Poveri in spirito

«Beati i poveri in spirito» è la prima delle Beatitudini che Gesù enunciò nel suo «Discorso della Montagna», riportato nei Vangeli di Matteo e Luca. Ne parliamo in queste pagine, in vista del Convegno ecclesiale di Firenze 2015.
30 Gennaio 2014 | di


Tutto è dono
  
La Scrittura è la fonte gioiosa da cui si alimenta l’esperienza di fede; a essa torna sempre e di nuovo ad attingere la comunità credente, per comprendere su quali vie la chiami il suo Signore. In tale prospettiva si è posta anche la Conferenza episcopale italiana, convocando il Convegno ecclesiale di Firenze 2015: fin dal titolo è Gesù Cristo a essere indicato come il punto prospettico per cogliere la complessa real­tà dell’umano, in questo nostro tempo e in questo Paese.

Il testo preparatorio degli scorsi mesi si presenta così come invito a gustare insieme la forma di umanità donataci in Gesù di Nazaret – la sua persona, la sua vicenda, il suo stile singolare –. È invito a un ascolto rinnovato dell’Evangelo, per radicarvi percorsi di crescita personali e comunitari. È invito a «intraprendere insieme un cammino», in cui ciascuno «ha un patrimonio da condividere, fatto di esperienze, intuizioni, storie» (dall’introduzione di monsignor Cesare Nosiglia). È invito a convenire – nota efficacemente l’invito al Convegno – per «esprimere sinfonicamente la comune e, insieme, sempre peculiare esperienza credente», nella sua capacità di comprendere e rinnovare l’umano.

Ben pochi i testi della Scrittura in cui tale forma di umanità splenda più nitida che nelle Beatitudini: un testo luminoso, di annuncio del Regno di Dio che viene per rinnovare la creazione e la storia. Un testo in cui, d’altra parte, sembra specchiarsi la stessa persona di Gesù, quasi icona di una umanità concreta vissuta in pienezza. Non stupisce, dunque, che la tradizione cristiana lo abbia meditato con amore particolare, ben sapendo di incontrarvi parole potenti, che interpellano e vivificano ogni generazione credente. Sarà quindi scandito proprio dai versetti di tale testo – nella versione del Vangelo di Matteo – anche il percorso che seguiremo nei prossimi nove mesi (quasi il tempo di una nascita…), in questi interventi sul «Messaggero di sant’Antonio».

La prima parola da ascoltare è proprio «beati»: così l’evangelista qualifica alcune figure di umanità, che uno sguardo superficiale potrebbe ritenere poco attraenti, ma che nella luce del Regno veniente si rivelano benedette.

«Beati i poveri» è, dunque, la prima indicazione rivolta dal maestro Gesù – nel grande Discorso della Montagna – alle folle in attesa di saggezza per orientare la vita. Ciò che egli annuncia è in primo luogo la predilezione affettuosa di Dio per coloro che vivono una condizione di scarsità e di marginalità: là dove Egli regna, gli affamati sono ricolmati di beni, mentre i ricchi sono rimandati a mani vuote (cf. Lc 1,53). È solo uno tra i tanti testi della Scrittura che testimoniano di tale realtà, così centrale nelle parole e nell’agire di Gesù. Non a caso, essa è cara anche a papa Francesco, che fin dai primi momenti del suo ministero ha auspicato una Chiesa povera, una Chiesa di poveri, e che a tale prospettiva ha dedicato una parte importante della Evangelii Gaudium.

La beatitudine si declina come invito alla condivisione delle gioie e delle speranze, delle tristezze e delle angosce di un’umanità turbata, all’accompagnamento solidale della fatica di vivere, al contrasto nei confronti della disuguaglianza.

Nel Vangelo di Matteo, però, – a differenza che in quello di Luca – l’aggettivo «povero» è pure accompagnato dall’espressione «in spirito», a sottolineare la qualità dell’esperienza spirituale associata alla povertà. Il povero è anche colui che sa di essere carente, di non bastare a se stesso per la propria esistenza. La beatitudine della povertà è allora il contrario dell’arroganza autosufficiente, che ritiene di possedere ogni bene e ogni sapere necessari; è il comprendere che tutto è grazia, che la vita stessa è dono, offertoci sempre e di nuovo nella relazione con l’altro.

