Pianeta adozioni, che cosa si è inceppato?

L'Italia resta uno dei principali protagonisti mondiali, eppure qualcosa sembra essersi rotto nel sistema delle adozioni, con il progressivo calo delle famiglie disponibili ad accogliere bambini abbandonati. Declino strutturale o momento di ripensamento?
27 Novembre 2013 | di

Malati come siamo di vittimismo, siamo abituati a parlare male e a sentire parlare male dell’Italia. Così, pare quasi impossibile che il nostro Paese detenga un primato internazionale di tale valore. Eppure i dati parlano chiaro: siamo i primi al mondo nelle adozioni internazionali. Gli Stati Uniti, stando ai crudi numeri, ci sono davanti, ma lì i residenti sono cinque volte tanto gli italiani. In rapporto alla popolazione, quindi, nessuno è meglio di noi.

Questo fiore all’occhiello di casa nostra, tuttavia, è un po’… sciupato. Perché il fatto che l’Italia sia leader nelle adozioni passa sotto silenzio. Perché lo stesso istituto giuridico dell’adozione è in discussione. Perché i casi di fallimento fanno un gran rumore, e oscurano quelli (tanti) che vanno a buon fine. Perché, e partiamo da qui a misurare il fenomeno, le adozioni sono in calo, nonostante il primo gradino del podio. Dopo il biennio d’oro 2010 e 2011, quando venne superata la soglia dei 4 mila bambini stranieri accolti, ecco la doccia fredda del 2012, con il vistoso abbassamento a 3.106 adozioni. È l’onda lunga del trend negativo riguardante il numero di coppie disponibili, che in pochi anni sono calate di oltre il 30 per cento.
Questo vale anche per le adozioni nazionali, ovvero quelle che interessano i minori abbandonati nel nostro Paese, dove tuttavia il rapporto tra le famiglie disponibili (oltre 10 mila nel 2011) e i bambini adottati (poco più di mille) rimane alto.
Ma allora, qual è lo stato dell’arte? Declino o successo?
 
L’identikit dei protagonisti
La prima fonte da consultare per addentrarsi nella galassia dell’adozione è il Cai, sigla che qui non contraddistingue gli appassionati di montagna, bensì la Commissione per le adozioni internazionali, ovvero l’autorità – facente capo alla presidenza del Consiglio dei ministri – che in Italia governa una materia tanto delicata. Dai dati che il Cai pubblica ogni anno si ottiene uno spaccato del fenomeno piuttosto preciso. Intanto per quanto riguarda le famiglie adottanti. Anche se dal 2009 le famiglie delle regioni meridionali hanno avuto un peso crescente, le più attive, con quasi un’adozione su due, risiedono al Nord. I coniugi all’inizio del percorso sono sposati in media da otto anni, mentre quando ottengono il decreto d’idoneità hanno appena superato la soglia dei 40 anni di età. Quasi nove coppie su dieci non hanno figli biologici, tanto che la motivazione più frequente dichiarata è l’infertilità. Il livello culturale piuttosto elevato completa l’identikit.

L’iter per arrivare all’adozione internazionale è sommariamente riassumibile in quattro tappe: si presenta la domanda al tribunale dei minori, che rilascia o meno l’idoneità necessaria per conferire l’incarico a uno dei sessantatré enti accreditati, fino ad arrivare all’adozione vera e propria. Quanto tempo occorre? A rispondere è Daniela Bacchetta, giudice minorile «prestata» al Cai, dove dal 2007 ricopre il ruolo di vicepresidente, con un mandato in scadenza proprio in questi giorni: «Almeno sette famiglie su dieci riescono a ottenere l’idoneità entro l’anno. Tutto sommato non è male, e sono comunque tempistiche in linea con quanto avviene in altri Paesi. Poi alcuni tribunali sono velocissimi, come Bologna, dove il 73 per cento delle coppie consegue il decreto entro sei mesi. In ogni caso, più di nove famiglie richiedenti su dieci raggiungono il traguardo dell’idoneità». A questo punto, tuttavia, avviene un’ulteriore scrematura, perché il 32 per cento delle coppie idonee decide di fermarsi, senza conferire l’incarico a nessun ente. Per chi prosegue, i tempi si differenziano, a seconda del Paese straniero scelto. «Abbiamo calcolato – spiega la dottoressa Bacchetta – che nel 2012 per adottare un bambino straniero, dal momento della presentazione della domanda a quando il piccolo entra in casa, sono serviti, in media, tre anni e quattro mesi».

