Pierpaolo Donati. Quale famiglia stiamo coltivando?
È in forma la famiglia italiana? «Per la verità non gode di ottima salute». A rispondere è il professor Pierpaolo Donati, già presidente dell’Associazione italiana di sociologia e tra i principali studiosi italiani della famiglia. Ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna, Pierpaolo Donati è anche direttore dell’Osservatorio nazionale della famiglia. In questa intervista ci aiuta a ripassare i fondamentali dell’istituzione che è alla base della nostra società, dando una lettura dei dati statistici e anticipandoci gli esiti di alcune indagini.
Msa. All’Incontro mondiale delle famiglie di Milano interverrà, il 30 maggio, sul tema «La famiglia come risorsa della società». Cosa dirà in quell’occasione?
Donati. Presenterò la ricerca – che sarà in libreria a maggio per le edizioni Il Mulino, dal titolo Famiglia risorsa della società – realizzata per conto del Pontificio consiglio per la famiglia su un campione di 3.500 persone, rappresentativo della popolazione italiana. L’intento della ricerca è stato quello di andare a vedere quale forma di famiglia sia più capace di dare un contributo di solidarietà, fiducia e partecipazione attiva alla società. Lo abbiamo fatto perché oggi sembra prevalere nell’opinione pubblica l’idea che tutte le forme di famiglia siano più o meno equivalenti e tutte positive, purché ci sia affetto. La verifica è stata fatta sul piano empirico con un’analisi molto complessa di tutta la vita famigliare (vita di coppia, relazioni genitori-figli, capitale sociale, rapporto famiglia-lavoro).
Può anticiparci gli esiti?
È presto detto. Abbiamo verificato che la famiglia «normo-costituita» – come diciamo noi sociologi –, composta cioè da una coppia uomo-donna e dai loro figli, è la forma che costituisce la maggior risorsa per la società. Quanto più la famiglia è ampia e stabile, tanto più essa è percepita come soddisfacente dalle persone, che sentono di esserne arricchite dal punto di vista umano. In queste famiglie esiste un circuito virtuoso: quanto più la coppia è impegnata su un comune progetto di vita, tanto più ha figli, i quali poi hanno più successo nella vita, sono cioè giovani che si impegnano maggiormente, sia sul piano dello studio sia su quello professionale, hanno condizioni di salute migliori, hanno comportamenti pro-sociali. In generale, il benessere e la qualità di vita dell’intera famiglia è migliore.
E le altre forme familiari?
Sono più deboli e precarie, bisognose di assistenza e di aiuto, quindi non sono risorsa per la società, o comunque lo sono di meno. Mi riferisco, ad esempio, alle famiglie con un solo genitore, problematiche per la loro debolezza e anche per le conseguenze che hanno sui figli, che, stando alle statistiche, hanno più problemi in termini di successo scolastico, carriera professionale, oppure hanno maggiori comportamenti devianti, dipendenze e così via.
Lei parla di «figli» al plurale. E le famiglie dei figli unici?
Vengono subito dopo, insieme alle coppie senza figli. Sono relativamente vicine tra loro nell’essere abbastanza problematiche per la società, ma non tanto in termini economici, perché, anzi, in genere sono le più ricche. Il benessere materiale, tuttavia, da una parte alza la soglia della conflittualità interna, rendendo la coppia più incline a separazioni e divorzi; dall’altra, rende questo tipo di famiglia poco partecipativa nei confronti della società. Io chiamo queste coppie «restrittive», nel senso che si rinchiudono un po’ in se stesse vivendo l’affettività nel gruppo ristretto, senza proiezioni verso la società.
Al di là della ricerca, qual è lo stato di salute della famiglia in Italia?
Le famiglie «risorsa» che ho descritto finora sono una minoranza, circa un terzo delle famiglie italiane. Un altro terzo è costituito da famiglie che presentano varie forme di difficoltà e problemi seri, e l’altro terzo è costituito da famiglie che possiamo chiamare «sfasciate», con grandissima instabilità, forme patologiche di relazioni e così via. Se uno dovesse fare il bollettino dello stato di salute della famiglia italiana dovrebbe dire che essa in generale non gode di ottima salute, perché l’area delle famiglie «normali» si va riducendo anche per via del calo della natalità.
Le discendenze si riducono per una serie di fattori, non ultimo l’innalzamento dell’età media al primo matrimonio. Siamo arrivati a 33 anni e oltre per gli uomini e quasi 31 per le donne. Inoltre, crescono le conflittualità interne, i divorzi e le separazioni, anche se la crisi economica ne ha in parte rallentato l’aumento.
Quali le cause del ritardo nel formare una nuova famiglia?
