Parola d'ordine: cambiare rotta!
Sicurezza nazionale, economia, sanità, mutui. Gli Stati Uniti vanno alle urne in un quadro sociale drammatico. Le colpe di Bush e il piano dei democratici. Con l'incognita Obama.
17 Aprile 2008
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New York
Bettero. Obama contro Clinton tra i democratici. E un McCain solitario in casa repubblicana. Si gioca su queste tre carte la partita per le presidenziali americane. Secondo te, il testa a testa tra Obama e la Clinton rischia paradossalmente di dividere il fronte democratico a favore di McCain oppure, alla fine, vedremo correre entrambi i candidati democratici sul tandem presidente-vicepresidente?
Molinari. L’acredine accumulatasi tra Hillary Clinton e Barack Obama rischia di spaccare il partito democratico portando gli uni a non votare per gli altri qualora uno dei due prevalesse nella corsa alla nomination. Una mediazione è ormai necessaria. Conti alla mano, è infatti improbabile che uno dei due candidati riesca ad arrivare alla quota necessaria per la nomination con un distacco significativo rispetto al rivale, e questo apre la strada a una convention di Denver, in agosto, destinata, senza un accordo preventivo, a essere teatro di un durissimo scontro che comporterebbe per i democratici la possibilità di andare al voto di novembre drammaticamente divisi.
La guerra in Iraq e in Afghanistan e, più in generale, la lotta al terrorismo possono diventare uno spartiacque nella campagna elettorale?
Fino a questo momento i temi della sicurezza nazionale sono stati meno importanti del previsto. Secondo me, fino ad ora i protagonisti sono stati i due candidati democratici che si sono sfidati soprattutto su temi interni come la sanità pubblica e l’immigrazione, evitando la sicurezza nazionale per il motivo molto semplice che entrambi si sono detti, in passato, favorevoli a un totale ritiro delle truppe dall’Iraq dov’è ormai chiaro, invece, che questo ritiro totale non potrà esserci. Non solo, ma la situazione sul terreno sta migliorando, smentendo dunque le previsioni stesse dei democratici. La sicurezza nazionale è un cavallo di battaglia dei repubblicani ma i repubblicani hanno avuto finora un atteggiamento molto prudente, volto soprattutto a compattare il partito. Tuttavia, se leggiamo le analisi dei politologi, è facile prevedere che a novembre si voterà proprio sul tema della sicurezza nazionale.
L’America che si appresta al cambio della guardia alla Casa Bianca appare piuttosto delusa: economia ferma al palo, dollaro debole, borsa instabile, crisi dei mutui, costo del petrolio alle stelle, contrazione dei consumi interni, oltre alla guerra. Insomma pochi motivi per essere ottimisti. Di cos’hanno bisogno gli Stati Uniti per ripartire?
In effetti le statistiche dicono che la stragrande maggioranza degli americani ritiene che il Paese sia sul binario sbagliato e che occorra un drastico cambiamento. Nascono da qui il successo e la popolarità di Barack Obama, e il fatto che egli conquisti favori in casa liberale e democratica come anche, sebbene in misura minore, tra i repubblicani e i conservatori: il suo messaggio unificatore è il cambiamento dell’America. Quando Obama dice che non ci sono Stati repubblicani o Stati democratici ma ci sono solo gli Stati Uniti d’America, quando Obama si richiama a Lincoln affermando che bisogna unire la casa divisa – come disse il presidente che scelse la Guerra Civile pur di liberarsi della schiavitù – Obama lancia un messaggio di cambiamento radicale per creare una nuova coalizione di democratici-liberal, repubblicani-conservatori ma soprattutto indipendenti, giovani, gente comune che non ha mai votato prima. E questo attira l’attenzione massiccia dei media e degli americani a prescindere dalla loro origine, dalla loro identità, proprio perché Obama prospetta quel tipo di cambiamento che gli americani sembrano chiedere.
Quali sono stati gli errori più gravi che l’amministrazione Bush ha compiuto, soprattutto nel suo secondo mandato?
Sono stati fondamentalmente due: il primo ha a che vedere con la situazione iniziale della guerra in Iraq: la campagna militare ebbe grande successo portando a una vittoria che nessuno si aspettava in tempi molto stretti, però poi non vennero mandati i soldati necessari per stabilizzare l’Iraq; questo perché l’allora ministro della Difesa, Rumsfeld, era ideologicamente convinto del fatto che gli iracheni lo avrebbero accolto a braccia aperte. Si è trattato di un errore tattico molto grave che ha portato due o tre anni di grave instabilità e forti violenze in Iraq, pregiudicando l’opinione che gli americani avevano del conflitto e dell’intervento. Oggi se la situazione migliora è perché il Pentagono sta facendo esattamente quello che Rumsfeld non voleva, cioè mandare le truppe, e come aveva chiesto fin dall’inizio McCain.
