PERCHÉ SIGNORE?

La testimonianza di un vescovo che ha vissuto due terremoti, ha visto in faccia criminalità organizzata e terrorismo, eppure non ha perso la speranza della risurrezione.
05 Marzo 1997 | di

Era il 15 gennaio 1968. Una giornata come le altre. Di particolare, quasi a portare una novità  nel paese dove l'obbedienza mi aveva voluto parroco, Santa Ninfa, Valle del Belice, c'era la neve. Cosa difficile e rara, che in fondo portava una nota di allegria. Quella serenità  venne spazzata via brutalmente da un terremoto che distrusse tutto, facendo del paese che aveva una bella struttura d'insieme, un ammasso di rottami informi, che davano la netta impressione della «morte». La prima domanda che posi a Dio, non appena riuscii a uscire di casa, a lui che mi aveva miracolosamente salvato, guardando la bella grande chiesa crollata, fu: «Perché, Signore?». Subito il mio sguardo si rivolse verso l'altare maggiore dove era conservato Gesù Sacramento e vidi che anche lui, Dio, era finito sotto le macerie, come a condividere la nostra sorte: o forse da lì a guidare i nostri passi verso la speranza che, per chi ha fede, è un «nuovo» che sicuramente verrà , anche se faticosamente. Come è avvenuto.

Ricordo come un settimanale, a commento di quella immane tragedia, portò in copertina una foto a tutta pagina di un uomo sconvolto dalla disperazione che, presa una pietra dalle macerie, era nell'atto di scagliarla contro il cielo, quasi a imprecare un Dio che non aveva fermato il terremoto.

È l'atteggiamento di tanti oggi che non possono dare una risposta con la sola ragione umana, che denuncia tutti i suoi limiti, quando non è illuminata dalla fede. E ci sono tanti fatti, oggi, procurati da noi uomini il più delle volte, che hanno tutto l'aspetto di una società  impazzita, che ama quasi fare e farsi danni. Siamo stati spettatori, tramite le cronache, di immani tragedie, come quella della ex Jugoslavia: davvero incomprensibile, ma che lacera l'anima, rischiando di ferire la fiducia in Dio che noi, con affetto e confidenza immensa, chiamiamo Padre. Quante volte ci siamo sentiti come un croato o bosniaco o serbo in continuo terrore di guerra, violentemente strappato dalla propria casa e terra per quella che si chiamava «pulizia etnica», finendo in quegli inumani immensi campi di raccolta, dove è difficile progettare un futuro?

Così come ci siamo sentiti uno del popolo ruandese costretto a fuggire da una nazione all'altra, in esodi biblici, senza sapere dove andare, come sopravvivere, come scampare alla morte che sembrava pronta a colpirti, senza neanche perché. Le cronache, stanche di seguire il dolore, a un certo punto si sono disinteressate di questa povera gente senza colpa. Poi improvvisamente ci raccontano che si sono perse le tracce di mezzo milione di loro, finiti nella insicurezza della immensa foresta.

Siamo ancora storditi dalla tragedia procurata dal «gioco» del lancio dei sassi sull'autostrada, fino a uccidere. «Teste vuote, riempite di noia e quindi in cerca di qualcosa che dia un brivido a una vita che sembra spenta di interesse». E ancora più allucinanti sono i dati raccolti da una inchiesta, fatta su un campione di cinquemila giovani. Dieci adolescenti o giovani su cento si dicono totalmente d'accordo con i criminali della strada, pronti cioè a ripetere il gesto del lancio dei sassi.

 

Eppure ci ama alla follia

Abbiamo voluto ricordare solo una manciata di tragedie che sono lo sfondo del nostro tempo. Un panorama dove l'uomo ha perso la sua dignità  e nobiltà  di figlio di Dio, fatto a sua immagine e somiglianza. Non solo, ma la presenza dell'uomo nel mondo, di ogni uomo, la sua sola ragione di vita e quindi la sua vita è che Dio lo ama «come la pupilla dei suoi occhi».

È il ritornello del Vangelo di Dio, la rivelazione di un amore di padre che «ha cura» «e si preoccupa» di noi, fino a sapere il numero dei nostri capelli. Non solo, ma che lui ci ami fino alla follia, lo dimostra il dono del Figlio Gesù, che si è messo nei nostri panni facendosi uomo, e vivendo ieri, oggi e sempre la nostra condizione umana, fino ad addossarsi tutte le nostre colpe, pagandole con la morte in croce.

Una morte necessaria, per farci conoscere poi la risurrezione. E Gesù ha provato tutta l'amarezza di «sentire il Padre lontano», come se si disinteressasse della sua sorte: con un disegno su di lui che la natura umana difficilmente riusciva ad accettare. E Gesù commenta così il suo stato d'animo: «Una tristezza mortale mi opprime. Restate qui, dice a Pietro, Giacomo e Giovanni, e restate svegli con me [...] Poi cominciò a essere triste e angosciato».

Una volta solo, a tu per tu con il Padre, non riesce a trattenere il grido della tristezza e la ribellione della sua natura umana ad accettare il disegno del Padre, e lo prega: «Padre, se è possibile, allontana da me questo calice di dolore. Però non si faccia come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,30-40).

Ma il momento più terribile, quello che fa dire a noi uomini: ma dov'è Dio? Come credere al suo amore per noi?, è sulla croce. Lì, pare che Gesù abbia provato fino in fondo «il silenzio di Dio» nelle parole che non chiedono commento ma solo profonda meditazione: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato!».

Al nostro modo di pensare gli uomini, può apparire incomprensibile che Dio abbandoni così il Figlio sulla croce o che da lui chieda una morte atroce.

