Padre Placido Cortese un silenzio che gli costò la vita

Direttore del "Messaggero" e impegnato nell'assistere ebrei e altre vittime del nazifascismo, venne arrestato e sottoposto a tortura. Preferì morire piuttosto che rivelare i nomi dei collaboratori.
24 Agosto 2004 | di

Nel dopoguerra usciva un libro, Anche i preti sanno morire,nel quale don Primo Mazzolari (ricorre quest'anno il 45mo della sua morte) raccontava storie di sacerdoti uccisi da opposti fanatismi: nazifascista e comunista. Diverse le vicende, uno solo il risultato: il martirio. Mazzolari era consapevole che il suo martirologio non era completo, che altri martiri andavano aggiunti. Uno di essi è un francescano minore conventuale, dei frati del Santo: padre Placido Cortese. L'allora rettore della basilica, nel denunciare al questore di Padova l'assenza inspiegabile dal convento di padre Placido (era stato sequestrato dalle SS l'8 ottobre 1944), lo descriveva così: È una persona di media statura, corporatura piuttosto gracile e snella, storto negli arti inferiori, viso oblungo, capigliatura bionda, occhi celesti con occhiali a stanghetta, dall'incedere claudicante. Devo precisare che verso le ore 13 di ieri (domenica) due sconosciuti chiesero del suddetto padre con rozza insistenza. Uno era di media statura, faccia piena, carnagione bruna e giacca marrone scuro. L'altro, che si teneva in disparte, slanciato, magro e senza il braccio destro, con un impermeabile.
A consegnarlo alle SS, che attendevano oltre il sagrato della basilica (territorio pontificio), era stato un amico, che gli aveva teso una trappola facendolo chiamare dal portinaio del convento per prestare un soccorso d'urgenza ad alcuni rifugiati. Tra l'8 ottobre e il 15 di novembre di quell'anno, si consumava il dramma di padre Placido, martirizzato nella sede della Gestapo di piazza Oberdan, a Trieste. Interrogato, torturato, non svelò i nomi dei suoi collaboratori, pur sapendo che ciò gli sarebbe costato la vita.
Durante la guerra, il delegato pontificio della basilica del Santo, cardinale Francesco Borgongini Duca, gli aveva affidato l'incarico di assistere ebrei, profughi slavi (parlava bene il croato), giovani sloveni, fuggiti dal proprio Paese per sottrarsi al conflitto e internati nel campo di concentramento allestito alla periferia di Padova, in località  Chiesanuova.

L'Italia divisa e preda del caos

Nell'autunno del 1944, l'Italia era nel caos. Due i governi, la Repubblica sociale di Salò, al Nord, e il governo di unità  nazionale (Roma era stata liberata) al Centro Sud: due eserciti in lotta fra loro, tedeschi contro gli alleati. Inevitabile la lacerazione del tessuto civile. Ci fu chi combatté a fianco degli alleati, chi scelse la montagna come partigiano, e chi preferì continuare a credere al duce. La maggioranza degli italiani fu attendista, zona grigia (l'espressione è di Primo Levi, adottata dagli storiografi), stette, cioè, a guardare, atterrita dall'orrore nazista e dal furore partigiano. Una specie di resistenza sommersa, ha detto Riccardo Chiaberge nel suo recente lavoro Salvato dal nemico, 1944: una strage nazista nell'Italia divisa dall'odio (Ed. Longanesi).
Padre Cortese, allora anche direttore del Messaggero di sant'Antonio - che a causa della guerra aveva limitato le uscite - non si allineò mai con i più forti. Non era un rivoluzionario, ma nemmeno neutrale. Come dice il Vangelo, condivise la sorte di sbandati, ricercati e perseguitati. A Padova, all'indomani dell'Armisitizio (8 settembre 1943), egli faceva parte di quei preti che consigliavano le ragazze della città  a presentarsi nelle caserme, dichiarandosi, per sottrarli alla deportazione, sorelle o fidanzate dei soldati reclusi, che poi ospitavano nelle proprie case, vestendoli con gli abiti dei fratelli o dei papà  di-spersi o morti in guerra.
I tedeschi consideravano padre Placido un protettore dei perseguitati politici. Egli, soprannominato frate zoppino, sotto la tonaca - racconta un suo collaboratore, oggi farmacista in pensione - nascondeva il pane per i poveri. La coscienza lo spingeva a disattendere i rischi.
Di che cosa lo accusavano? Dice Lidia Martini Sabbadin, testimone e sua collaboratrice: Era accusato di aver protetto ebrei in fuga verso la Svizzera, via Milano; di solidarizzare con il gruppo Fra-Ma, Franceschini-Marchesi, due noti professori dell'Università  di Padova (Concetto Marchesi era anche Rettore magnifico), sorto nel giugno del 1944 per soccorrere i prigionieri alleati e aiutare i rifugiati sloveni, croati... che i tedeschi consideravano partigiani comunisti. Fingevo, in basilica, di accostarmi al suo confessionale per confessarmi, invece era un modo per chiedere denaro e fotografie utili a contraffare i documenti. Usavo slogan convenzionali: Abbiamo bisogno di dodici rami... di dodici scope.... E così usciva dal confessionale e mi accompagnava alla Tomba di sant'Antonio per individuare dodici foto esposte fra gli ex voto.