Ma chi sono i bambini che «entrano in casa», in una nuova famiglia, provenienti dall’estero? Intanto si tratta di minori il cui stato di abbandono sia stato riconosciuto da un provvedimento giudiziario. Per questi piccoli, si cerca innanzitutto una sistemazione consona nella loro terra. Qualora entro un ragionevole lasso di tempo non venisse trovata alcuna alternativa all’istituto, si aprono le porte dell’adozione internazionale.

Nel 2012, il principale Paese di provenienza è stata la Federazione russa rincorsa da Colombia, Brasile, Etiopia, Ucraina e Cina. Quasi un bambino su due proviene dall’Europa; a seguire è l’America Latina, con uno su quattro, ma è in calo rispetto all’Africa, da dove è giunto, nell’ultimo anno, il 16 per cento dei minori, i quali nel 2001 erano appena il 4,8 per cento. L’età media è di quasi 6 anni e, di poco, prevalgono i maschi.
 
I motivi della contrazione
I dati 2013 non sono ancora disponibili, ma la vicepresidente del Cai ce ne dà un’anticipazione: «La flessione è confermata. Siamo in una fase di declino abbastanza consistente, che tuttavia va inquadrata in una situazione mondiale di calo generale. Sarebbe sbagliato pensare che è il modello italiano a non funzionare, anzi è vero il contrario: rispetto alla sua resa, il nostro sistema è più efficace. Viviamo una contrazione delle adozioni, ma è stata più tardiva e più contenuta rispetto ad altri Paesi».

Tre i motivi individuati da Daniela Bacchetta. Intanto la crisi economica, perché, mentre l’adozione nazionale non ha costi, per quella internazionale servono in media sui 20 mila euro, anche se poi il 50 per cento è detraibile e in proporzione al reddito si può richiedere un ulteriore rimborso. Influisce anche la maggiore consapevolezza delle famiglie, che farebbe desistere le meno convinte; infine, e soprattutto, il rallentamento delle attività in diversi Paesi di origine, come avvenuto per la Colombia che, a causa di una revisione interna delle procedure, ha limitato le partenze.

«Molti governi – sostiene Bacchetta – si stanno dotando di procedure più rigorose riguardo ai minori, e di normative più consapevoli per la tutela della famiglia e dell’infanzia. Ciò significa che in queste società cala la necessità di ricorrere all’adozione internazionale. Lo scenario muta di continuo. Si pensi all’Italia, che negli anni Cinquanta era al secondo posto come Paese di origine dei bambini adottati dagli Usa, e ora ha ribaltato la situazione».

Il progresso sociale, economico e culturale di una nazione è positivo e auspicabile, e tuttavia, a livello globale, sono centinaia di migliaia i bambini che vivono in situazioni disastrose. «Sì – riconosce la vicepresidente –, in molte zone del mondo ci sono situazioni terribili, ma mancano le condizioni giuridiche per poter fare un’adozione internazionale che, se non nello spirito, non è una forma di assistenza e di cooperazione, ma un preciso procedimento giuridico amministrativo. L’adozione internazionale, di conseguenza, non è una soluzione all’emergenza umanitaria di determinati Paesi. Secondo la Convenzione dell’Aja sull’adozione, lo stato di abbandono deve essere accertato con sicurezza: non devono esserci dubbi sulla genuinità del consenso e sulla gratuità. Noi non vogliamo bambini che diventati grandi possano avere il sospetto di essere stati “rubati” anziché adottati. Per poter rispondere a testa alta a questa domanda, è inevitabile fare una buona selezione dei Paesi con cui si collabora».
 
