Paolo Venturini, su due ruote agli antipodi. L’«Indiana Jones» della mountain-bike

È padovano, fa il poliziotto, e ha percorso in bici oltre 4.400 chilometri nel deserto australiano, da Adelaide a Darwin, rischiando di morire disidratato ma vivendo mille avventure che ha raccontato al «Messaggero».

Di ritorno dalla sua ultima impresa australiana, Paolo Venturini è venuto a trovarci. La redazione del «Messaggero di sant'Antonio», già  lo conosce come l'«adventure-man» della città  del Santo. Nato a Padova nel 1968, Paolo entrò nella Polizia di Stato come membro del gruppo di atletica leggera delle «Fiamme oro» e, nel 1987, vinse, con i colori del Corpo forestale dello stato, il titolo italiano «Juniores» di corsa su strada. Maratoneta di livello nazionale, in questi ultimi anni è maturata in lui la passione per la mountain-bike, con la quale ha compiuto alcune epiche «traversate», affrontate per la prima volta al mondo, in solitaria e senza assistenza tecnica: nel 1992 ha fatto il giro del lago Vittoria, attraverso i territori africani di Kenya, Tanzania e Uganda; nel 1995 ha attraversato i deserti del Kalahary e del Namib in poco più di un mese, dalla costa mozambicana dell'Oceano Indiano, fino alla costa atlantica della Namibia, per un totale di 3.300 chilometri; nel 1996 ha pedalato per 24 giorni attraversando i 2.237 chilometri di distanza dal nord al sud dell'isola del Madagascar.

L'ultima avventura di Venturini è stata il «The Kangaroo Raid», cioè l'attraversamento dell'Australia in 36 giorni, partendo da Adelaide, passando per l'Ayers Rock e il Kakadu National Park, fino a Darwin, capitale del North Territory: in totale 4.446 chilometri, dei quali, oltre tremila in ambiente desertico. Paolo è stato il primo al mondo a compiere questa impresa su una mountain-bike della Porsche. È lui stesso a raccontare la sua esperienza.

 

Msa. Qual è stato il momento più difficile e quello più bello della tua avventura?

Venturini. Il momento più difficile è coinciso con una delle tappe più lunghe del mio viaggio, quasi al termine della mia traversata e, sicuramente, se fosse capitato qualche giorno prima, ci avrei rinunciato. Percorrevo una tappa di 180 chilometri, con una temperatura sui cinquanta-cinquantacinque gradi Celsius. Ogni giorno portavo con me una riserva di circa otto litri d'acqua, e facevo rifornimento nelle pompe d'acqua «water holes» indicate su mappe speciali che avevo con me. Il percorso era ondulato e causò un ritardo, dato che sulla mountain-bike avevo circa 5 chili di materiale. Così, invece delle sei-sette ore necessarie, con partenza all'alba per evitare il caldo torrido del pomeriggio, mi trovai sulla strada quando erano ancora le tre del pomeriggio. Trovai due riserve d'acqua ormai asciutte, e con i primi sintomi della disidratazione: un fenomeno che conoscevo bene perché già  nel 1994 mi costrinse a rinunciare ad attraversare il Madagascar. Presi degli integratori minerali che avevo con me, ma avvertii ugualmente sintomi di appannamento: difficoltà  di coordinare i movimenti, una sete incredibile, con battito cardiaco e temperatura in aumento. Resistevo grazie all'allenamento e al mio fisico forte, ma mi salvò il passaggio di due persone in macchina che dopo avermi sorpassato di duecenti metri, ritornarono indietro. Mi regalarono un litro e mezzo di acqua fresca, che mi consentì di percorrere gli ultimi cinquanta chilometri della tappa in bici, anche se con molte difficoltà . Ci volle poi una settimana per recuperare pienamente le mie forze e terminare il viaggio.

 

... E il momento più bello?

Di momenti belli ce ne sono stati moltissimi perché, nonostante le difficoltà , intravvedere da tanti chilometri di distanza l'Ayers Rock, dopo aver percorso duemila chilometri di deserto, diventa un'emozione incredibile. Un'altra forte emozione la provai quando mi trovai di fronte alcuni dingo. Pur sapendo che sono pericolosi, mi avvicinai a un metro e mezzo da loro. Ho vissuto esperienze uniche, lungo la mia traversata; esperienze che mi hanno dato grandi soddisfazioni. L'arrivo a Darwin e la vista dell'Oceano Indiano è stata di una soddisfazione incredibile.

