Piccolo mondo moderno

Il valore sociale della civiltà viene prima dell’«homo oeconomicus», la cui espressione sono spesso solo i paradisi fiscali e le speculazioni illecite.
02 Maggio 2000 | di

Vancouver, B.C.
Chi ha paura della globalizzazione? Perché siamo presi da un senso di smarrimento di fronte a questa parola, oggi così usata e abusata? Certamente avvertiamo i nostri limiti a comprendere la complessità  e la velocità  di evoluzione di un mondo apparentemente senza confini. Navigando in Internet, basta schiacciare il pulsante giusto sul programma giusto ed ecco sullo schermo del computer fotografie di territori e paesi, oceani e continenti. Informazioni a portata visiva. Insieme ci è offerta la possibilità  della comunicazione immediata, senza lunghi viaggi, evitando lenti servizi postali. È un aspetto della globalizzazione quale prodotto dell'intelligenza e della ricerca umana. Se dunque l'uomo è arrivato a tanto, perché temerne le conquiste?

 Ci sono tuttavia da considerare - in questo tipo di globalizzazione - aspetti positivi e negativi. Positiva è senz'altro la possibilità  di collegamenti, di scambi culturali, di espressione per chi apparentemente non conta (pensiamo a persone sperdute in luoghi isolati e lontani, a minoranze senza voce ufficiale, a gruppi di opposizione a forme di strapotere politico, economico e finanziario). La recente rivolta al WTO, World Trade Organization di Seattle, che ha messo in crisi tesi e scelte operate dai vertici dell'Organizzazione mondiale del commercio, non sarebbe stata così massiccia ed efficace senza l'ausilio di questi mezzi positivi. A Seattle abbiamo visto scontrarsi duramente per poi tentare di convivere - costringendo all'attenzione e al colloquio - la globalizzazione dei ricchi e quella dei poveri. Ma è stato anche un momento importante per capire quanto ampia e profonda sia tuttora la paura della globalizzazione. Il cui aspetto negativo è, invece, il rischio di appiattimento o anche di annientamento culturale, di emarginazione per chi non possiede mezzi economici, di isolamento per chi non ha possibilità  e voce per esprimersi, e inoltre di allargamento incontrollato di affari illeciti (tra cui pornografia e pedofilia).

Prima e dopo Seattle

Del termine globalizzazione sembrava tuttavia si fossero appropriati, facendone una loro esclusiva, gli economisti, gli operatori finanziari, le multinazionali. Economia senza frontiere   viene tuttora ufficialmente definita: cioè economia globale. Ma chi ne ha in mano le redini? Con quale diritto e per delega di chi? È dunque solo economica la globalizzazione, o ci sono valori più importanti di quelli economici da affermare e salvaguardare in un mondo diventato così piccolo ma sempre più complesso? Il segretario generale dell'ONU, Kofi Annan, ha dichiarato di recente: «Non ne esiste solo una (di globalizzazione), ne esistono molte: dell'informazione, della droga, delle epidemie, dei problemi ambientali e - ovviamente - quella delle finanze». Ne siamo tutti coinvolti. Pensiamo al consumo di prodotti importati, non ultimo il vestiario «made in India», «made in China», «made in Taiwan» e così via. È un chiaro esempio dell'economia globalizzata così come viene definita ufficialmente e cioè «l'insieme dei processi che spingono a produrre beni e servizi al minimo dei costi, in aree geografiche convenienti, per poi rivenderli in altre aree, ottimizzando i profitti». Il profitto come legge ultima: il fine che giustifica i mezzi.
  Nonostante l'affermazione dei regimi democratici e i diritti di libertà  conquistati, un quinto dell'umanità  - il nord del mondo - appare tuttora incapace di scrollarsi di dosso la schiavitù dell'utilitarismo. L'ansia di giustizia è però enorme. Sempre più ampia e profonda sta rivelandosi (e non solo da parte di movimenti giovanili e schieramenti di sinistra) la critica al predominio delle leggi economiche su quelle morali, sui valori della persona, delle comunità , dei gruppi etnici, delle fasce sociali più deboli. Da Ottawa il capo del Business Council on National Issues, Tom D'Aquino, ha di recente definito «economicamente illetterata», capace solo di «abbindolare» chi l'ascolta e la segue, Maude Barlow, chairman del Council of Canadians, la donna che ha capeggiato la rivolta dei volontari canadesi a Seattle. Le tesi della Barlow possono anche vacillare di fronte alle ferree leggi del mercato, ma riflettono i ragionamenti e le necessità  della gente comune.