I bambini al centro
Le tre letture proposte dal Cai per spiegare il trend negativo esauriscono le possibilità? Marco Griffini, presidente di AiBi Amici dei Bambini, uno dei principali enti accreditati per l’adozione internazionale, dice la sua: «È dal 2006 che abbiamo lanciato l’allarme sulla crisi del settore. Noi siamo preoccupati dal fattore interno, dalla disaffezione delle coppie: la gran parte non pensa nemmeno lontanamente di avvicinarsi all’adozione, perché negli anni si è diffusa una cultura negativa. Si parla di adozione solo in termini di fallimenti, bambini sempre più difficili, grandi, malati… Per forza la gente si spaventa. E poi la coppia sa di dover affrontare una via crucis». L’associazione ha individuato alcuni possibili miglioramenti, e li ha espressi in un’articolata proposta di legge che mira tra gli altri a snellire l’iter burocratico e abbassare i costi. La situazione è critica, ma la speranza non manca. «Stando solo ad AiBi – dice Griffini, a sua volta papà adottivo di tre figli –, chiudiamo l’anno con un aumento del 20 per cento di adozioni e del 16 per cento di coppie arrivate. Ma questa è solo una questione organizzativa. In realtà ad affascinare è la speranza dei bambini. Non ho mai capito come faccia un piccolo a vivere per anni abbandonato in istituto, e a mantenere viva la speranza di incontrare un giorno un papà e una mamma. Eppure accade così. E quando abbraccia per la prima volta i nuovi genitori, sembra che i tre si conoscano da sempre». 

Sì, nella dinamica adottiva è il bambino il soggetto principale. Sembra ovvio, ma è una conquista abbastanza recente nella lunga storia dell’adozione, troppo spesso sbilanciata sul bisogno della coppia. Chi è sempre partito dalle esigenze del minore, con lo slogan «Diamo una famiglia a ogni bambino che è negli istituti», è don Oreste Benzi, scomparso nel 2007, per il quale a novembre è partito il processo di beatificazione. «Quando si tratta di bambini che non possono vivere con i loro genitori naturali, la risposta è dare loro la possibilità di vivere con altri genitori, che li scelgono per amore» sosteneva don Benzi, che pure era stato molto critico sull’adozione internazionale, proprio per le possibili deformazioni. A proseguire il lavoro di don Oreste incarnandone lo spirito è la Comunità Papa Giovanni XXIII, dove tanti minori in affido o in adozione hanno trovato accoglienza, come racconta Giovanni Ramonda, successore del sacerdote romagnolo: «Sono in particolare bambini con gravi disabilità, cerebrolesi, cerebropatici, autistici che non avevano più famiglia. Sono creature che hanno bisogno, soprattutto loro, di una mamma e di un papà, del calore di una famiglia. L’apertura all’accoglienza è una reazione alla cultura dello scarto denunciata da papa Francesco, che purtroppo ha penetrato anche la mentalità dei credenti. L’affidamento e l’adozione sono scelte di giustizia più che di carità, e riportano alla bellezza del messaggio di Gesù, che immette nella società semi di vita, di fiducia e di speranza». Giovanni Ramonda e la moglie, nella loro casa famiglia nel cuneese, hanno dodici figli, tre biologici e nove, come dice il papà, «rigenerati nell’amore». A questa definizione davvero non serve aggiungere altro.
 

L’intervista
Adolescenza, passaggio delicato

 

La sua «specialità» sono le famiglie con adolescenti. Lui è Paolo Gambini, salesiano, ordinario di psicologia alla Pontificia Università salesiana di Roma, al quale abbiamo rivolto alcuni quesiti sulle dinamiche dell’adozione.

Msa. In Psicologia della famiglia (Franco Angeli, 2007) lei titola un paragrafo L’adozione come cura del trauma. È una prospettiva da tenere sempre presente?
Gambini. La ferita di essere stati abbandonati è sempre da elaborare. Da qui parte la generatività dell’adozione, che è azione di cura, un aiuto nei confronti del piccolo a fidarsi sempre più dei nuovi genitori, perché è inevitabile che in lui ci sia la paura di essere di nuovo abbandonato.

In termini relazionali oggi l’adozione è «più difficile»?
Nelle coppie è maturata la consapevolezza di quanto delicati siano i percorsi di adozione, di quanta cura bisogna avere verso l’identità dei bambini, e ciò significa in qualche modo anche maggior difficoltà. Ma, allo stesso tempo, più complessità vuol dire anche miglior realizzazione del percorso.

E quando l’adozione fallisce?
Casi di insuccesso ci sono e, certo, un genitore adottivo ha un surplus di difficoltà rispetto a chi cresce un figlio proprio. Ma in genere il rapporto evolve in un’esperienza positiva e generativa, in cui minore e coppia si fanno reciprocamente un grande dono. L’uno si fa figlio di chi magari non può averne, e gli altri diventano genitori di un bambino che ne è privo.