L'arresto, le torture, il martirio

Padre Placido rischiava ogni giorno di essere catturato e ucciso. Le autorità  religiose e alcuni confratelli gli consigliavano di andarsene, lontano da Padova. Ma lui, clandestino in convento, continuava nella sua opera, nonostante i più stretti collaboratori fossero stati arrestati o, per timore del peggio, avessero lasciato il terreno della solidarietà . Inviava messaggi agli alleati perché salvassero prigionieri: Furono centinaia - scrive il suo biografo Apollonio Tottoli - a salvarsi attraverso la linea Padova-Milano-Svizzera.
All'inizio dell'autunno del 1944, la basilica del Santo fu oggetto di visite improvvise da parte di commandi nazifascisti, per arrestare il frate o per scoprire rifugiati sospetti. Li tratteneva, dicono gli storici, il timore di uno scandalo diplomatico con il Vaticano. Dell'esenzione territoriale si era servita anche una giovane intellettuale ebrea, che si nascondeva in uno dei chiostri del convento. Ma fu arrestata dalle SS in abito civile, vanificando il tentativo di padre Cortese di sottrarla alle leggi razziali.
Janez Ivo Gregorc prigioniero, testimone dell'agonia di padre Cortese, scrive: Padre Placido era terribilmente malridotto: l'avevano bastonato, picchiato; il vestito lacerato e la faccia rigata di sangue. Ho ancora presenti le sue mani deformate e giunte in preghiera. Ci siamo riconosciuti. Mi incoraggiava a rimanere fedele, a confidare in Dio, a non tradire nessuno.
Il celebre pittore sloveno Anton Zoran Music, per un mese prigioniero nelle celle delle torture della Gestapo a Trieste, poi deportato nel campo di concentramento di Dachau, rievocando la figura del Cortese, confidò al compagno di campo Janez Ivo Gregorc: Mi ricordo che nel bunker di piazza Oberdan c'era un sacerdote, un certo padre Cortese. Erano visibili sul suo corpo i segni delle torture. Lo vidi per la prima volta quando ci portarono tutti in Questura per le fotografie di rito. Sulla giacca era vistosa una grande macchia di sangue. L'avevano picchiato duramente. Era una persona squisita. Teneva un comportamento da mite e pieno di speranza. Pregava sempre, a mezza voce. Gli avevano spezzato le dita. Mi colpiva la sua tenace volontà  di resistere. La fermezza e la fede di quel piccolo e fragile padre, che non si arrese e non tradì nulla.
I frati del Santo lo ricordano come un religioso di grande spessore spirituale, umile, coraggioso, vero testimone di amore al prossimo. Interpellato, il santo padre Pio rispose, tramite suor Giustina Fasan, Dica ai padri del Santo che non facciano ricerche su padre Cortese, perché è in paradiso per la sua grande carità .
Il padre Placido, da novizio, aveva scritto ai genitori: Il cristianesimo è un peso che non ci si stanca mai di portare, che sempre più innamora l'anima verso maggiori sacrifici, fino a morire tra i tormenti come i martiri. Era stato profeta. Infatti, riferisce Vladimir Vauhnik, colonnello sloveno, capo della rete informativa pro-alleati: Al religioso Placido Cortese la Gestapo cavò gli occhi, tagliò la lingua e lo seppellì vivo. Aveva 37 anni e otto mesi! Padova ha dedicato una via alla sua memoria.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017