Passi nella crisi, con quale speranza?
Ci siamo cascati dentro. Dopo averla negata, esorcizzata, rimossa, ma anche evocata, bordeggiata, temuta, ora ci troviamo in piena crisi. Le locomotive dell’economia mondiale oggi si chiamano Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (in sigla Brics), Paesi che sono emersi, di slancio, e fanno egregiamente la loro parte dando punti di Pil alle stanche e involute economie occidentali. L’Europa ha una moneta comune senza una politica unitaria, e non c’è niente di peggio per contare poco nello scacchiere mondiale e prestare il fianco a una finanza che picchia duro sui punti deboli del sistema, parecchi nella nostra Italia. I consumi calano a picco, fin quelli alimentari che rappresentano l’ultima frontiera. Tiene la tecnologia, perché d’appeal e con un ciclo di vita ridotto, ma sbancano gioco e scommesse: da 61,5 miliardi nel 2010 a 76,2 nel 2011 (+ 23,9 per cento), cifra in crescita esponenziale (non c’è bisogno di dire perché) nell’anno in corso. Mi ha però spaventato, soprattutto, il racconto di un amico medico che si trova di fronte persone anziane le quali rifiutano di fare visite specialistiche perché non possono permettersi di pagare il ticket. «Un’altra volta, dottore», si sente dire da pensionati che misurano tutto e sono costretti a barattare quote di salute per tenersi in tasca pochi soldi.
Siamo dunque avviati verso una decrescita infelice? Sì, infelice, perché l’ossimoro «decrescita felice» mi trova d’accordo solo fin quando contrasta la crescita illimitata e selvaggia, non la crescita in sé, comunque necessaria per qualsiasi economia. Inoltre, va chiarito che crescita non significa solo crescita dei consumi, ma anche un loro ripensamento. E chi è il colpevole? Chi ci ha portati a questa deriva? Qualcuno parte dalla crisi dei subprime concomitante con lo sgonfiarsi della bolla immobiliare statunitense, altri puntano il dito contro il turbocapitalismo che sarebbe ormai al capolinea: il meccanismo «produrre per consumare e consumare per poter produrre» si è logorato. Altri suggeriscono che non solo di crisi economica si tratta, ma anche e soprattutto di crisi etica e antropologica: di mancata percezione dei fini e del corretto uso degli strumenti dell’economia, con un offuscamento, alla radice, di cosa sia l’uomo. C’è infine chi se la prende con le banche e i banchieri, i più vicini alla stanza dei bottoni e i più tentati dalle seduzioni della finanza facile.
Dopo una manovra salva-Italia richiedente sacrifici enormi, ora nel nostro Paese si sta dipanando, a fatica, il secondo tempo dedicato al rilancio e allo sviluppo. Gli occhi di tutti gli italiani sono puntati lì, perché se i sacrifici fatti o in corso non servissero a questo, al danno si aggiungerebbe la beffa. La parola crisi, tra i molti significati, ne ha uno che suona come giudizio/scelta: quando la crisi accade si richiede un chiaro giudizio di valore sulla situazione presente, per quanto possibile oggettivo e calibrato, perché ne sortisca una scelta. Nell’impossibilità che tutto torni come prima (questo sbocco della crisi, pur desiderato, è il meno probabile), si tratta di scegliere i contorni del nuovo o almeno la direzione per approdarvi, più in fretta possibile. Solo in questa logica si può parlare, senza abusare del termine, di speranza. Sant’Agostino sosteneva che «la speranza ha due figli bellissimi, lo sdegno per le cose come sono e il coraggio per cambiarle». Di sdegno in giro ce n’è tanto, fin troppo, in forma di rabbia, delusione, sconcerto, anche per il fatto che tutto sta succedendo in modo fulmineo: decisioni di pochi giorni condizioneranno la vita di milioni di italiani negli anni a venire. Allo sdegno, però, deve seguire il coraggio, che porta a dare il meglio di sé rimboccandosi le maniche e organizzando la speranza. Se è vero che il futuro è nebuloso e fa paura, non possiamo sottrarci alla necessità di dare un senso a quanto sta accadendo.