Padre Rick l’angelo di Haiti
Lo chiamano il «Paese suicida», è la parte occidentale dell’isola di Hispaniola, il luogo in cui approdò Colombo, l’inferno delle Antille dove si avvicendano carestie, guerre civili ed epidemie. Su tutto questo si è aggiunto il terremoto dello scorso gennaio che ha ucciso 250 mila haitiani. Ad Haiti manca tutto. La tensione è palpabile non appena, provenienti da Santo Domingo – la «parte felice» dell’isola – si esce dall’aeroporto di Port-au-Prince, la capitale dell’antico possedimento coloniale francese che si ribellò ai suoi padroni e diventò, nel 1804, «La Repubblica nera». Qui gli schiavi divennero padroni di quella che era una colonia ricca e produttiva. Oggi, dall’alto, la città è una distesa grigiastra di lamiere, tendoni e cemento.
È in questo «giardino del diavolo» che da vent’anni lavora a mani nude contro i demoni padre Richard Frechette, per tutti padre Rick, un missionario americano che ha dedicato tutta la sua vita ai bambini di Haiti, assistendoli fin sul letto di morte, prendendosi cura degli orfani, nutrendo e istruendo i più poveri. L’ho incontrato la prima volta due anni fa mentre guidava il suo camion bianco verso l’ospedale Saint Damien. Gli stavo accanto ad ascoltarlo, cercando di scribacchiare appunti mentre il camion sobbalzava tra le buche dell’asfalto. Dai finestrini guardavamo quell’umanità dolente che si riversava per le vie, in una continua e spasmodica ricerca di cibo, tra i mercati di carne putrida assediata da cumuli di mosche, ciotole vuote, bambini di strada, colonne di fumo che si levavano dalle braci, poveri corpi riversi sui marciapiedi. In quell’occasione padre Rick mi spiegò le quattro piaghe di Haiti: «Il Paese è preda dell’inflazione, della miseria senza limiti, del narcotraffico e dello strapotere delle gang». Oggi ne aggiunge una quinta: il terremoto. Padre Rick appartiene all’organizzazione «Nuestros Pequeños Hermanos», («Nostri piccoli fratelli»), che si occupa degli orfani delle Antille e del Sudamerica. Viene dal Connecticut, terra di operai e taglialegna. Ha il fisico massiccio, l’attivismo di un cowboy e la spiritualità di un monaco cistercense. Per assistere meglio i suoi piccoli e comprenderne i problemi si è laureato in medicina e chirurgia. «Me ne andavo a Miami e New York a sostenere gli esami e tornavo subito indietro: un’ora e mezzo di volo per attraversare due mondi completamente differenti». Uno dei suoi modelli è madre Teresa di Calcutta, che cita in continuazione: «Ho lavorato a lungo e in stretto contatto con le sue sorelle. Quando morì porsi le mie condoglianze a sorella Magda, che era spagnola ed era laureata in medicina e chirurgia. Lei mi rispose: “Comparto tu sentimiento”, che letteralmente significa “condivido le tue emozioni”. E aggiunse: “Se condividi le mie emozioni, vuol dire che condividi la mia gioia”. Ho pensato molto a quella risposta. L’ho capita anni dopo, tra le macerie del terremoto. Una morte porta tristezza, ovvio. La tristezza dipende dall’amore per quelle persone. Fare a meno della tristezza in una morte è come fare a meno dell’amore in una vita. La tristezza è il riflesso dell’amore, della gioia». Quando quei maledetti 34 secondi squassarono un Paese già in ginocchio, padre Rick era nel Connecticut, al capezzale della madre morente. «Una morte serena, durante la quale ha avuto occasione di pensare alla sua vita e all’amore dei suoi figli. È morta mentre consacravo il pane e il vino in una messa privata, davanti al suo letto».
Dio ha voluto che negli istanti del cataclisma padre Rick, l’angelo di Haiti, rimanesse vivo per continuare a lottare a mani nude contro i demoni dell’isola. A Port-au-Prince è crollato quasi tutto, compreso l’ospedale di Petionville, in cui erano stati curati migliaia e migliaia di bambini. La struttura del Saint Damien, l’ospedale pediatrico più grande dei Caraibi, costruito grazie al buon cuore degli italiani, è una delle poche rimaste in piedi. «Subito dopo la scossa medici e infermieri sono scesi in strada a scavare per estrarre corpi. Lo hanno fatto con coltelli, con forchette o a mani nude. Era tutto quello che avevano».
34 secondi per morire
«Mentre tornavo precipitosamente in aereo nella mia città ferita a morte, pensavo al tempo lento e pieno che aveva dato a mia madre la possibilità di morire consapevolmente, e ai secondi – solo 34 – concessi invece alla mia gente.
