazione democratica. Su quali fronti Obama rischia di più?
Obama rischia di più sul fronte dell’economia, sul calo dei consumi, su quello dell’indebolimento dei risparmi degli americani, della percezione dell’opinione pubblica che il Paese è più povero di prima. A vantaggio di Obama può esserci la riforma sanitaria, ma il punto è che la riforma sanitaria, in realtà, avrà piena efficacia solamente nel 2014, e quindi si voterà a novembre ancora con la percezione della riforma ma non sulla sua implementazione. L’altro problema che ha Obama è l’immagine di un presidente eccessivamente proteso al compromesso con gli avversari, ovvero non determinato a difendere l’interesse nazionale americano nell’approccio con Paesi concorrenti sul fronte economico come la Cina, sul fronte strategico come la Russia, o sul fronte dei pericoli provenienti da Iran o Siria. I Repubblicani cavalcano molto questa percezione di un presidente debole, puntando a staccare da lui il sostegno di elettori indipendenti negli Stati del Middle West, la grande pancia dell’America, che è la stessa a pagare, in questo momento, il costo più alto della perdurante fase di difficoltà economica.
La guerra in Medio Oriente e le nuove tensioni in Israele possono diventare un’ulteriore spina nel fianco per Obama?
Il presidente sta sfruttando questa crisi esattamente al contrario ovvero per testimoniare la sua capacità di decisione, il piglio del leader che ha in mente degli interessi in un orizzonte più ampio, e quindi è disposto anche a un braccio di ferro con l’alleato israeliano pur di sbloccare il negoziato con i palestinesi sul difficile nodo di Gerusalemme. Non a caso, la Casa Bianca ha fatto trapelare indiscrezioni anche su una duplice burrascosa telefonata di Obama con il presidente russo Medvedev sul tema dello scudo stellare anti-missile proprio per avvalorare l’immagine di un presidente molto determinato. Saranno le prossime settimane a dire se queste mosse sullo scacchiere mediorientale e sul fronte russo saranno favorevoli al presidente.
I Repubblicani e anche alcuni osservatori internazionali contestano a Obama di aver ceduto potere e sovranità, soprattutto economica, ai Paesi asiatici emergenti. Questa constatazione è reale? Può diventare un pericolo oggettivo per gli Stati Uniti e per il mercato interno del lavoro?
Assolutamente sì. La questione di fondo è che Obama all’inizio ha avuto un fronte interno con tutti quegli esponenti del mondo liberal e democratico che si opponevano a una strategia del libero commercio nell’area del Pacifico. Il presidente ha avuto bisogno di parecchi mesi per convincere questo zoccolo interno del suo Partito – che era stato decisivo nello strappare molti Stati alle elezioni del 2008 – della necessità di spostare la strategia del libero commercio sul Pacifico. È riuscito in questo, e da qui è scaturita la decisione di mantenere il dollaro a livelli bassi, continuando a contare sulle esportazioni. Tutto questo, però, avviene nell’ambito di un rapporto con la Cina che diventa conflittuale anche sul tema dei diritti umani, complicando non poco i rapporti con l’estremo oriente; e questo lo vediamo nella disputa che riguarda Google e le sue operazioni in Cina. Nel complesso, io credo che si possa dire che in questo momento l’amministrazione Obama sia consapevole che la maggior parte dei suoi scambi commerciali viene dall’area del Pacifico e non più dall’Atlantico, e che quindi ha la necessità di una forte presenza in quest’area, di un dollaro debole ma anche di poter coltivare rapporti politici molto delicati e complessi.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017