Quali caratteristiche ha un’adozione «di successo»?
Tutto riesce se il dono è accompagnato da un reciproco riconoscimento dei ruoli. Occorre un cammino progressivo di conoscenza delle diversità e dei bisogni. Non è l’atto formale a farci figli o genitori, ma il percorso di reciproco addomesticamento, detto nel senso del Piccolo Principe.

Un passaggio delicato è l’adolescenza.
È la cartina al tornasole dell’adozione, perché la reciproca appartenenza viene messa alla prova. Quanto più il legame è stato costruito ed è reale, tanto più il ragazzo si distaccherà senza la paura di perdere di nuovo la relazione, e i genitori potranno vivere non come una minaccia la separazione emotiva del figlio e le inevitabili domande sulle sue origini.
 
 

Adozione formato ragazzi
Dirlo con una fiaba

 
C’erano una volta un marito e una moglie molto fortunati. Avevano tutto ciò che una coppia poteva desiderare: le stelle alla finestra, le coccinelle sull’albero di mele, una bottiglia di latte in frigo. Eppure… qualcosa li rendeva tristi. «Non sapete pescare» spiegò un giorno la vicina di casa, porgendo loro una scatola di gomitoli di lana. Così, i coniugi legarono a ogni filo una foto che li ritraeva e – alzatosi il vento – lanciarono le curiose missive fuori dalla finestra. I fili volarono in ogni angolo del mondo, raggiungendo bambini neri, bianchi e gialli in attesa di una mamma e di un papà. Tre di loro – conquistati dall’immagine degli aspiranti genitori – si legarono il filo di lana al polso e, così, raggiunsero la nuova famiglia.

Più che una battuta di pesca, una battuta di cuore: ecco in sintesi l’adozione raccontata ai piccoli da Emanuela Nava in C’era una mamma, c’era un papà (Piemme). Come l’autrice milanese, madre di Khurshid, tanti altri genitori adottivi, negli ultimi tempi, hanno tradotto la propria esperienza nella lingua dei piccoli. Perché l’adozione non è un dettaglio da tacere, ma una realtà su cui riflettere assieme. Lo sa bene Monya Ferretti, autrice di Il momento tanto atteso (Giunti). In questo racconto elementare, ma mai scontato, l’adozione è presentata attraverso gli occhi di una futura sorella: Sara non vede l’ora di abbracciare il fratellino in arrivo dal Burkina Faso. La lunga attesa le darà il tempo di allenare pazienza e spirito di condivisione. Tra le prime letture che affrontano l’adozione con uno sguardo costruttivo ci sono anche Una giornata speciale (Lo stampatello), La cuginetta che viene da lontano (Ave), Bibo nel paese degli specchi (Carthusia) e Mille e mille modi di amare (Mammeonline).

Parlare di solitudine e affettività è sempre complicato, non per questo i membri di AiBi Amici dei Bambini si sono scoraggiati: la loro raccolta di fiabe L’orsacchiotto non più solo (Àncora) va dritta al cuore del lettore. Nelle otto storie ispirate a veri casi di adozione protagonista è il bambino, immerso in un mondo fantastico dove tutto è possibile, anche vincere la paura e la rabbia che l’abbandono comporta. Adozione, in effetti, fa rima anche con risentimento. Come fare, dunque, per spiegare un rifiuto, senza demonizzare la figura del genitore biologico? Ci ha pensato Anna Genni Miliotti che in Mamma di pancia, mamma di cuore (Editoriale Scienza) chiude il racconto di un’adozione con il lancio in mare di un messaggio in bottiglia. «Cara mamma – scrive la piccola Sheffali –, ti voglio bene e mi dispiace che non mi hai potuto tenere. Io qui sto bene con la mia mamma Cristina. E sono felice».

Come la narrativa, anche il cinema e la televisione per ragazzi sembrano sempre più sensibili al tema dell’adozione. Se siete già fan del classico Disney Le avventure di Bianca e Bernie (1977) e non vi siete persi una puntata della serie tv Stellina (2008), non vi resta che attendere il 13 marzo, quando sbarcherà nelle sale Mr. Peabody & Sherman, la storia di un cane scienziato che «ha preso sotto la sua zampa» un ragazzino. L’amore di un genitore – adottivo o meno – non conosce confini.
Luisa Santinello
 
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017