Fondamentalmente sono due. Le ragioni per cui si ritarda il matrimonio, o non ci si sposa, o si rimanda di continuo la decisione, sono infatti di ordine materiale e psicologico. La mancanza del lavoro e della casa incide all’incirca per il 40 per cento. Molto più incisivi – per il 60 per cento – i fattori psicologici e culturali, ovvero la paura del futuro, il senso del rischio, dell’incertezza, il non sentirsi all’altezza di educare dei figli in un mondo sempre più difficile. A pesare è l’individualismo culturale, cioè il fatto che le norme della vita sociale, a partire da quelle fiscali, sanitarie, dell’assistenza e così via, premiano il singolo in quanto individuo, senza tenere conto della famiglia, «istituzionalizzando» così l’individualismo.
Come viene giudicata questa tendenza?
Qui si scontrano due teorie. La prima sottolinea la positività dell’emancipazione dell’individuo. Si saluta come progresso la tendenza a intendere la famiglia come una forma di convivenza quotidiana in cui i singoli definiscono liberamente i loro diritti e doveri, affermandoli come scelte personali su cui solo loro possono decidere. Si plaude alla famiglia come «invenzione del presente». Si esalta la scelta di chi vuole un figlio come segno di realizzazione individuale, senza per forza formare la coppia genitoriale. Si approva l’idea che la coppia felice non possa durare più di un ragionevole lasso di tempo: dopo, si passa a un’altra esperienza a due, e questo può – anzi deve – essere fatto tante volte quante sono necessarie perché l’individuo si senta realizzato. Si additano come «nuove famiglie» le aggregazioni più disparate di individui che sono alla ricerca di relazioni in cui sentirsi affettivamente a proprio agio. Tutto ciò va sotto il nome di «pluralizzazione delle forme familiari», nuova frontiera sociale che viene salutata come la promessa di un mondo migliore in cui ciascuno sarà più libero e uguale agli altri nel cercare la propria felicità individuale. La famiglia viene ridotta alle relazioni affettive primarie, dimenticando che essa non è un semplice gruppo primario, ma è anche un’istituzione sociale.
E la seconda tesi?
Sottolinea che l’individuo preso a sé sarà magari in un primo momento favorito, ma poi subirà le ripercussioni negative della mancanza di reti sociali, di relazioni e del capitale sociale della famiglia. Si va verso una società atomizzata in cui l’individuo sarà più autonomo, ma anche più isolato e fragile. È un cambiamento ambivalente: il distacco dalle relazioni emancipa, ma alla fine gli individui senza famiglia, o con famiglie deboli e fragili, sono più problematici di prima, e soffrono più spesso di tutta una serie di problemi o di patologie psicologiche, come depressione, sconforto, senso di frustrazione, pessimismo, mancanza di fiducia. E tutto questo senza avere persone vicine con cui scambiarsi degli aiuti.
Sono in aumento anche le coppie che scelgono la convivenza.
È un trend in crescita, ma bisogna distinguere: ci sono coppie che si sentono «costrette» alla convivenza perché non riescono a mettere su famiglia, perché il futuro è incerto, per il lavoro precario e la casa che non c’è. Altre coppie, invece, scelgono la convivenza come stile di vita, decidendo di non sposarsi. In realtà queste ultime, anch’esse in crescita, sono per il momento solo una piccola percentuale, tra il 20 e il 30 per cento delle coppie non sposate. Il 70 per cento di chi convive, invece, non si oppone al matrimonio, ma lo rimanda – magari anche nel frattempo mettendo al mondo dei figli – in attesa di determinate condizioni economiche o psicologiche che permettano di far fronte a maggiori responsabilità.
Ma questo procrastinare una scelta definitiva, ad esempio optando per la convivenza «di prova» prima del matrimonio, rende poi alla fin fine la coppia più stabile?
Capisco chi sostiene questa tesi, che suona pressapoco così: la coppia di prova che si sperimenta in un periodo di convivenza, per valutare il proprio affiatamento e nel frattempo trovare le risorse economiche e psicologiche in vista del matrimonio, sistemando tutte le cose prima di fare il grande passo, quando poi si sposa è più stabile. In realtà questa tesi è molto fragile! Nella nostra ricerca emergono le coppie che ragionano così. Ma non dimostrano di essere più capaci di creare una famiglia solida rispetto a quelle che si sposano «subito», se vogliamo prendere come riferimento il matrimonio.
Dal punto di vista sociologico è vero che il matrimonio sta diventando un punto di arrivo della famiglia, non è più il punto di partenza. Si diffonde l’idea che la famiglia si costituisca prima nella convivenza, con o senza figli, e che poi maturi poco a poco. Ma questa idea non è suffragata dai fatti. Non è dimostrato che le coppie che si sperimentano con un periodo anche lungo di convivenza siano più felici, più solide, abbiano figli migliori… I dati dicono che avviene il contrario.
