Povera la società che uccide i morti
«Avessi ancora cinque minuti per stare con mio padre e dirgli quello che gli avrei detto se avesse aspettato qualche ora ancora, almeno il tempo perché io tornassi e potessi stargli vicino, tenergli la mano mentre se ne andava: invece ero occupato nel mondo per il mio futuro, per il mio successo e sono tornato che non c'era più. Sono andato nella sala mortuaria ed era freddo. Mi pareva che mi guardasse con un po' di rimpianto e io non gli ho detto il bene che gli volevo. Ecco il dolore velato di malinconia, intrecciato alla voglia di ritornare su quell'immagine morta, che oggi mi si presenta come l'espressione stessa della vita e del suo significato». Malinconia, rimpianto, colpa ma anche profonda umanità e ricerca di senso: tutto questo traspare dal brano estratto da Capire il dolore , recente libro di Vittorino Andreoli (ed. Rizzoli). Non è solo lo psichiatra che parla, ma l'uomo che ha sofferto e soffre, perché per curare il dolore bisogna condividerlo. A lui chiediamo che cosa pensa di questa società che rifugge la morte e il lutto, che diserta la memoria.
«Non solo nessuno parla più di morte ma la morte è diventata spettacolo, spesso pacchiano e perverso: muoiono gli eroi dei film, come se la morte fosse un fatto straordinario o, a volte, una via per uscire dalle difficoltà . Nessuno considera la fine dei comuni mortali e così siamo incapaci di fare comunità , di stringerci attorno a chi è in lutto, di capire che la morte così come la nascita sono patrimonio di tutti, fanno parte della sacralità della vita. Quanta consolazione ci sarebbe in più se recuperassimo la cultura cattolica della morte».
Non è l'elogio della morte e del dolore, ma la capacità di trascendere e dare senso. «Io non amo la morte. Per me è interruzione drammatica e disperata ma il lutto va elaborato. Quando perdiamo una persona cara, non possiamo più incontrarla fisicamente ma dobbiamo recuperarla dentro di noi, nella dimensione della nostalgia e della memoria. Solo allora il lutto diventa uno dei più bei sentimenti. È memoria delle piccole cose, dei gesti, degli sguardi. E allora uno ricorda la carezza del proprio padre. Quel gesto fuori dalla cronaca diventa parte di una relazione affettuosa profondissima. Ricordo che quando morì mio padre, mi venne in mente una frase: `Adesso sei con me in ogni momento`. Incredibilmente il lutto rende continua una relazione che nella vita quotidiana è intermittente. Lo penso tanto più oggi, che sono avanti negli anni e dentro di me ci sono più morti che vivi».
Eppure è difficile oggi elaborare il lutto: in questa società , chi si ferma è perduto.
«Se questa società non ha spazio per il lutto è perché è una società vuota. La morte ci ferma e ci fa pensare. Non si può dare un senso alla vita se non si considera la morte. Ogni civiltà è nata sulla morte e con la morte deve misurarsi sempre. Anzi dalle sue risposte alla morte si capisce quanto in quel periodo storico sia presente il senso dell'uomo, l'umanesimo. La società che uccide i suoi morti, è una società senza memoria».
E la fede, quanto ci può aiutare?
«La fede è fondamentale, quella della città di Dio ma anche quella della città dell'uomo. Bisogna credere negli affetti, bisogna avere fiducia gli uni negli altri, fede nei nostri padri. Poi c'è la fede con la `effe` maiuscola, quella di san Francesco, che è arrivato a chiamare `sorella` persino la morte. Mi piace, però, ricordare che il termine `sorella`, accanto a `morte`, è stata l'ultima aggiunta di frate Francesco al testo del Cantico delle creature . E questo ci infonde speranza, la speranza di arrivare un giorno anche noi a poterla chiamare così».