Perché non mi confesso
Ho chiesto a un mio amico, battezzato da bambino in Italia e ora primario di cardiologia in un ospedale londinese, perché non si accosti al sacramento della confessione. Mi ha risposto: «Perché sono diventato ateo!». Ma ha anche aggiunto: «Perché mi sembra un cedimento psicologico. Si confessano i deboli, i depressi. Chi sta bene non ne sente il bisogno. Ne è la prova che la maggior parte dei cristiani non si confessa. Il lieve recente aumento dei penitenti al confessionale è dovuto alla suggestione che esercita il nuovo Papa, più che a un atto di fede in Dio. Viviamo in una società liquida, senza certezze.
Se la confessione fosse un rimedio ai conflitti, alle guerre, allora potrei accettarla come un valore anche religioso. Non ritengo sia rispettoso della libertà individuale obbligare alla confessione. Non condivido, nemmeno, che una persona per dimostrarsi pentita debba promettere al sacerdote confessore di non peccare più. Sembra una commedia di cattivo gusto. L’unico dubbio lo ingenera in me la figura di Cristo, per il quale nutro una profondissima stima. Ma l’ha istituito proprio lui l’obbligo della confessione?». All’amico cardiologo, in occasione del nostro dialogo, ho risposto che Gesù ha voluto tutti i sacramenti, praticati dalla Chiesa cattolica. Anche la confessione, o meglio il «sacramento della riconciliazione», non è un’invenzione dei preti, «per dominare le coscienze».
Ma se questa è la prima e forse più frequente obiezione di chi ha scelto di non confessarsi, non è di certo l’unica. Un secondo tipo di obiezione è quella sostenuta, per esempio, dai protestanti (ma condivisa da molti altri). Nel maggio scorso il teologo valdese-protestante Paolo Ricca rilasciava un’intervista a un quotidiano molto diffuso in Italia dal titolo: Tra noi valdesi il perdono non ha bisogno di mediazioni. La giornalista iniziava il pezzo sintetizzando così la posizione dei protestanti: «La sua autorità, la mia autorità come cristiano non è né maggiore né minore di quella del Papa: possiamo annunciare a un fratello o a una sorella che Dio l’ha perdonato dei suoi peccati, perché è questa la rivoluzionaria novità del Vangelo. Ma non possiamo dire: Ego te absolvo…» (come fa un sacerdote cattolico e ortodosso). Dal 1500 con la Riforma, promossa da Lutero, i cristiani protestanti si distinguono dai cristiani cattolici. I primi non conservano il sacramento della riconciliazione, i cattolici, invece, continuano una tradizione praticata nella Chiesa, sin dai primi secoli del cristianesimo, perché voluta espressamente da Cristo. I protestanti non riconoscono necessaria la mediazione della Chiesa, come sacramento di salvezza, per essere perdonati da Dio. Ciascun peccatore pentito può sapere di essere assolto dai suoi peccati solo da Dio.
Paolo Ricca prosegue: «Questa è la novità cristiana, non tanto il fatto che Dio perdoni, il che è condiviso da tutte le grandi religioni, quanto quello di perdonarsi gli uni con gli altri». Essere perdonati è collegato alla capacità di perdonare i nostri simili. «Facciamo un esempio: un uomo tradisce la moglie, poi si rende conto di avere agito male. Può ritrovare la pace leggendo la Bibbia, pregando, il che non è fatto necessariamente di parole, ma della consapevolezza di essere in ogni momento davanti a Dio, ma può anche confidarsi a un altro credente, che potrà annunciargli il perdono. La cosa migliore sarebbe se a perdonarlo fosse la moglie stessa».
Che cosa dice il Vangelo?
Tra Vangelo e confessione esiste una spirituale continuità. Ecco il testo fondamentale. Gesù si rivolge agli apostoli, riuniti nel cenacolo, dopo la sua risurrezione: «“Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi non perdonerete, non saranno perdonati”» (Gv, 20,21-23).
Ci sono colpe di persone credenti che possono essere perdonate dai successori degli apostoli, i vescovi, e dai sacerdoti uniti a Cristo tramite i loro vescovi, per obbedienza a Cristo.
Tuttavia, ci sono responsabilità e colpe di persone non credenti, che si riconoscono di retta coscienza. Infatti, suona bene, anche per i non credenti, un testo del Concilio Vaticano II: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale, invece, deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa’ questo, evita quest’altro». (Gaudium et spes,16).
Se è un dovere per tutti cercare la verità, cercare il bene per agire rispettando la dignità propria e quella degli altri, non ci dovrebbero essere persone, tra gli atei, che non ritengono un dovere rispondere ad altri delle proprie scelte. Quando milioni di bambini muoiono di fame, ci sono dei responsabili che devono pentirsi e rimediare ai propri peccati privati. Anche per gli atei ci dovrebbero essere dei riti di ravvedimento. Non basta il Codice penale, come non basta il Codice di diritto canonico per i cattolici.
Il punto di vista dei protestanti – cristiani non cattolici – è ancora differente. Un’amica luterana mi disse un giorno che non a caso Lutero desiderava conservare la confessione come alto valore spirituale personale e sociale. Diversamente si corre il rischio di farci domanda e risposta in nome di Dio, giustificando comportamenti sbagliati e perdoni senza pentimenti, danni senza risarcimenti.
A proposito dell’accusa alla confessione di «ingerenza di estranei nella coscienza degli altri», mi permetto di sottolineare che la coscienza è intangibile, luogo sacro, ma va educata e non è un attentato alla sua autonomia educarla.
Se isoliamo la persona, la eliminiamo. La confessione cristiana avvicina, invece, la coscienza alla verità. Il colloquio con il sacerdote nel confessionale è intimo, confidente, segreto. Collabora alla elevazione morale del penitente. Il sacerdote ha il potere di perdonare, ma non è onnisciente.
L’assoluzione del sacerdote, detta in latino suonava così: «... in quantum possum, et tu indiges. Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris… (in quanto posso e tu ne hai bisogno. Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre...). Certo, i penitenti hanno bisogno della comprensione del confessore. Tuttavia, questi può negare l’assoluzione, quando mancano certe disposizioni d’animo oppure per motivi disciplinari o educativi. Il sacerdote ha il compito di usare la parola che risana e promette l’amore di Dio che perdona. La confessione fa lavorare la coscienza, la illumina, la purifica con il rimorso, la orienta a imparare ad amare, a essere riabilitata. Coloro che si sentono a posto non vanno al confessionale facilmente. Questi sono i peccatori più pericolosi. Li temeva anche Gesù, perché hanno le mani cariche di pietre, pronti a scagliarle.
L’effetto confessione nel Vangelo è visibile sul volto di un giovane che, pentito («Padre, ho peccato»), torna da suo padre. «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).