In che senso?
Chi decide per il matrimonio, cioè per una stabilità della coppia, pur nelle ristrettezze economiche della vita quotidiana, è nella sostanza più felice, soddisfatto e partecipativo. La coppia che non decide, che è incerta, che dice «vediamo come va», è tendenzialmente narcisistica, chiusa in se stessa: dà il primato all’affettività reciproca, al volersi bene tra i due, e questo non alimenta la fiducia e la solidarietà verso la società. È un po’ un rinchiudersi in quella che è la classica coppia romantica, di cui persiste lo stereotipo, il nido caldo.
Il panorama delle possibili «unioni» alternative alla famiglia tuttavia è ampio e va allargandosi: come giudicare questa tendenza?
Rispondo citando un’altra ricerca che sta uscendo. Il 20 marzo, a Milano, verrà presentato il rapporto del Centro internazionale studi famiglia (Cisf), dal titolo La relazione di coppia oggi. Una sfida per la famiglia, per le edizioni Erickson (2012), che prende in considerazione la popolazione tra i 30 e i 55 anni che vive in coppia. Emerge la differenza tra quella che io chiamo coppia «aggregativa» e coppia «generativa». L’aggregativa è formata da individui che si mettono insieme e si sperimentano, si assaggiano a vicenda, cercano di trovare un modus vivendi affettivo di convivenza quotidiana. Ma rimangono degli aggregati. La famiglia, invece, non è un aggregato, bensì è un fenomeno emergente di natura relazionale, e solo quando è così genera dei figli e, in generale, dà un valore sociale aggiunto alla società.
È questa la coppia generativa, quindi.
Sì, ed è totalmente diversa, perché parte con l’idea della famiglia, che non è semplice somma di individui, ma ha una sua progettualità generativa. In sostanza sono coppie che si vedono proiettate nel futuro, con figli, e quindi che si impegnano di più, che vedono la stabilità anche come una condizione necessaria per avere figli ed educarli in un clima positivo e così via.
Noi certo abbiamo una cultura che va nella direzione della pura e semplice aggregazione, per cui si dice che è famiglia qualsiasi aggregato di individui che definiscono in modo del tutto soggettivo le loro relazioni, diritti e obbligazioni, mettendo qualsiasi forma familiare sullo stesso piano, perché tanto ciò che conta è «volersi bene». Ma la condivisione di vita progettuale è un’altra cosa.
E la politica?
Si è fatta sempre più neutrale. Non offre orizzonti: si limita a recepire i cambiamenti culturali della società che vengono dal mercato, diventato paradigma delle relazioni. L’Europa vuole il mercato libero, non solo delle merci, ma anche delle relazioni: ciascuno deve far famiglia come più gli aggrada. Una scelta privata, come una qualsiasi scelta personale di mercato. La modernità come modello culturale è impostata sull’immunizzazione dell’individuo dalle relazioni. Si sta erodendo l’idea che la famiglia sia un bene comune. Si va quindi in una direzione miope di maggior fragilità, che farà anche comodo al mercato, ma in prospettiva fa il male della società.
Si può invertire la tendenza?
Io credo che ci sarà una reazione quando finalmente ci si renderà conto che avere eroso le relazioni umane e sociali – come quelle familiari – ha depauperato il capitale sociale, diminuito il capitale umano e la capacità delle persone di essere all’altezza delle sfide culturali, tecnologiche, dell’istruzione. Si reagirà quando ci si renderà conto che le relazioni contano più delle cose materiali. La vera ricchezza è fatta di relazioni sociali. Se creiamo reddito distruggendo la società, alla fine ci perdiamo tutti.
L’Osservatorio nazionale sulla famiglia, da lei presieduto, ha licenziato nello scorso giugno la bozza del Piano nazionale di politiche per la famiglia. Quale direzione auspica?
Sintetizzo la proposta del Piano con l’espressione family mainstreaming, che si applica alle politiche di sostegno alle relazioni familiari. Significa impegnarsi a tener conto della variabile familiare nello stilare qualsiasi legge, valutandone l’impatto sulla famiglia. A livello europeo, finora, si è spinto per politiche di gender mainstreaming, ovvero per le pari opportunità. È il momento di fare un passo in più, congegnando interventi politici che promuovano la solidarietà e la stabilità familiare, la fecondità, la capacità di allevare i figli. In definitiva: se è vero che la famiglia «normo-costituita» è risorsa per la società, allora è il caso che la politica promuova quel tipo di famiglia, fatta salva ovviamente la libertà delle persone di vivere in un altro modo, ma come scelta privata che la politica non ha l’obbligo di favorire. Il principio è: quando è in gioco il welfare pubblico, l’individuo deve essere sostenuto in relazione alla struttura famigliare di cui si prende la responsabilità. E chi si prende più responsabilità, meglio sarà trattato.
