Partite IVA a colori

Le aziende di imprenditori immigrati sono oggi il 9 per cento delle imprese italiane e il loro numero continua a salire. Chi sono i nuovi imprenditori, che relazione hanno con il territorio, e che cosa possono significare per l’Italia di domani?
02 Gennaio 2013 | di

Ha 42 anni, è romeno e, dal 13 settembre scorso, è l’imprenditore straniero dell’anno. Si chiama Florin Simon ed è titolare di un’impresa, «Roma…nia Srl», che ha trentaquattro dipendenti e un fatturato di circa 19 milioni di euro. Nel 2006, dopo dieci anni di migrazione, molti dei quali lavorando come manovale, ha avuto l’intuizione di aprire un’attività di import-export di prodotti tipici rumeni, un fiuto imprenditoriale che gli è valso il prestigioso titolo al MoneyGram Award 2012, l’unico premio in Italia dedicato all’imprenditoria immigrata, benedetto dalle confederazioni d’imprenditori, da Confindustria alla Cna (Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa), e seguito con interesse dalle istituzioni italiane. Sul palco, commosso, Florin Simon ha ringraziato sua moglie, italiana, che l’ha sostenuto nel coronare il suo sogno americano proprio nel nostro Paese e proprio nel bel mezzo della peggiore crisi economica dal dopoguerra. Questa storia in controtendenza è la spia di un nuovo fenomeno.

Il Dossier statistico immigrazione 2012 della Caritas-Migrantes, rielaborando dati della Cna, rileva che a fine 2011 gli imprenditori stranieri – titolari e soci d’impresa – superavano le 440 mila unità, dei quali 250 mila circa originari di Paesi extraeuropei, con un aumento complessivo dell’8,3 per cento rispetto al 2010 (dato che fa aumentare del 47,8 per cento dal 2005 il numero delle imprese di immigrati in Italia); di contro, titolari e soci d’impresa italiani sono calati nello stesso anno dell’1,2 per cento, confermando un trend negativo che, partendo dal 2005, si attesta a meno 9,3 per cento.

L’effetto di queste due tendenze opposte ha fatto balzare al 9,1 per cento il peso dell’imprenditoria degli immigrati nel nostro Paese e ha riequilibrato i segni «meno» davanti al numero complessivo delle nostre imprese. Il dato prende ancora più rilievo alla luce del quadro generale riguardante il contributo che l’immigrazione dà all’economia del nostro Paese. Secondo la Cna, gli immigrati in Italia producono il 12 per cento della ricchezza nazionale, mentre l’Inps, l’ente di previdenza, calcola che gli assicurati di altri Pae­si immettono nelle sue casse almeno 8,3 miliardi di euro all’anno. «La maggior parte di questi imprenditori e lavoratori non usufruisce di alcuna prestazione – spiega Fosco Corradini della Cna World, la sezione della confederazione che assiste le imprese immigrate –, perché la nostra immigrazione è recente e giovane d’età».
 
Le tante facce del boom
Ma da che cosa deriva questo boom dell’imprenditoria immigrata in piena crisi economica? E che cosa può significare per il futuro dell’Italia?
Il fenomeno ha molte cause. La principale è la forte motivazione, il grande desiderio di miglioramento e di mobilità sociale: «In Italia – spiega Maurizio Ambrosini, direttore della rivista “Mondi migranti” e professore di sociologia delle migrazioni all’Università di Milano –, è particolarmente difficile per un immigrato fare carriera nel capitalismo ufficiale, un limite che diventa incentivo a costruire un capitalismo proprio, che permetta indipendenza e una posizione sociale migliore». Una motivazione che porta gli immigrati a entrare in settori non più appetibili per gli italiani, accettando sacrifici e condizioni di lavoro più difficili: «Non è vero che gli immigrati rubano spazi agli italiani – conferma Corradini –. Molti artigiani, ambulanti, sarti, ristoratori, titolari di piccole imprese di pulizie o di costruzioni, non trovano “eredi” e i cittadini emigrati li sostituiscono, rilevando o aprendo attività. È stato così anche per i nostri migranti. È una ruota che gira». Per alcuni di loro il fare impresa è una questione di sopravvivenza «perché sono fuggiti da situazioni limite come fame, guerre, epidemie, e hanno quindi un’assoluta necessità di “riuscire” per non tornare ai loro inferni» aggiunge Corradini. C’è poi, anche se marginale, l’effetto crisi: «Alcuni – afferma Ambrosini – sono rimasti senza impiego e aprono una partita Iva per poter almeno lavorare saltuariamente, altri perché è l’unico modo per mantenere il permesso di soggiorno».

