Paolo, apostolo dell’unità

Il 28 giugno si aprirà l’anno paolino nel bimillenario della nascita dell’apostolo delle genti. Un’occasione per riscoprire l’attualità del suo messaggio, «vero patrimonio dell’umanità redenta da Cristo», come ha affermato Benedetto XVI.
26 Maggio 2008 | di


Grande e instancabile comunicatore della buona novella, san Paolo è stato nella sua stessa carne l’esempio di come la fede in Gesù Cristo figlio di Dio possa trasformare la persona. E le modalità in cui la fede si è manifestata dentro di lui lo rendono particolarmente vicino all’uomo di oggi.
Sulla strada verso Damasco, quando una forza misteriosa lo getta a terra e una luce lo avvolge, Paolo si chiama ancora Saulo e non solo non è cristiano ma sta andando a imprigionare i seguaci di Gesù perché così gli è stato ordinato.


Chi era Paolo di Tarso?

Nato a Tarso, città spiccatamente cosmopolita, Saulo (in onore del re Saul) è figlio di un commerciante ebreo ma ha diritto alla cittadinanza romana. Per questo porta anche il nome latino di Paolo. Quella che riceve è una perfetta educazione ebraica in ambiente ellenistico. Va a studiare a Gerusalemme e parla l’ebraico, ma impara anche il greco. Il suo maestro, Gamaliele, è un famosissimo dottore in legge della corrente farisaica, che mette al centro del giudaismo la conoscenza della Scrittura. Saulo non incontra mai Gesù perché negli anni della predicazione di Cristo non è a Gerusalemme. Sappiamo però che vi fa ritorno dopo la crocifissione e che è presente alla lapidazione di Stefano, il primo martire, perché gli viene affidato il compito di tenere gli abiti di coloro che lanciano le pietre contro il condannato. Attivo fariseo, con diritto di voto nel sinedrio – il tribunale ebraico – Saulo è un persecutore zelante dei cristiani: li cerca, li scopre e li fa condannare.

Eppure proprio in un uomo come lui il Signore si fa presente in modo tanto misterioso quanto vigoroso. E per Paolo la conversione diventa subito missione. Nel momento in cui si sente interpellato, avverte il bisogno di annunciare il dono che ha ricevuto. A questo proposito, per capire come Paolo opera dopo la conversione, non c’è forse luogo più significativo di Efeso, la città dell’attuale Turchia in cui l’apostolo incontra per la prima volta aspiranti cristiani provenienti non dal mondo giudaico ma da quello pagano, i cosiddetti gentili.
Gli Atti degli apostoli descrivono un Paolo che parla con tutti ma quando qualcuno si rifiuta di credere alla «nuova dottrina» si rivolge ad altri. Possiamo immaginarlo questo annunciatore che cerca di coinvolgere il maggior numero di persone: non ha tempo da perdere. Se la sua parola non ottiene l’effetto desiderato, va da un’altra parte. E molto bella è anche la definizione del cristianesimo come «nuova dottrina», perché ci ricorda come questa religione all’inizio fece i conti con altre fedi, culture e mentalità. Sempre capace di adattarsi, Paolo parla nella scuola di retorica di un certo Tiranno dalle 11 alle 16, le ore più calde, quelle in cui non si fa lezione. Cerca lo spazio là dove c’è. Ma questa flessibilità non gli impedisce di essere coraggioso. Quando si tratta di condannare il culto idolatrico della dea Artemide, attorno al quale gli argentieri hanno costruito un business molto vantaggioso, non si tira indietro. Non ha paura di turbare equilibri e interessi consolidati.
È una lezione utile anche per noi, cristiani del terzo millennio. Saulo-Paolo, educato da giudeo, cittadino romano, conquistato da Cristo, sembra incarnare l’uomo contemporaneo, caratterizzato da diverse identità. E tuttavia la sua non è una fede debole. Una volta ricevuta la consegna, mette questa sua versatilità a disposizione dell’annuncio. Cerca luoghi di incontro fra culture diverse, parla con tutti, si scontra con mentalità piene di superstizione, fa i conti con i riflessi più commerciali del culto religioso, si mescola totalmente con la gente che incontra. Tutto ciò lo mette spesso nei guai, ma i problemi gli derivano anche dai suoi stessi seguaci. Le comunità che fa nascere tendono a dividersi in gruppi e movimenti diversi, e c’è anche chi lo contesta. Per esempio, non manca chi riduce il cristianesimo a filosofia, tendenza naturale nel mondo greco, e allora ecco che Paolo ripropone con forza il messaggio della croce e della risurrezione dei morti.

Un anno paolino: perché?