Il secondo errore riguarda l’economia. Dopo gli scandali finanziari che colpirono Wall Street nel 2002 con il crollo del gigante finanziario della Enron, l’amministrazione americana invocò regole più rigide nella lettura dei bilanci, e contribuì con il Congresso alla redazione di una nuova legge che tuttavia non è riuscita a impedire i nuovi illeciti di bilancio ovvero la possibilità dei grandi istituti finanziari di manomettere i rendiconti e occultare i grandi indebitamenti con le società di concessione dei mutui. Insomma la soluzione legislativa adottata di fronte allo scandalo Enron si è dimostrata in realtà fallace e non in grado di prevenire il nuovo terremoto finanziario che arriva ora nelle case degli americani che a migliaia si trovano ad avere la casa pignorata. Tutto questo peserà nel giudizio sull’amministrazione Bush.
Quali sono i problemi che oggi il cittadino americano medio avverte di più sulla sua pelle?
Sicuramente c’è una richiesta di sicurezza maggiore rispetto a prima dell’11 settembre. Gli americani hanno accettato la limitazione delle libertà civili e della propria privacy in nome della sicurezza, ma continuano a non essere del tutto tranquilli. Il timore di un nuovo attacco terroristico devastante con armi non convenzionali è largamente presente in molti settori della società americana. Il secondo problema è quello della sanità pubblica: 47 milioni di americani non hanno l’assicurazione sanitaria perché non se la possono permettere. Ma il punto vero è che la grande maggioranza degli americani ha assicurazioni sanitarie con copertura parziale, che promettono garanzie ai cittadini e poi in realtà non vengono rispettate. I cittadini americani pensano di essere garantiti al 100% o al 90% per la copertura delle spese mediche, e poi invece quando si tratta di ottenere i rimborsi scoprono che sono di gran lunga inferiori alle loro attese.
La questione della sicurezza non è legata solo al terrorismo ma anche ai rapporti internazionali. Dopo la fine della Guerra fredda sembrava che le relazioni con Mosca si sarebbero normalizzate. Invece le nuove, velate minacce di Putin contro l’espansionismo e l’influenza della Nato nei Paesi ex sovietici, rischia di riaprire la stagione della Guerra fredda. Si tratta solo di dispetti da «primi della classe»?
L’opinione condivisa dagli analisti di Washington è che Putin stia chiedendo un maggiore rispetto della dimensione di potenza della Federazione Russa, e questo si deve al fatto che all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, cioè negli ultimi 15-16 anni, questo rispetto gli Stati Uniti non lo hanno dato alla Russia: hanno un po’ declassato i russi nei loro rapporti bilaterali, e questa responsabilità viene attribuita ai Bush, padre e figlio, così come a Clinton. Il punto fondamentale è il rispetto che la Russia chiede agli Stati Uniti sulla scena internazionale. I gesti plateali di Putin che invia i rompighiaccio al Polo Nord per invocare la sovranità sul sottosuolo ricco di risorse, o che fornisce una centrale nucleare all’Iran, o che minaccia i Paesi dell’Europa dell’Est in caso di dispiegamento dello scudo antimissile in Polonia e nella Repubblica Ceca, non vengono interpretati come minacce reali agli interessi degli Stati Uniti. Oggi la Russia non è in grado, né sul piano economico né su quello militare, di preoccupare seriamente o di incrinare la supremazia strategica americana. Chiede però uno spazio, un riconoscimento politico, e su questo sono in molti a Washington a rimproverare la Casa Bianca di avere ritardato il riconoscimento della Russia come potenza di pari grado.
La crescita di Cina e India come sono vissute e percepite negli Stati Uniti: come un pericolo o un’opportunità?
Direi come un’opportunità. Sono due sfide commerciali. Le aziende americane investono in Cina e in India in modo massiccio. Decine di migliaia di posti di lavoro americani si spostano in questi due grandi Paesi. I rapporti economici fioriscono al di là delle tensioni apparenti. Questo ha spinto Obama a proporre un programma economico in cui promette sgravi fiscali alle aziende americane che non spostano gli investimenti e non creano occupazione in estremo oriente. Inoltre la convergenza sullo sviluppo delle nuove fonti energetiche fra gli Stati Uniti, la Cina e l’India e le grandi potenze dell’Asia, lasciano intendere che c’è la volontà, da parte delle grandi aziende energetiche americane, di concordare uno sviluppo comune per ridurre la dipendenza dalle fonti di greggio.