Chi apre un’impresa non è uno sprovveduto, anzi, ha una marcia in più. «L’imprenditore immigrato tipo – continua Ambrosini – è una persona sulla quarantina, che è in Italia da diversi anni, conosce bene l’italiano (con l’eccezione, spesso, dei cinesi), è piuttosto istruito e non di rado proviene da famiglie della piccola borghesia commerciale; ha, insomma, un capitale umano di un certo pregio che gli consente di entrare nella mentalità imprenditoriale e di trovare le risorse personali, economiche e relazionali per aprire un’attività, cosa per nulla semplice in Italia». I più geniali hanno saputo individuare nicchie di mercato inedite, come quelle rivolte ai connazionali; intercettare il gusto per l’esotico di molti consumatori italiani, come nel caso dei ristoranti etnici; creare addirittura nuovi business mettendo insieme il made in Italy e le esigenze dei mercati dei Paesi d’origine.

Secondo uno studio del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) il 64,5 per cento delle imprese immigrate è costituito da microimprese con una media di 3,7 dipendenti, il restante 35,5 per cento è dato dai lavoratori autonomi. Il 67 per cento ha iniziato l’attività autofinanziandosi dopo un periodo da dipendente, fattore che spiega, insieme con altre risorse relazionali come l’aiuto di reti familiari e di connazionali, la maggior tenuta di queste microimprese dinanzi alla crisi.
Per la Cna il 50 per cento circa delle imprese di immigrati è dato da aziende artigiane, mentre i settori di attività prevalenti sono le costruzioni e il commercio. Soltanto il 14 per cento degli imprenditori ha cittadinanza italiana, e il 56 per cento circa proviene da soli quattro Paesi: Marocco, Romania, Cina e Albania.

Le imprese immigrate si trovano soprattutto al Nord, in misura minore al Centro, nelle zone in cui l’economia è più dinamica. Il fenomeno interessa tutta Europa, ma è particolarmente importante in Italia, proprio a motivo del tessuto economico fatto in maggioranza di piccole e medie imprese. «Per molti immigrati – chiarisce Corradini – capire di poter diventare imprenditori di se stessi è stata una scoperta. L’Italia, meta dei loro sogni, ha offerto il modello che essi hanno colto, nonostante le tante difficoltà burocratiche, fiscali e di accesso al credito».
 
In relazione coi fratelli italiani
Resta da capire come queste imprese interagiscano con i territori. E anche a questo proposito lo studio del Cnel offre indicatori interessanti. Il 66,5 per cento ha clienti del nostro Paese; il 77,3 per cento si rivolge a fornitori italiani; il 22,2 per cento propende ad assumere personale italiano. Aumentano anche gli imprenditori che si rivolgono alle associazioni di categoria locali, arrivando in taluni casi a occupare posizioni di responsabilità. «A Prato – conferma il responsabile della Cna World –, il vicepresidente è un imprenditore cinese, Wang Li Ping, che produce filo per cucire: enormi matasse che vanno in tutto il mondo. Ha capito l’importanza di stare in un ente associativo, rompendo il tradizionale riserbo cinese, e ha portato in confederazione cinquanta connazionali».

Che la relazione con gli italiani sia fondamentale per il successo dell’impresa immigrata è confermato dal fatto che il 39,6 per cento degli imprenditori immigrati la considera al primo posto, prima addirittura della relazione con i familiari (37,4 per cento) e con i connazionali (18,9 per cento). Per quanto riguarda il grado d’interazione dell’impresa con il territorio, Ambrosini identifica tre tipologie: «L’impresa di nicchia a servizio dei connazionali (come i phone center o i centri per il trasferimento di valuta), piuttosto isolata rispetto al territorio; le imprese che offrono attività complementari e utili per gli ingranaggi del sistema decentrato italiano, che hanno una forte interrelazione (come le imprese immigrate nel settore delle costruzioni, che consentono subappalti e abbassamento dei costi alle imprese autoctone); le imprese concorrenziali, che sono quelle che competono allo stesso livello». In questo contesto, quindi, una stessa impresa può offrire grandi vantaggi a una ditta appaltatrice e fare terra bruciata attorno a una ditta concorrente.