I nuovi poveri

«Fino a qualche anno fa, prima che mia madre si ammalasse di melanoma (una forma di cancro agli occhi) e mio padre divorziasse da lei, eravamo una famiglia del ceto medio, benestante», ha detto ad alta voce il 6 marzo scorso la studentessa sedicenne Devon Steeper-Shaw al ministro delle Finanze, Paul Martin, in visita ad alcune scuole di Vancouver. «Mi dica come è possibile che tre persone - mia madre malata, io e la mia sorellina di cinque anni - possano vivere di welfare quando pagano 850 dollari al mese di affitto per un buco di abitazione, senza considerare i costi per i servizi e il cibo. Spesso non abbiamo nulla da mangiare». La madre - che lavorava come assistente sociale e possiede due diplomi, tra cui un master in pubblica amministrazione - riceve 1330 dollari al mese come assegno di inabilità  al lavoro e contributo per il mantenimento delle bambine. «Nelle mie condizioni, i ragazzi abbandonano la scuola per vivere in strada... io cerco di resistere. Vorrei un giorno lavorare nel campo della giustizia sociale e della legge». Il potente ministro canadese ha risposto in modo evasivo. C'è anche da aggiungere che il budget del governo federale ha profondamente deluso le attese di interventi governativi per l'eliminazione della povertà  dei bambini. (Cfr. articolo A new Beginning, Messaggero di sant'Antonio, Febbraio 2000).
Ecco perché è necessario globalizzare, insieme con i mercati, anche i valori. Lo sostiene autorevolmente il Premio Nobel Amartya Sen, di origine indiana, titolare ad Harvard della prima cattedra congiunta di filosofia morale ed economia, oltre che docente della stessa materia al Trinity College di Cambridge. Illuminante è la sua critica al benessere definito in termini utilitaristici. Sen ritiene che non si debbano trascurare «senza con ciò rinunciare alla componente autointeressata del comportamento umano, elementi importantissimi nella definizione di valori, scopi e desideri, come i diritti sociali e civili, la partecipazione alla vita pubblica, ma anche il perseguimento della conoscenza e il godimento delle arti».

Un mondo equo e solidale

  A parte la cancellazione del debito del terzo mondo, tra i possibili rimedi della globalizzazione economica selvaggia - e soprattutto per la promozione degli abitanti del sud del mondo (spesso dominati dai pochi profittatori che detengono il potere irridendo la democrazia e il rispetto dei diritti umani) - gli esperti suggeriscono a governi e istituzioni di finanziare imprese senza scopo di lucro, attività  operanti nel rispetto dell'ambiente, di raccogliere e gestire risparmi in modo trasparente. A noi consumatori si consiglia inoltre di sostenere il commercio equo e solidale, che si basa sull'acquisto diretto di prodotti alimentari e artigianali dai produttori dei Paesi sottosviluppati, senza intermediari, pagando prezzi equi. Un'altra indicazione ci viene dal concetto di Banca Etica, cioè non esclusivamente finalizzata all'accumulo di denaro: quella istituita recentemente a Padova ne è un esempio. Un seguito eloquente, e non solo tra i giovani, sta riscuotendo in proposito «il banchiere dei poveri», ovvero Muhammad Yunus, che ha fondato in Bangladesh la Grameen Bank, una banca che offre microcrediti ai diseredati. Ottenendo oltretutto la restituzione del 98 per cento dei prestiti, Yunus sta a dimostrare come sia possibile promuovere crescita e fiducia anche tra gli emarginati della globalizzazione esclusivamente economica.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017