Bettero. Obama contro Clinton tra i democratici. E un McCain solitario in casa repubblicana. Si gioca su queste tre carte la partita per le presidenziali americane. Secondo te, il testa a testa tra Obama e la Clinton rischia paradossalmente di dividere il fronte democratico a favore di McCain oppure, alla fine, vedremo correre entrambi i candidati democratici sul tandem presidente-vicepresidente?
Molinari. L’acredine accumulatasi tra Hillary Clinton e Barack Obama rischia di spaccare il partito democratico portando gli uni a non votare per gli altri qualora uno dei due prevalesse nella corsa alla nomination. Una mediazione è ormai necessaria. Conti alla mano, è infatti improbabile che uno dei due candidati riesca ad arrivare alla quota necessaria per la nomination con un distacco significativo rispetto al rivale, e questo apre la strada a una convention di Denver, in agosto, destinata, senza un accordo preventivo, a essere teatro di un durissimo scontro che comporterebbe per i democratici la possibilità di andare al voto di novembre drammaticamente divisi.
La guerra in Iraq e in Afghanistan e, più in generale, la lotta al terrorismo possono diventare uno spartiacque nella campagna elettorale?
Fino a questo momento i temi della sicurezza nazionale sono stati meno importanti del previsto. Secondo me, fino ad ora i protagonisti sono stati i due candidati democratici che si sono sfidati soprattutto su temi interni come la sanità pubblica e l’immigrazione, evitando la sicurezza nazionale per il motivo molto semplice che entrambi si sono detti, in passato, favorevoli a un totale ritiro delle truppe dall’Iraq dov’è ormai chiaro, invece, che questo ritiro totale non potrà esserci. Non solo, ma la situazione sul terreno sta migliorando, smentendo dunque le previsioni stesse dei democratici. La sicurezza nazionale è un cavallo di battaglia dei repubblicani ma i repubblicani hanno avuto finora un atteggiamento molto prudente, volto soprattutto a compattare il partito. Tuttavia, se leggiamo le analisi dei politologi, è facile prevedere che a novembre si voterà proprio sul tema della sicurezza nazionale.
L’America che si appresta al cambio della guardia alla Casa Bianca appare piuttosto delusa: economia ferma al palo, dollaro debole, borsa instabile, crisi dei mutui, costo del petrolio alle stelle, contrazione dei consumi interni, oltre alla guerra. Insomma pochi motivi per essere ottimisti. Di cos’hanno bisogno gli Stati Uniti per ripartire?
In effetti le statistiche dicono che la stragrande maggioranza degli americani ritiene che il Paese sia sul binario sbagliato e che occorra un drastico cambiamento. Nascono da qui il successo e la popolarità di Barack Obama, e il fatto che egli conquisti favori in casa liberale e democratica come anche, sebbene in misura minore, tra i repubblicani e i conservatori: il suo messaggio unificatore è il cambiamento dell’America. Quando Obama dice che non ci sono Stati repubblicani o Stati democratici ma ci sono solo gli Stati Uniti d’America, quando Obama si richiama a Lincoln affermando che bisogna unire la casa divisa – come disse il presidente che scelse la Guerra Civile pur di liberarsi della schiavitù – Obama lancia un messaggio di cambiamento radicale per creare una nuova coalizione di democratici-liberal, repubblicani-conservatori ma soprattutto indipendenti, giovani, gente comune che non ha mai votato prima. E questo attira l’attenzione massiccia dei media e degli americani a prescindere dalla loro origine, dalla loro identità, proprio perché Obama prospetta quel tipo di cambiamento che gli americani sembrano chiedere.
Quali sono stati gli errori più gravi che l’amministrazione Bush ha compiuto, soprattutto nel suo secondo mandato?
Sono stati fondamentalmente due: il primo ha a che vedere con la situazione iniziale della guerra in Iraq: la campagna militare ebbe grande successo portando a una vittoria che nessuno si aspettava in tempi molto stretti, però poi non vennero mandati i soldati necessari per stabilizzare l’Iraq; questo perché l’allora ministro della Difesa, Rumsfeld, era ideologicamente convinto del fatto che gli iracheni lo avrebbero accolto a braccia aperte. Si è trattato di un errore tattico molto grave che ha portato due o tre anni di grave instabilità e forti violenze in Iraq, pregiudicando l’opinione che gli americani avevano del conflitto e dell’intervento. Oggi se la situazione migliora è perché il Pentagono sta facendo esattamente quello che Rumsfeld non voleva, cioè mandare le truppe, e come aveva chiesto fin dall’inizio McCain.