Quest’ultimo tratto è tra quelli che generano più preoccupazione e che fanno percepire l’imprenditoria straniera come un pericolo per quella italiana, soprattutto per il rischio di una competizione al ribasso, magari oltre le regole. «Questo rischio – controbatte Corradini – c’è sempre stato. Noi italiani, per esempio, nel dopoguerra siamo stati dei competitori al ribasso nei confronti dei tessutai inglesi, leader incontrastati del tessile per 150 anni, ma così abbiamo costruito realtà come Prato, oggi tra l’altro in crisi per la concorrenza del made in China. Negli anni ’70 il competitore per le ditte del Nord era invece il piccolo imprenditore meridionale, che lavorava a prezzi dimezzati. Quando anche gli standard di questi imprenditori vennero livellati, i loro appaltatori si rivolsero all’estero, in cerca di manodopera a basso costo».

Il quadro dell’imprenditoria immigrata nel nostro Paese è in movimento e tendenzialmente – pronosticano gli esperti – in espansione. Da Paese di emigranti siamo diventati Paese d’immigrazione e ora l’immigrazione sta cercando le sue strade per radicarsi nel territorio. Che cosa accomuna questi immigrati in Italia ai tanti italiani che nel secolo scorso lasciarono il Paese in cerca di fortuna? Che cosa possono significare per l’Italia di domani? «L’analogia è suggestiva – ammette Ambrosini –. Anche gli italiani all’estero sono stati molto “imprenditivi”: aprivano negozi, barberie, sartorie o rivendite di frutta. La piccola imprenditoria è stata per loro un canale importante d’integrazione, di mobilità sociale e di conquista di un’immagine più rispettabile. Lo stesso sta avvenendo ora per i nostri imprenditori immigrati. Ogni fenomeno nuovo porta problemi, ma anche nuove opportunità. Il dinamismo in economia se localmente può creare crisi, alla lunga è un bene per il sistema».
 
Milano
Made in Italy alla siriana

Emigrato da Aleppo, da più di quarant’anni in Italia, il titolare della Hirux International ha creato un piccolo impero. Il suo settore: gli elettrodomestici. L’area di business: i Paesi arabi e il Nord Africa. Il suo segreto: un mix di creatività italiana e cultura mediorientale.
 
Ufficio di rappresentanza in un palazzo del centro di Milano con annesso show room dei prodotti di punta: così si presenta la Hirux International, azienda di elettrodomestici made in Italy, che esporta in Medio Oriente e Nord Africa. A fondarla, negli anni ’70, un imprenditore siriano, Radwan Khawatmi, in Italia da oltre quarant’anni. Con 50 milioni di fatturato all’anno, 250 mila pezzi venduti e un centinaio di dipendenti in sedici Paesi, metà dei quali di nazionalità italiana, Hirux è la pioniera di un modo di fare impresa più strutturato, indizio dello sviluppo che l’imprenditoria degli immigrati potrebbe imboccare negli anni a venire. Un’azienda che va a gonfie vele, nonostante il periodo di crisi particolarmente grave, tra l’altro, proprio per il comparto degli elettrodomestici in Italia. Qual è il segreto? «Aver cavalcato le opportunità che mi venivano dalla mia doppia cultura. Dagli italiani ho appreso il gusto per il design, il pragmatismo e la mentalità imprenditoriale, dai siriani ho ereditato i valori, l’attaccamento alle tradizioni, la raffinata cultura. Dal connubio sono nati prodotti e un modo di fare business originali, ad alto contenuto d’innovazione».

