Pietà non l’è morta
Dicono che veniamo tutti dall’acqua, che questa è il nostro ambiente primordiale. Dicono che il nostro corpo sia composto di una percentuale d’acqua che sfiorerebbe il 90 per cento. E anche il nostro pianeta è detto «pianeta azzurro» proprio per la grande presenza d’acqua. Per questo ci piace tuffarci nel mare, lasciarci cullare dalle onde come fossimo ancora immersi nel liquido amniotico nella pancia della mamma, piuttosto che sguazzare in una vasca da bagno. Dicono perciò, e lo dicono un po’ tutti, che il mare è quanto di più si avvicini alla fonte della vita. Magari pure della «bella vita», se banalmente pensiamo alle icone delle nostre vacanze. Seduti in riva al mare, di volta in volta abbiamo sognato a occhi aperti pirati e sproporzionate balene, civiltà scomparse e sirenette, viaggi della speranza o rotte dettate dall’avventura e, persino, complici certi tramonti, l’amore della nostra vita. Quante volte il mare ci è tornato utile per una poesia o per un’immagine ardita con cui raccontarci paure e progetti?!
Ma in questi ultimi tempi ci hanno detto, e a dire il vero troppo spesso, che il mare è tomba di tanti uomini e donne… Tanti disperati in fuga da fame e guerre, inseguendo un sogno (ma non era un diritto?!) di dignità pagato a caro prezzo. Protagonisti per un attimo delle nostre commozioni, nonché paradossalmente di prime pagine e di programmi tv di informazione ma anche di approfondimento. Ma, al contempo, poco più che una percentuale, un numero, un corpo pietosamente ricomposto sulla spiaggia. Un corpo che però si impone, purtroppo c’è, non è fiction né videogame. (E lo sanno tutti coloro che a vario titolo soccorrono queste persone: costretti a toccarle, a portarne talvolta letteralmente il peso. Grazie di cuore, fratelli e sorelle, per quello che fate, grazie alle popolazioni e alle comunità cristiane che non se ne stanno indifferenti o convinti che tocchi a qualcun altro occuparsene!). Eppure uomini e donne senza volto. Senza nome. Scaraventati nel nulla. Inghiottiti nell’anonimato, e perciò uccisi due volte. Senza la possibilità di una lapide, una foto, una memoria che perduri nel tempo, lacerando il silenzio di coloro che non ci sono più. Ma anche permettendo a chi resta di aver un «luogo» dove recarsi per continuare la relazione con chi è morto, un posto concreto deputato a raccogliere le nostre lacrime. Ciò che appunto sono i nostri cimiteri, che in questo mese visitiamo più del solito. Per loro niente: il mare li ha letteralmente ingoiati, e al posto di una più rassicurante pietra, li ha ricoperti con abissi impenetrabili e misteriosi fatti d’acqua.
Ecco, questo mi sta interrogando, che un grembo di vita sia diventato spietata e anonima tomba per queste persone. E ingaggio battaglie con le parole, nel tentativo di dire tutta la fatica ma anche la ribellione che sento di provare in questo momento: perché? Perché, buon Dio, oltre che il danno di una vita assurda anche la beffa di una morte non meno assurda? Chi erano quegli uomini e quelle donne? Per quale colpa non hanno meritato quella pietà che ogni defunto merita, tant’è che seppellire i morti è una delle sette opere di misericordia? E se il mare avesse il compito in realtà di continuare a «tenere in vita» quelle persone, frammenti del corpo di Cristo spezzato per tutti, provocando la nostra fede e il nostro responsabile impegno?
E la paura e il dubbio accesi dal rumore di tutto questo, dallo sciabordio funebre delle onde su quelle spiagge di morte, finalmente si volge in quieta preghiera. Perché fratello mare conservi come preziosissimi tesori questi nostri fratelli e sorelle ignoti; perché Dio, che lo è anche degli abissi, lui che ne conosce tutti i nomi e sa la preziosità di ognuno, li risusciti infine. Rifacendo dell’acqua quella fonte battesimale di vita che dev’essere.