La denuncia
di Ritanna Armeni
Aboliamo i ricatti alla maternità
Il fenomeno delle dimissioni in bianco imposte alle giovani donne all’atto della firma del contratto coinvolge una lavoratrice su quattro in Italia. E, di certo, non aiuta la famiglia.
La ministra Elsa Fornero lo ha annunciato pubblicamente: entro marzo, insieme alla riforma del mercato del lavoro, porrà fine all’abuso e al ricatto sulla maternità cui sono sottoposte gran parte delle donne italiane quando cercano un posto di lavoro. Cancellerà quella pratica delle lettere di dimissioni in bianco (cioè senza data), attraverso le quali i datori di lavoro riescono a licenziare, con facilità e senza pagare alcun prezzo, le donne che rimangono incinte. Oggi, in molti casi, la giovane donna che trova un lavoro è costretta a firmare, all’atto dell’assunzione, una lettera senza data nella quale afferma di volersi dimettere. La lettera è conservata dal datore di lavoro e usata nel caso la lavoratrice rimanga incinta. Allora sarà tirata fuori dal cassetto, l’allontanamento sarà immediato e, per l’impresa, sarà del tutto indolore. Nessuno potrà protestare, dal momento che, agli occhi della legge, non si tratta di un licenziamento, ma di dimissioni liberamente sottoscritte e di un rapporto di lavoro altrettanto liberamente rescisso. È evidente che la verità è l’esatto opposto. Siamo di fronte a un atto di prevaricazione: la donna ha subìto un ricatto.
In Italia ci sono leggi importanti che tutelano la maternità e proteggono la donna lavoratrice. Nel nostro Paese, come in tutti i Paesi civili, non si può licenziare chi aspetta un bambino. Molti perciò rimangono increduli, e pensano che la denuncia del fenomeno delle dimissioni in bianco, fatta da gruppi di donne sempre più numerosi e impegnati, sia esagerata. Che la pratica sia limitata e circoscritta. Non è così. Le norme, anche le migliori, si possono aggirare. E sono state aggirate. Il fenomeno non è così limitato. Patronati e sindacati (dalla Cgil alle Acli) affermano che almeno una donna su quattro è costretta a subire questo abuso.
Per contrastarlo in modo definitivo, qualche anno fa era stata promulgata una legge, voluta fortemente da un gruppo di donne e votata nel 2007 trasversalmente da maggioranza e opposizione. Con questa legge l’imbroglio – perché di imbroglio si tratta – non era più possibile. Dicevano le nuove norme: la dichiarazione di dimissioni volontarie è valida solo se si utilizzano appositi moduli distribuiti esclusivamente dagli uffici provinciali del lavoro e dalle amministrazioni comunali. Questi moduli, contrassegnati da codici alfanumerici progressivi e da una data di emissione, assicuravano che i modelli non fossero stati precompilati. Non era possibile contraffarli e, quindi, potevano essere utilizzati solo se la donna effettivamente voleva lasciare il lavoro. Tutto era molto semplice. Il fatto, il reato, il ricatto si depontenziavano, si rendevano impossibili prima che potessero verificarsi. Ma questa legge (la numero 188) ebbe vita breve, anzi brevissima. Venne abolita su proposta di Maurizio Sacconi, ministro del Welfare, solo tre mesi dopo l’entrata in vigore. E tutto è tornato come prima. Le giovani donne continuano a subire il ricatto e ne conosciamo le conseguenze: spesso smettono di lavorare.
Le dimissioni in bianco sono sicuramente una delle cause per cui, secondo l’Istat, 800 mila donne negli ultimi due anni hanno lasciato il lavoro in seguito alla maternità, e l’Italia è all’ultimo posto in Europa nell’occupazione delle mamme. L’alternativa è rinunciare a diventare madri, decisione che le giovani, lo dice ancora l’Istat, sono costrette a prendere sempre più spesso, più spesso certamente di quanto facessero le loro madri. Se, dopo il Giappone, siamo il Paese più vecchio del mondo, se una coppia fa in media poco più di un figlio, e quindi la natalità decresce più che in altre parti d’Europa e del mondo occidentale, molto dipende non dalla mancanza di leggi che formalmente tutelano la maternità, ma dai modi in cui essa è concretamente vissuta sui luoghi di lavoro e, anche, dagli abusi, dai ricatti e dai reati che vengono perpetrati nei confronti di chi ha l’ardire di volere insieme maternità e lavoro. Le dimissioni in bianco sono sicuramente uno dei modi più odiosi. Per questo molte donne attendono con ansia la decisione della ministra Fornero. E il ripristino della legge 188.