Radwan Khawatmi arriva in Italia all’età di 17 anni: «All’epoca gli stranieri erano un’esigua minoranza che veniva in Europa per studiare – racconta –. Io fui uno dei pochi a scegliere l’Italia, per un amore particolare verso questo Paese, in quanto nella mia città, Aleppo, oggi purtroppo devastata dalla guerra, a pochi chilometri da casa mia gli italiani avevano scoperto l’antica città di Ebla, una scoperta che rivoluzionò la storia». Khawatmi impara l’italiano in tre mesi, grazie a un corso tenuto dai salesiani. A 24 anni si laurea in Economia a Parma e inizia a lavorare alla Indesit di Torino, alle dipendenze della famiglia Campioni. È l’inizio di una carriera folgorante: «In pochi anni scalai tutti i gradini dell’azienda: avevo fatto lievitare il fatturato portando la Indesit in Medio Oriente.

Al tempo nella zona c’erano solo gli elettrodomestici americani o giapponesi; io vestii i panni dell’italo-siriano e dimostrai che potevamo dare un prodotto made in Italy, di grande design, ma tagliato sulle loro esigenze. Fu un autentico capovolgimento di ottica, che sbaragliò gli avversari». Da qui la decisione di fondare la Hirux che oggi è leader assoluto degli elettrodomestici in quell’area del pianeta. Negli anni ’80 è proprio la Hirux, per esempio, a inventare le cucine extralarge, belle da vedere ma adattate alle esigenze delle famiglie numerose, tipiche dei Paesi arabi. Ma anche i frigoriferi sono pensati per resistere a temperature superiori ai 40 gradi, mentre spariscono dai programmi della lavatrice quelli adatti alle scarpe, che un mediorientale non userebbe mai. Anche il modello di business è unico, globalizzato eppure con radici saldamente piantate in Italia: «Dentro uno stesso frigorifero c’è il compressore fatto in Brasile, i ripiani fatti in Cina, il condenser fatto in Turchia; la lamiera può venire dalla Cina, dall’India o dall’Inghilterra, ma il design è italiano, come pure la maggior parte dei terzisti che lavorano per noi. A loro, noi diamo le caratteristiche e il progetto affinché lo sviluppino per nostro conto. Potremmo dire che il modello che abbiamo implementato è un tipo di “terzismo” avanzato».

Da un paio di anni la Hirux ha acquisito il marchio francese Thompson, per tv e apparecchiature multimediali sempre per il Medio Oriente e il Nord Africa: un altro successo, secondo Khawatmi, per il made in Italy. «I francesi venivano a fare shopping di aziende in Italia e noi siamo andati in Francia ad acquisire la gemma del governo francese, dandole uno stile made in Italy». Oggi la nuova frontiera è costituita dai tablet, una strada aperta dal figlio bocconiano di Khawatmi. L’imprenditore è anche molto impegnato in politica. Nel 2005 ha fondato il Movimento nuovi italiani, che si prefigge di dare la cittadinanza ai figli d’immigrati nati in Italia e di portare al voto i «nuovi italiani» che hanno scelto l’Italia come patria, hanno un lavoro, pagano le tasse, hanno figli nati qui. «Il volume di ricchezza generato dai nuovi italiani è pari a 140 miliardi di euro; per metà di questa cifra la Grecia rischia il default. Non è più solo questione di gommoni alla deriva o di quattro lavavetri. Ci sentiamo parte di questo Paese e vogliamo contribuire alla soluzione dei suoi problemi. È un percorso di civiltà che ci avvicina all’Europa».
Tanta strada fatta e tanti successi: che cosa vede nel futuro dell’Italia in questi anni di crisi? «Sono molto ottimista. Nonostante le difficoltà il mio Paese è un grande Paese, ha la forza di reagire e di tornare a crescere. Ne sono sicuro. Il mio cuore batte qui».
  
Ascoli Piceno
Benessere dal cuore brasiliano

«La mia fortuna? La partita Iva». Parla italiano Sandra Aparecida Gouveia, nata nel 1965 a Presidente Prudente in Brasile, nello Stato di San Paolo. E parla, in tutto e per tutto, come se fosse da sempre cittadina italiana. «Sono arrivata ventidue anni fa in quello che oggi considero, a tutti gli effetti, il mio Paese – racconta Sandra che ci accoglie col sorriso sulle labbra, caratteristica che tutti le riconoscono –. Non sono venuta per sistemarmi, ma per amore. Avevo conosciuto Emidio, l’uomo che oggi è mio marito».