Ma era una morte necessaria per vincere la nostra morte. Arrivare a sacrificare il proprio Figlio per noi è davvero la prova più grande che Dio ci dava del suo amore. Amore non come un semplice, superficiale sentimento, come siamo abituati noi uomini ad avere, ma un provare sulla propria carne le nostre angosce, le nostre sofferenze, le nostre solitudini e guarirle dando non una facile parola di comprensione, ma dando la vita. «È necessario - aveva ripetuto più volte Gesù - che il Figlio dell'uomo venga consegnato ai sacerdoti, venga flagellato e crocifisso per poi risorgere il terzo giorno».

I veri cristiani sanno molto bene che la via per seguire Cristo è la Via crucis. Per cui non si scandalizzano delle sofferenze e delle prove; anzi, le abbracciano come un dono. Un dono anche il martirio, come è facile leggere nel martirologio. Ci vanno incontro - e lo fanno ancora oggi tanti - non solo nelle missioni, dove si incarnano nelle grandi sofferenze dei poveri e dei perseguitati, ma in tante ma tante realtà  della vita quotidiana.

 

Ma rispetta la nostra libertà 

Più allora che «silenzio o disinteresse di Dio» i fatti che avvengono e ci sconvolgono sono tante volte «la paziente attesa del Padre che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva». L'amore che lega Dio all'uomo e l'uomo a Dio è fondato sulla libertà . «Amo perché amo». Liberamente e gratuitamente Dio ci ama. Per la stessa natura dell'amore, il Padre non può imporci di accogliere il suo amore. Lui sa di poter ricevere un rifiuto, che poi è la nostra dannata vita, quella che ci passa sotto gli occhi. Non rinuncia, però, a tenerci in braccio, anche se per noi è difficile sentirle quelle braccia, presi come siamo dal ghetto di noi stessi. Ma lui è lì, sempre in attesa sulla porta di casa, come il padre del figlio prodigo.

Si racconta che un giorno un giovane, presentatosi a Dio dopo una vita difficile e sbagliata, abbia posto al Padre la domanda: «Ma dove eri quando io mi perdevo nel male?». Allora il Padre gli fece guardare un deserto dove vi erano per un tratto orme di due persone. Ad un certo punto si vide solo un'orma. E spiegò: «Vedi quelle orme? Una è mia e una è tua». «Ma perché nel momento più difficile si vede una sola traccia?». «È la mia: tu ti stavi perdendo e io ti ho preso in braccio».

Sembra una parabola evangelica: ma è l'esperienza della vita e della storia. E la posso testimoniare quotidianamente come pastore che ha vissuto ben due terremoti, ha visto in faccia tutte le criminalità  organizzate e il terrorismo. Il Signore davvero mi ha reso non solo testimone, ma mi ha chiamato a incarnarmi in tremende difficoltà  che avrebbero potuto oscurare il volto di Dio. Mi ha fatto vedere e vivere tanto Dio. Ma posso affermare oggi: c'è tante volte il silenzio di Dio che è sempre preludio di grandi eventi benefici.

Di fronte a questo «silenzio» misterioso, carico di amore, le parole dell'uomo che pensa da uomo è bene che tacciano, affidandosi al «pensiero e al cuore di Dio». Come fu il silenzio di Maria sotto la croce: era totale, doloroso abbandono alla volontà  del Padre, che nel dolore prepara «i cieli nuovi e terra nuova».

 

SIEROPOSITIVA CON AMORE

Mi pare bella questa testimonianza scrittami da una madre: «Premetto che anch'io sono sieropositiva (non tossicodipendente). La notizia di mio marito colpito da questa malattia fu tremenda: ma ancora più terribile sentirsi da quel momento esclusi ed emarginati. Io vivo con lui, grazie a Dio, e lo amo immensamente. Ho fede in Dio e lo amo con tutta me stessa. L'unico mio tormento è non poter avere altri bambini. Quando arriva la domenica per me è meraviglioso. Già  il sabato sera mi preparo come per ospitare una persona cara che poi mi riempirà  di gioia e forza, Gesù. E io ne ho tanto bisogno. Vorrei comunicarmi tutte le mattine, perché la sua luce ogni giorno in me è forte. Ma come è bello vivere in Dio, amandolo ed evitando di offendere il prossimo!».

 

IL GIARDINO RITROVATO

Ci sono voluti undici anni di lavoro per portare a compimento il restauro della parete sinistra dell'affresco La leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca, conservato nella basilica di San Francesco ad Arezzo. L'affresco, realizzato tra il 1452 e il 1463, ha subito nei secoli ogni sorta di degrado: terremoti, incendi, sfregi delle truppe di Napoleone, modifica della strattura muraria esterna della chiesa, infiltrazioni d'acqua, siringate di cemento e resine in precedenti restauri. A questo si aggiunga la particolarità  del modo di dipingere di Piero della Francesca, il quale al tradizionale «buon fresco», aggiungeva sull'intonaco colori, tempere grasse, biacca, lacca... tipici della pittura su tavola e tela. Il che richiedeva particolari attenzioni e tecniche del tuttto innovative.

I restauratori della Soprintendenza di Arezzo e dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze hanno posto le une e le altre, attuando un restauro rivoluzionario di cui vanno giustamente fieri, non solo perché hanno salvato uno straordinario ciclo pittorico seriamente compromesso, ma anche per aver gettato nuove basi per le metodologie di restauro, dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico. Determinante per il risanamento e consolidamento degli intonaci, resi fragili dalla solfatazione, si è dimostrata l'applicazione dell'idrossido di bario.

Al momento, il restauro finito, costato cinque miliardi e da poco aperto al pubblico, comprende la Battaglia di Eraclio contro Cosroe, la Ricerca e verifica della Vera Croce e l'Esaltazione della Croce. Il recuperro completo del capolavoro di Piero della Francesca è previsto per il Duemila.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017