PIB, i Professionisti Italiani di Boston

Oltre 400 soci uniti da un grande entusiasmo, i «PIB» sono diventati il punto di riferimento della comunità italiana nel New England per condividere amicizie e contatti professionali.
17 Maggio 2011 | di

Boston
Aggregare professionisti italiani dell’area di Boston, facilitare collaborazioni tra iscritti, favorire i contatti tra professionisti in Italia e colleghi italiani e stranieri di Boston, organizzare eventi culturali interessanti per la comunità italiana, ma aperti anche alla partecipazione internazionale; insomma, promuovere l’italianità a Boston. Sono chiari e pragmatici gli obiettivi delineati dallo statuto di PIB: il gruppo di Professionisti Italiani a Boston che, nel giro di soli due anni, è diventato il punto di riferimento per i giovani connazionali che scelgono le sponde del Charles River come punto di partenza per il loro curriculum negli States, e non solo.
Professionisti, imprenditori, ricercatori, artisti italiani che vivono nell’area di Boston: sono queste le figure che danno corpo al sodalizio apolitico nato in quest’angolo nord-orientale degli Stati Uniti, culla dell’indipendenza americana. Ma, soprattutto, sono giovani. Giovanni Abbadessa, Cynthia Carrillo Infante, Marcella Debidda, Federica Del Monte, Elisa Dell’Oglio, Melissa Gallin, Nadia Di Carlo, Marco Ferrara, Francesco Fragasso, Eugenia Garrisi, Salvatore Mascia, Tiziana Musacchio, Valentina Oppezzo, Nicola Orichuia, Alberto Pepe, Marco Perucchi, Bastiano Sanna, Sandro Santoro, Alessandro Vianello, Davide Zaccagnini: sono questi i nomi del direttivo di un’associazione che vanta membri provenienti dal mondo accademico e industriale, e che rappresenta un vero modello per le comunità di italiani in altre città statunitensi che si stanno ispirando al programma sviluppato dal PIB.
Una rete per vivere bene
«Nei primi anni – spiega Michele Abbadessa, co-fondatore e coordinatore del sodalizio – vivevo a Philadelphia, in Pennsylvania, dove ho conosciuto tanti italiani. Le associazioni cui mi avvicinavo, aggregavano soprattutto gli italo-americani che magari non parlano la lingua italiana; oppure italiani arrivati negli Stati Uniti diversi decenni fa. Anche a Boston era la stessa cosa. Così, insieme ad alcuni amici, ho deciso di fondare un’associazione riservata a professionisti che vivono nell’area di Boston e che parlano la lingua italiana. I “Professionisti Italiani a Boston” (www.piboston.org) sono più di 400, oltre a un paio di centinaia di affiliati internazionali. Siamo inseriti nel tessuto sociale e professionale della città, nonostante la maggior parte di noi sia qui da meno di vent’anni. Questo perché si tratta di professionisti, in genere specializzati in Italia, trasferitisi qui per occupare posizioni lavorative di rilievo oppure per specializzarsi in una delle prestigiose università bostoniane, e che poi sono rimasti qui per lavoro. La difficoltà di ottenere visti per lavoro, unita alla competitività del nordest americano, è un elemento di selezione naturale del livello professionale degli italiani che rimangono a Boston. Al mio arrivo in città, nel 2007, non si sapeva esattamente quanti italiani lavorassero qui. Oggi i nuovi arrivati possono contare su una community attiva che organizza eventi sociali e professionali utili sia per sentirsi a casa che per crescere sul piano lavorativo. E che si sforza di fare da ponte con l’Italia».