Un attaccamento che si è esteso alla città che l’ha «adottata», Ascoli Piceno, e alla sua gente, senza mai scordare il suo Brasile. Sandra, estetista professionista, nel 2004 ha aperto il centro estetico «Akos Benessere». Cura dei dettagli, strumenti sofisticati, formazione e aggiornamento continui, sicurezza dei macchinari e prodotti «rigorosamente a km zero» – come ci tiene a precisare –, visto che oltre il 75 per cento delle aziende fornitrici è locale o comunque italiana, sono gli ingredienti del suo successo. Un primato che l’ha promossa presidente del settore benessere e sanità della Cna provinciale di Ascoli Piceno.

La sua azienda conta nove dipendenti, una stagista e alcuni collaboratori esterni, quasi tutti italiani. «In Brasile ho conseguito il diploma di massoterapista, ma non c’erano prospettive occupazionali – racconta Sandra – . Quando sono giunta in Italia, prima di esercitare questo lavoro, ho fatto la cameriera in un ristorante, la colf, la badante. Svolgevo anche due-tre lavori contemporaneamente per riuscire a sopravvivere e mettere da parte qualche risparmio».

Dopo tre anni di sacrifici, per lei arriva la chiamata tanto attesa di uno studio di fisioterapia. Raggiunto l’obiettivo di una vita, Sandra poteva sentirsi realizzata. «Ho lavorato in quella struttura per tre anni. Era il mestiere per il quale avevo studiato, potevo finalmente fare il lavoro che mi era sempre piaciuto. Ma, mi sono detta: “Non puoi fermarti ora”. Per esigenze fiscali il datore di lavoro mi impose di aprire una partita Iva. All’inizio avevo timori, lo trovavo un obbligo ingiusto e, invece, è stato il momento della svolta. Mettermi in proprio, assumermi direttamente responsabilità e rischi conseguenti, era quello che, in fondo, volevo».

Dallo scorso settembre Sandra ha trasferito la sua attività in una nuova sede, di 320 mq, il doppio della precedente; inoltre, da gennaio 2013 nel centro saranno presenti un medico, una dietista e alcuni collaboratori esterni, come un dermatologo e un parrucchiere. In linea con lo stile imprenditoriale italiano, oltre alla «bottega» Sandra Aparecida Gouveia, ha traslocato pure la casa, proprio sopra al centro benessere. Un sogno nel cassetto? «Ho i piedi per terra, vorrei finire quanto prima di pagare il mutuo per l’investimento. Nella mia vita non ho mai voluto debiti, con nessuno. E poi meno burocrazia: soffoca le imprese, favorisce il lavoro nero, allontana i giovani» conclude la vulcanica imprenditrice a pieno titolo «tricolore».
Nicoletta Masetto
 
Prato
La Cina parla toscano

Xu Qiu Lin viene dal Wenzhou, ma è in Italia dall’89. La sua Giupel è un perfetto esempio di industria multiculturale, in cui creatività italiana si sposa con laboriosità cinese.
 
Per i suoi dipendenti è «il presidente Giulini», per gli amici toscani «Giulio», eppure all’anagrafe risponde al nome di Xu Qiu Lin. A Prato ha messo in piedi Giupel spa, la prima azienda cinese entrata in Confindustria dieci anni fa. Originario di Wenzhou, vicino a Shangai, questo 46enne figlio di commercianti di autoricambi deve il successo a un’intuizione – la multiculturalità applicata all’industria – maturata a partire dal 1989, quando lascia la Cina in cerca di fortuna. Dopo una tappa in Francia, Xu Qiu Lin ripiega in Italia, allettato dalle nuove disposizioni in tema di immigrazione previste dalla legge Martelli (n. 39 del 28 febbraio 1990). «Per un mese fui ospite di un amico a Milano. Non avendo trovato lavoro, mi spostai a Perugia, dove iniziai a studiare l’italiano» ricorda il manager. A offrire il primo impiego a Xu Qiu Lin sono i proprietari di un ristorante cinese di Firenze. Ma il mestiere del cameriere è solo un’altra fase di transizione. Sempre in cerca di nuove opportunità, ben presto il giovane si trasferisce nella vicina Prato e apre una piccola ditta di confezioni per conto terzi. «Non avevo alcuna esperienza nel settore tessile, così come in quello alberghiero – ricorda l’imprenditore –. Mi sono sempre adattato a ciò che richiedeva il mercato».