Il secondo errore riguarda l’economia. Dopo gli scandali finanziari che colpirono Wall Street nel 2002 con il crollo del gigante finanziario della Enron, l’amministrazione americana invocò regole più rigide nella lettura dei bilanci, e contribuì con il Congresso alla redazione di una nuova legge che tuttavia non è riuscita a impedire i nuovi illeciti di bilancio ovvero la possibilità dei grandi istituti finanziari di manomettere i rendiconti e occultare i grandi indebitamenti con le società di concessione dei mutui. Insomma la soluzione legislativa adottata di fronte allo scandalo Enron si è dimostrata in realtà fallace e non in grado di prevenire il nuovo terremoto finanziario che arriva ora nelle case degli americani che a migliaia si trovano ad avere la casa pignorata. Tutto questo peserà nel giudizio sull’amministrazione Bush.
Quali sono i problemi che oggi il cittadino americano medio avverte di più sulla sua pelle?
Sicuramente c’è una richiesta di sicurezza maggiore rispetto a prima dell’11 settembre. Gli americani hanno accettato la limitazione delle libertà civili e della propria privacy in nome della sicurezza, ma continuano a non essere del tutto tranquilli. Il timore di un nuovo attacco terroristico devastante con armi non convenzionali è largamente presente in molti settori della società americana. Il secondo problema è quello della sanità pubblica: 47 milioni di americani non hanno l’assicurazione sanitaria perché non se la possono permettere. Ma il punto vero è che la grande maggioranza degli americani ha assicurazioni sanitarie con copertura parziale, che promettono garanzie ai cittadini e poi in realtà non vengono rispettate. I cittadini americani pensano di essere garantiti al 100% o al 90% per la copertura delle spese mediche, e poi invece quando si tratta di ottenere i rimborsi scoprono che sono di gran lunga inferiori alle loro attese.
La questione della sicurezza non è legata solo al terrorismo ma anche ai rapporti internazionali. Dopo la fine della Guerra fredda sembrava che le relazioni con Mosca si sarebbero normalizzate. Invece le nuove, velate minacce di Putin contro l’espansionismo e l’influenza della Nato nei Paesi ex sovietici, rischia di riaprire la stagione della Guerra fredda. Si tratta solo di dispetti da «primi della classe»?
L’opinione condivisa dagli analisti di Washington è che Putin stia chiedendo un maggiore rispetto della dimensione di potenza della Federazione Russa, e questo si deve al fatto che all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, cioè negli ultimi 15-16 anni, questo rispetto gli Stati Uniti non lo hanno dato alla Russia: hanno un po’ declassato i russi nei loro rapporti bilaterali, e questa responsabilità viene attribuita ai Bush, padre e figlio, così come a Clinton. Il punto fondamentale è il rispetto che la Russia chiede agli Stati Uniti sulla scena internazionale. I gesti plateali di Putin che invia i rompighiaccio al Polo Nord per invocare la sovranità sul sottosuolo ricco di risorse, o che fornisce una centrale nucleare all’Iran, o che minaccia i Paesi dell’Europa dell’Est in caso di dispiegamento dello scudo antimissile in Polonia e nella Repubblica Ceca, non vengono interpretati come minacce reali agli interessi degli Stati Uniti. Oggi la Russia non è in grado, né sul piano economico né su quello militare, di preoccupare seriamente o di incrinare la supremazia strategica americana. Chiede però uno spazio, un riconoscimento politico, e su questo sono in molti a Washington a rimproverare la Casa Bianca di avere ritardato il riconoscimento della Russia come potenza di pari grado.
La crescita di Cina e India come sono vissute e percepite negli Stati Uniti: come un pericolo o un’opportunità?
Direi come un’opportunità. Sono due sfide commerciali. Le aziende americane investono in Cina e in India in modo massiccio. Decine di migliaia di posti di lavoro americani si spostano in questi due grandi Paesi. I rapporti economici fioriscono al di là delle tensioni apparenti. Questo ha spinto Obama a proporre un programma economico in cui promette sgravi fiscali alle aziende americane che non spostano gli investimenti e non creano occupazione in estremo oriente. Inoltre la convergenza sullo sviluppo delle nuove fonti energetiche fra gli Stati Uniti, la Cina e l’India e le grandi potenze dell’Asia, lasciano intendere che c’è la volontà, da parte delle grandi aziende energetiche americane, di concordare uno sviluppo comune per ridurre la dipendenza dalle fonti di greggio.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017