Bastano questi brevi cenni per capire come l’indizione di un anno paolino, nel bimillenario della nascita dell’apostolo delle genti (collocata dagli storici fra il 7 e il 10 dopo Cristo), possa essere considerata un’occasione provvidenziale per riflettere, alla luce della vicenda di Paolo e dei suoi insegnamenti, sull’attualità del suo esempio e sul modo in cui annunciare la fede oggi.
Benedetto XVI ha spiegato che tra il 28 giugno 2008 e il 29 giugno 2009 numerosi saranno gli eventi liturgici, culturali ed ecumenici, così come le iniziative pastorali e sociali ispirate alla spiritualità paolina. Si tratta, ha detto il Papa, di far conoscere sempre meglio la ricchezza immensa di quello che può essere considerato un «vero patrimonio dell’umanità redenta da Cristo». Ma un particolare aspetto dovrà essere curato – ha chiesto il Pontefice – con attenzione e amore: la dimensione ecumenica, perché l’apostolo delle genti, ha scritto il Papa, non solo si è impegnato a portare la buona novella a tutti i popoli, ma «si è totalmente prodigato per l’unità e la concordia di tutti i cristiani».

Significativo è stato il fatto che quando Benedetto XVI nella Basilica vaticana ha dato l’annuncio dell’anno paolino, nel corso della celebrazione dei primi vespri nella solennità dei santi Pietro e Paolo, ad ascoltarlo c’era anche una delegazione del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, inviata da Bartolomeo I e venuta a ricambiare la visita della delegazione della Santa Sede a Istanbul in occasione della festa di sant’Andrea, considerato il fondatore della Chiesa ortodossa. «Questi incontri e iniziative – ha sottolineato il Papa – non costituiscono semplicemente uno scambio di cortesie tra Chiese, ma vogliono esprimere il comune impegno di fare tutto il possibile per affrettare i tempi della piena comunione tra l’Oriente e l’Occidente cristiani».

Volendo scegliere una sola parola, per riassumere l’eredità di san Paolo si potrebbe dire proprio «unità». Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo riuniti nella Trinità. Tutti i cristiani figli dello stesso Padre, salvati da Cristo e assistiti dallo Spirito. L’unica Chiesa al servizio di tutti nelle sue diverse forme. Tutti i cristiani uniti, ciascuno con le proprie responsabilità, nell’identica missione di portare Gesù agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo.
Giovanni Paolo II, per spiegare la sua propensione ai viaggi, disse una volta di sentirsi come san Paolo, «costretto» a viaggiare. Il lieto annuncio non può essere tenuto per sé, custodito gelosamente, magari in nome dell’identità. In quanto dono, va donato a sua volta. Il che presuppone il confronto continuo.

Paolo nel suo peregrinare missionario toccò moltissimi luoghi e altrettanti saranno quelli coinvolti nell’anno del bimillenario: dalla Siria alla Turchia, dalla Grecia a Israele, dalla Palestina a Cipro, da Malta all’Italia. Ma il punto di riferimento per tutti sarà ovviamente Roma. Non solo perché lì c’è la tomba dell’apostolo, ma perché Roma è a sua volta simbolo di unità, il luogo in cui l’impegno e il sacrificio dell’apostolo arrivano a sintesi.

Dio, fonte di libertà

Nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, il Papa aprirà l’anno paolino il 28 giugno 2008 e lo chiuderà il 29 giugno 2009. Sempre lì, all’interno del quadriportico, sarà aperta una porta dedicata all’apostolo, simmetrica rispetto alla Porta Santa, e il Pontefice, assieme a rappresentanti di altre confessioni cristiane, sarà il primo ad attraversarla. Lo stesso faranno i pellegrini che la varcheranno dopo di lui per raggiungere il sarcofago di Paolo, posto un metro e trenta al di sotto dell’attuale pavimentazione e reso visibile da una lunga serie di lavori incominciati sei anni fa.
Tra le tante iniziative pensate per il bimillenario (liturgie, convegni, mostre, concerti, pellegrinaggi, pubblicazioni) vanno sottolineati gli incontri periodici previsti con diverse categorie sociali: con i religiosi, i missionari, i sacerdoti, le parrocchie, i carcerati, gli studenti, i malati, i giovani, le famiglie, i senza casa, i cristiani delle altre confessioni.
Probabilmente Paolo avrebbe apprezzato questa apertura e questo desiderio di scambio. Lui fu animato dallo stesso fuoco, che gli diede persino la forza di portare l’annuncio di Cristo nel cuore della cultura dominante dell’epoca, all’areopago di Atene. Proprio lì, dove sentiva di essere più che mai sotto esame, parlò di un Dio che muore e risorge, l’annuncio più sconvolgente e incredibile. «Ti ascolteremo su questo un’altra volta», gli risposero gli ateniesi alzando le spalle e andando via, come si fa nei confronti di un pazzo visionario. Una sconfitta, apparentemente. Ma la testimonianza venne data anche lì, e senza annacquarla. I pellegrini che nella Basilica di San Paolo alimenteranno la «fiamma paolina», in un braciere che arderà per tutto l’anno, dovranno ricordarsene.
«Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,10). Paolo riassunse così, con una delle sue formulazioni folgoranti, la «rivoluzione» di un Dio che si fa annientare per amore. Duemila anni dopo resta il più insondabile dei misteri. Ma, per chi accetta di lasciarsi interpellare, è anche la fonte della più grande libertà.        

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017