Lavorando a stretto contatto sia con italiani che con cinesi, il giovane impara a mettere in relazione le peculiarità di entrambi nell’interesse di un’economia «ad ampio respiro». Non a caso, a Prato Xu Qiu Lin figura tra i primi imprenditori cinesi ad aver assunto dipendenti italiani sin dal 2000, anno in cui fonda la Giupel spa. «Mio obiettivo era di offrire agli italiani ruoli di dirigenza e amministrazione. Riservando, invece, ai cinesi la fase produttiva – spiega il titolare dell’azienda che confeziona capi in pelle e tessuto –. Se i primi, infatti, conoscono bene le dinamiche imprenditoriali e si caratterizzano per estro e fantasia, i secondi sono dei maestri quanto a puntualità e rigore». La formula proposta dal manager cinese – «Integrare le competenze e mixare le culture» – si rivela vincente. Basti guardare il fatturato di Giupel spa che, cresciuto del 10 per cento negli ultimi anni, ha sfiorato i 15 milioni di euro nel 2003.

Oggi l’azienda creata da Xu Qiu Lin conta una ventina di dipendenti (nell’80 per cento italiani) nella sede di via Arezzo a Prato – il «cervello pensante», dove si sviluppano la ricerca, lo stile, il marketing – e circa duecento (perlopiù cinesi) nella succursale di Hanzhou, dove invece si realizza gran parte della produzione. Perché il prodotto Giupel, più che made in Italy (fatto in Italia) si potrebbe definire made together (fatto insieme). Del resto, per creare un prodotto di qualità a un prezzo contenuto c’è davvero bisogno di collaborazione e apertura mentale. «Chi ha detto che in Cina non si può ottenere un’ottima qualità? – chiosa retorico il presidente –. Se ben gestita e controllata, anche la produzione cinese sa offrire risultati di rilievo».

Lavorare dunque in rete e mettere sul piatto le rispettive competenze è la priorità per il manager originario di Wenzhou, che ora, forte dei suoi ventidue anni in Italia, si è lanciato in un progetto per promuovere il made in Italy in Oriente. Si chiama Centro expo il palazzo di 23 piani sorto a Quanjiao (nella provincia cinese di Anhui) che, in 55 mila metri quadri di spazio espositivo, ospiterà circa duecento marchi italiani (ciascuno rappresentato da uno showroom), dal campo della gastronomia a quello dell’abbigliamento. «Lungi dall’essere un semplice magazzino aperto ai negozianti, il Centro expo (oggi in fase di allestimento, ndr) sarà una fiera del made in Italy e un trampolino di lancio per le piccole e medie imprese italiane», assicura Xu Qiu Lin, che, in veste di presidente del progetto, ha il compito di coordinare i preparativi. È l’ennesima dimostrazione di un legame, quello con l’Italia, che il 46enne cinese custodisce con orgoglio e affetto. «L’Italia mi ha accolto bene – conclude il titolare di Giupel spa –. Superate le difficoltà iniziali di adattamento, perlopiù legate alla lingua, ora mi sento più italiano che mai. A Prato (dove vive con la moglie e i quattro figli, ndr), ho tanti amici e, in Confindustria, tutti parlano bene di me. Se non è un risultato già questo…».
Luisa Santinello

 
 

I numeri


440.145: soci e titolari di imprese straniere in Italia

+ 48,7%: crescita delle imprese di immigrati dal 2005 al 2011

50%: sono imprese artigiane

12%: percentuale del Pil da immigrati in Italia

40: età media degli imprenditori immigrati

86,1%: risiede nell’Italia centro-settentrionale

4: i principali Paesi di provenienza: Marocco, Romania, Cina e Albania

2: i settori principali di attività: costruzioni e commercio

66,5%: dell’imprenditoria immigrata ha clienti italiani

77,3%: ha fornitori italiani

22,2%: è propenso ad assumere personale italiano



Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017