 

C'è stato qualche incontro o qualche luogo che ricordi in modo particolare?

Lungo il viaggio in mountain-bike non ho incontrato tante persone, perché il mio percorso si snodava lungo sentieri impervi e zone molte remote. Gli australiani che ho incontrato erano tutti simpatici e caratteristici, tanto che si potrebbe girare un film su ognuno di loro. Dopo le mie esperienze africane, sono stato invece molto deluso dai pochi incontri con gli aborigeni. Ho trascorso alcuni giorni con la tribù dei Manyanahlaluk, che mi hanno insegnato le loro tecniche di sopravvivenza nell'outback, scavando con loro dei termitai per trovare il miele. Ho scoperto la loro cultura, molto complessa e difficile da capire per noi occidentali. Per quanto riguarda, invece, il territorio del continente australiano, mi ha colpito la vastità  del deserto, caratterizzato da una monotonia cromatica che a livello psicologico diventa difficile da sopportare; e la foresta pluviale del nord, soprattutto nel Kakadu National Park, dove il verde traspare da ricchissima flora e dalla fauna che caratterizzano il paesaggio dell'Australia.

 

Perché effettui queste escursioni solitarie?

È nato quasi tutto per caso, spinto com'ero dalla passione per la natura e per la vita sportiva. Ho sempre fatto sport fin da ragazzino, prima con l'atletica leggera, poi con la mountain-bike, per potenziare alcune parti muscolari che normalmente non vengono interessate dall'atletica. Dopo le escursioni in Africa, ho scelto un continente nuovo con una natura diversa, come l'Australia, che mi ha dato grandissime soddisfazioni.

 

Vale proprio la pena rischiare la vita per dimostrare a se stessi quanto si vale?

Sono consapevole dei rischi a cui vado incontro con queste imprese, perché più volte mi sono trovato davanti alla morte o a vivere momenti difficilissimi. Ma come amante della natura e come persona che rispetta il valore della vita, queste avventure mi danno sempre nuove motivazioni per vivere la vita stessa con passione, al cento per cento e a trecentosessanta gradi. Mi preparo però ad affrontare questi rischi con una seria preparazione fisico-atletica e culturale, studiando gli usi, i costumi, la flora e la fauna dei Paesi che attraverso, e tutto quello che è necessario per vivere in autonomia, in solitaria e senza assistenza tecnica. Io rifarei ancora il mio ultimo viaggio, convinto che i due mesi trascorsi in Australia, non valgono forse cent'anni di vita, ma rimangono due mesi molto intensi in cui ho potuto scoprire le bellezze del nuovissimo continente e tante sfaccettature che nella vita di routine è molto difficile trovare.

 

Hai avuto modo di incontrare gli italiani residenti in Australia?

Ne ho incontrati moltissimi, prima e soprattutto dopo la mia avventura. Non mi sarei mai aspettato di essere accolto da loro con manifestazioni piene di cordialità  e di italianità . Alla mia partenza è stata organizzata una conferenza stampa presso la sede del Consolato italiano di Adelaide, mentre quando sono arrivato a Darwin, il console onorario italiano mi ha accolto con una rappresentanza della polizia del Northern Territory. Dato che anch'io sono un poliziotto, ho stretto con loro un legame di amicizia e un simbolico gemellaggio.

Al mio ritorno a Melbourne, hanno organizzato in mio onore una serata al «Veneto Club» e una conferenza stampa presso l'Istituto italiano di cultura, in occasione della quale ho raccontato tutte le avventure del mio viaggio: le ore di angoscia e di solitudine, i momenti al limite della sopravvivenza, il rischio della disidratazione per aver perso l'orientamento di un punto di rifornimento d'acqua, ma anche le tante gioie per le albe e i tramonti del deserto australiano, la soddisfazione di aver scalato l'Ayers Rock, di aver ammirato le Olgas, la «compagnia» di alcuni animali che mi hanno aiutato a vincere la solitudine, come i dingo, i canguri, le lucertole e i variopinti uccelli australiani... Avevano organizzato la conferenza il console generale d'Italia Gianni Bardini e l'addetto culturale dottor Staglioremi.