Anche il mio vescovo se n’è andato così. Anche lui ha avuto 34 secondi per ripercorrere la sua vita. Il punto è semplice. Noi non possiamo sfuggire alla morte. Il terremoto è stata una grande lezione per tutto il mondo. La lezione di quanta fortuna ci sia a morire nel modo giusto, magari dopo una vita piena, sazi di giorni, fede e amore».
Il nome sontuoso di Port-au-Prince non ha niente a che fare con la malasorte di Haiti.
Siamo ai Caraibi ma è come se fossimo nell’Africa nera, di cui Haiti condivide l’etnia dei suoi abitanti (tutti ex schiavi del Continente nero) e le condizioni economiche spaventose che ne fanno uno degli Stati più poveri del mondo, insieme con la Sierra Leone e lo Zambia.
Le lancette della storia e dell’economia si sono fermate da almeno cinquant’anni, soprattutto per colpa dei suoi uomini di potere, in gran parte feroci dittatori cui non interessava affatto governare e modernizzare il Paese. Bastava tenerlo in pugno con il terrore dei suoi pretoriani (come i famigerati Tonton macoutes di Papa Doc Duvalier) e il consenso di una ristrettissima borghesia in gran parte rapace e inetta, che possiede ville da sogno sulle colline del quartiere di Petionville e si gode la vita danzando sulle sventure del 99 per cento della popolazione. Quasi tutti gli haitiani vivono di un’economia di sussistenza o delle rimesse dei parenti che lavorano in Florida.
Ma Haiti non morirà
«Dopo settimane di attività frenetica – riassume padre Rick – stiamo tornando lentamente a uno stato di equilibrio. Non è ancora la normalità, ma la direzione è quella. Ci sono molti orfani. Il nostro orfanotrofio di Sant’Elena, rimasto in piedi, è ormai stracolmo. Da quando il Saint Damien è diventato Mash (unità chirurgica dell’esercito, ndr), con una ventina di medici chirurghi volontari, la maggior parte delle operazioni consiste in amputazioni. Ci sono 20 mila pazienti, soprattutto bambini, che hanno subìto una o due amputazioni agli arti. Tutti devono essere seguiti da vicino per i controlli medici, le cure contro le infezioni, la riabilitazione. Stiamo lavorando in collaborazione con il nunzio vaticano, la Caritas, l’ospedale dei camilliani, la conferenza dei vescovi haitiani, la protezione civile e la portaerei Cavour. La fabbrica di Francisville è stata riconvertita alla produzione di protesi. Gli sfollati sono centinaia di migliaia. Tra i quali decine di migliaia di bambini orfani che vagano senza meta. Ovunque, intorno a noi, vi sono problemi».
Ma il padre passionista con il fisico da cowboy non è per nulla abbattuto da questa apocalisse. «Haiti risorgerà − continua a ripetere mentre vaga da un luogo all’altro di Port-au-Prince −. Per favore, condividete la nostra tristezza. Ma non perdete anche l’occasione di condividere la nostra gioia. Haiti è un Paese giovane, l’età media è 16 anni, si risolleverà presto e rivivrà giorni felici. Pregate per noi e aiutateci». Sui tap tap, i tradizionali mezzi di trasporto di Port-au-Prince c’è scritto: «Dio è buono, domani vedremo cosa sarà».
Fondazione Francesca Rava
Aiutare dall’Italia
La Fondazione Francesca Rava rappresenta in Italia NPH - «Nuestros Pequeños Hermanos»,
organizzazione operativa in Haiti da ventidue anni sotto la guida di padre Rick Frechette, con numerosi progetti in aiuto all’infanzia: un orfanotrofio, l’Ospedale pediatrico N.P.H. Saint Damien, scuole di strada per 6 mila bambini, la Casa dei piccoli angeli, centro di riabilitazione per bambini disabili, il Centro di Francisville con laboratori di artigianato e piccole imprese solidali, programmi di distribuzione di acqua e cibo. Sono migliaia i bambini senza manine, braccia o gambe che, in un Paese così difficile anche per un bambino normale, si troveranno ad affrontare una vita di sofferenza ed enormi difficoltà nelle tendopoli e negli alloggi di fortuna. N.P.H. ha già attivato il programma di riabilitazione dei bambini mutilati. Dal 22 febbraio sono al lavoro una squadra di ingegneri, fisiatri e ortopedici volontari giunti da Pordenone per l’applicazione di protesi temporanee. Ma c’è ancora tanto bisogno.
Per chi volesse offrire un aiuto concreto:
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