Abbadessa – senior medical director di ArQule – dopo aver lavorato alcuni anni in un dipartimento di oncologia a Milano, ha proposto a un laboratorio americano un progetto che poi è stato approvato e finanziato. Infine si è trasferito negli Stati Uniti con l’idea di non restarci più di un anno. «Il primo impatto è stato molto positivo – ammette –. Tutto sembrava funzionare molto bene dal punto di vista lavorativo. Ma dopo il primo anno, ho cominciato a vedere anche gli aspetti negativi, soprattutto quelli riguardanti la sanità e l’educazione, decisamente più complesse rispetto all’Italia. Ma anche logiche di crescita professionale che non sempre sono perfette. Dopo essere stati lontani dal proprio Paese per un po’ di tempo, si tende poi a idealizzarne alcuni aspetti, perché magari si viene influenzati da sentimenti nostalgici». Impegnato a sostenere le attività di collaborazione con il Consolato d’Italia e con altri gruppi di giovani italiani negli Stati Uniti, il PIB organizza incontri con le eccellenze italiane che si fermano a Boston. «In casa – precisa Michele – si parla e si mangia italiano. Nostro figlio sta imparando a parlare italiano, inglese, spagnolo, e ha numerosi coetanei italiani con cui giocare, oltre a quelli americani. Nell’ambito di PIB, sono già nate varie attività volte a far incontrare i più piccoli in modo che anche i figli dei membri possano beneficiare del gruppo. Stiamo favorendo anche la nascita di gruppi gemelli di PIB a New York, Montréal, Madrid, Philadelphia. E speriamo anche in altre grandi città all’estero».
Un «concentrato» di talenti
«Avevo sentito parlare di PIB prima di arrivare a Boston – ricorda il console d’Italia Giuseppe Pastorelli, insediatosi a fine 2010 – e ho scoperto che rappresenta la realtà altamente qualificata della recente presenza italiana. Questa è una specificità di Boston. Non si trova questa concentrazione di talenti in altre città».
La specialità di Valentina Oppezzo è la fotografia. Nata a Casal Monferrato ventinove anni fa, e trasferitasi a 19 anni a Trieste per gli studi universitari, dopo la laurea al DAMS, Valentina ha scelto il mondo dell’immagine per la sua professione. Dopo un periodo passato a vendere polizze assicurative, decise di approfondire la sua passione per la fotografia e divenne assistente di importanti fotografi. «La molla che mi ha spinto a partire per gli States è arrivata da Francesco, che oggi è mio marito. All’epoca era studente, dottorando di fisica, alla Sissa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste. Gli fu offerto un contratto come “post doc” presso il laboratorio di biochimica della Brandeis University di Waltham, appena fuori Boston. Così decidemmo di partire e di provare l’“esperienza americana”. Per le nostre famiglie non fu facile accettare l’idea della nostra partenza. Personalmente non ho avuto nessun problema a lasciare l’Italia ma sicuramente, i primi tempi a Boston non sono stati facili. All’interno di una grande realtà come questa, è difficile conoscere persone e instaurare legami, soprattutto all’inizio. E poi a Boston d’inverno fa freddissimo! Mio marito e io abbiamo vissuto l’esperienza americana fino in fondo, cercando di conoscere per lo più persone locali o con le quali, almeno, si parlasse la lingua inglese. Ma poi, pian piano, siamo stati risucchiati nel meccanismo dei rapporti e delle amicizie tra connazionali, perché tra italiani all’estero si crea un legame e un “cameratismo” che tra gli italiani in Italia difficilmente esiste. Attualmente abbiamo molti amici italiani, anche se non frequentiamo esclusivamente italiani. Il PIB, a cui siamo iscritti da circa un anno, rappresenta un’ottima occasione per instaurare rapporti sociali e professionali».
Il coraggio di rischiare
Nel 2010, grazie a un nuovo visto, Valentina ha deciso di aprire il suo studio fotografico, nel quale realizza ritratti, fotografie di prodotti, e portfolio di modelli e modelle. Autrice del volume Harry Potter al Cinema, edito in Italia da Le Mani Editore, la giovane professionista insegna anche italiano agli adulti presso scuole serali e associazioni. «Francamente – conclude Valentina – se fossi rimasta in Italia, la fotografia si sarebbe probabilmente ridotta a un hobby. Qui, invece, mi sono sentita più motivata, circondata da esempi positivi e da tanta determinazione. Gli americani investono molto, fanno debiti e a volte perdono tutto. Gli italiani hanno sempre un gruzzoletto in banca, ma, onestamente, ci provano meno. Manteniamo ancora molti contatti con l’Italia, con gli amici e le nostre famiglie. L’esperienza americana, al di là di quanto durerà, è destinata a finire perché abbiamo deciso fin da subito che, a un certo punto, saremmo tornati a casa. Gli States sono tutto fuorché un Paese che garantisce assistenza. E anche il solo fatto di mandare i propri figli all’asilo costa cifre strepitose e impensabili».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017