Mi ha colpito molto la presenza dei nostri connazionali che in Australia sono riusciti a raggiungere uno stato di benessere e di sicurezza sociale assai rilevante. Li riconoscevo, lungo le strade e soprattutto nei magazzini generali della città , e mi ha colpito il loro attaccamento a tante tradizioni che in Italia non ci sono più.

 

La tua prossima avventura?

Sto progettando un impresa che mi porterà  in continenti totalmente diversi da quelli attraversati: penso al Polo sud, partendo dalla costa dell'Antardide: 1.500 chilometri sempre con la mia mountain-bike. Come prima tappa visiterò la Patagonia e la Terra del Fuoco, per prepararmi tecnicamente alla traversata. Come anello di continuità  con l'Australia, anche in Patagonia avrò modo di incontrare tanti italiani residenti in quei territori argentini. All'impresa si è già  interessata Rai International, uno dei principali sponsor delle mie imprese.

 

           
Nives, una trevigiana volante
Il grande salto nel blu

Adelaide

Fin da bambina avrebbe voluto mettere le ali ai piedi: non soltanto per correre come una gazzella, ma per levitare e solcare il cielo come gli astronauti e i piloti che possono ammirare orizzonti sempre nuovi e cangianti. «Volerai solo - le avevano detto i genitori trevigiani - quando sarai grande e indipendente».

A 19 anni Nives sposò Duilio Caon, 23 anni, emigrato da Loria, in provincia di Treviso, nel 1948, e primo di 11 figli. Stesso ritornello circa il permesso di volare: «Tra poco sarai madre e i tuoi doveri devono essere rivolti alla famiglia. Un giorno... chissà !».

Nives e Duilio ebbero due femmine e un maschio ai quali la madre aveva espresso, nelle confidenze dell'adolescenza, i desideri non appagati di librarsi nell'aria, o magari di lanciarsi nel vuoto dello spazio, appesa, dondolando, a un paracadute. I figli la capirono e la incoraggiarono a coltivare il sogno infantile: «Vedrai che il papà , presto o tardi, capirà . Ti aiuteremo, noi, mamma, a convincerlo». E così è stato. Il figlio David vive oggi in America, nel Michigan. Quest'anno, per il compleanno della madre ha compresso dentro un pacco un regalo e spedito, indovinate che cosa?! Un paracadute! Le figlie Anne e Sandra, che vivono a Sidney, le dissero: «Mamma, approfitta! Prendi alcune lezioni di «skydiving» e buttati. God will bless you (Dio ti aiuterà )». Duilio, avendo tutti contro, capitolò.

Il 7 marzo, nel giorno del suo sessantaseiesimo compleanno, Nives sale su un aereo Cessna 206, sulla pista di Monarto, a un'ottantina di chilometri da Adelaide. Si aggancia al paracadute dell'istruttore, Jack Smith e, al momento giusto, giù nel vuoto, ad alcune migliaia di metri, senza un attimo di esitazione. La «caduta in tandem», come si usa dire in gergo, è libera per circa un minuto, poi l'«ombrello» si apre e si veleggia sostenuti dall'aria, per una ventina di minuti, volteggiando lentamente, con la guida dalle braccia, lungo una traiettoria circolare, fino a planare sul tappeto del prato di partenza. Il panorama a volo d'uccello, che si ingigantisce come uno zoom fotografico nella caduta, è stupendo.

Riassettandosi la tuta di volo e respirando a fondo, Nives ha detto: «È stata la più inebriante esperienza della mia vita, che certamente ripeterò... Duilio permettendo». Duilio sembra rassegnato. Le ha perfino «concesso», durante l'ultimo viaggio in Italia, di salire su un deltaplano di un club trevigiano che da San Floriano è volato verso Castelfranco Veneto per circa un'ora. D'altra parte, com'è possibile tarpare le ali alle libellule?

 

 

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017