Beato è chi sa accogliere il dono di chi gli sta dinanzi, aprendo la propria esistenza al nuovo che si fa incontro. È questa la figura di umanità che splende nello stesso Gesù di Nazaret: estroversa, capace di un’ospitalità che fa spazio all’altro – nell’accoglienza, nell’ascolto, nel dialogo – per rendere possibili cammini di crescita condivisa. È così che a donne e uomini, in ogni tempo, si rivela il Regno fattosi vicino: dono inaspettato, che colma, però, la domanda radicale che è in noi.
Simone Morandini
 

Mi fido di te
 
Povero in spirito è chi non mette il proprio io al centro del mondo. La sua è una povertà sana: è lo sfondo entro cui ogni ricchezza spirituale va compresa e pensata nel giusto limite.
 
Oggi stiamo vivendo un momento di grande difficoltà. Si parla di crisi. Ma non si tratta solo di una crisi economica. È ancora peggio: non sappiamo più chi siamo. E, dunque, è anche un problema sapere cosa vogliamo e cosa possiamo essere. La via d’uscita dalla crisi è sempre più lontana.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di indicazioni riguardo a noi stessi. Dobbiamo capire come realizzarci in maniera giusta. L’esperienza cristiana ci ha dato esempi importanti. San Francesco e sant’Antonio sono modelli che continuano a parlarci con la forza che viene da come essi hanno vissuto. Ma è anzitutto in Gesù e nelle sue parole che possiamo trovare, più che una teoria, la strada che consente all’essere umano di capire chi è, e come dev’essere.

Il Discorso della Montagna è uno dei luoghi del Vangelo in cui tutto ciò viene detto. Si parla di chi è beato. Beato è chi si realizza pienamente come essere umano. E Gesù proclama appunto questo. Lo annuncia in forma paradossale. Perché la mentalità comune considera beato proprio chi fa il contrario di ciò che lui dice. A cominciare dal suo primo insegnamento: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli».

Che cosa vuol dire? Gli esegeti spiegano che nell’Antico Testamento l’espressione «poveri in spirito» indica i veri umili, quelli che confidano in Dio. Pensiamo a coloro che, combattendo le difficoltà di tutti i giorni, hanno preso coscienza dei propri limiti. Questi hanno scoperto la loro povertà di esseri umani. Sanno che le cose sono legate solo in parte alla propria volontà. Sono i genitori al capezzale del figlio malato, il ragazzo che affronta un esame difficile, le persone che vedono scivolar via la propria vita e iniziano a domandarsi che cosa ne hanno fatto.

I poveri in spirito sono quelli che capiscono che il loro io non è il centro del mondo, e che il mondo non dipende da loro. È una povertà sana quella di cui fanno esperienza. È lo sfondo all’interno del quale ogni ricchezza spirituale va ricondotta, compresa e pensata nel giusto limite. Perché solo così l’umanità di ciascuno può svilupparsi e fiorire. Lo può fare aprendosi agli altri. Lo può fare aprendosi a Dio. E trovando in questa rela­zione la prospettiva, la forza, per vivere nel modo giusto quanto le può capitare. Così, coloro che fanno quest’esperienza di povertà – i genitori, i ragazzi, le persone di cui parlavo – conoscono già, un poco, il regno dei cieli. Viene loro promesso, certo. Ma ne fanno anche una qualche esperienza. Proprio nel modo giusto in cui affrontano i problemi. E dunque il regno dei cieli è anticipato, almeno in parte, sulla terra. Grazie a loro.
Adriano Fabris


Fammi felice
 
L’uomo può solo riempire la sua vita (la tela) di cose che in fondo hanno lo stesso colore e sapore. Ma ha anche una straordinaria libertà: squarciare il velo di questa equivalenza, per lasciar entrare ciò che può solo ricevere in dono.
 
Le beatitudini rappresentano uno straordinario percorso verso la pienezza, che parte da una verità paradossale (ovvero contraria al senso comune, alla doxa): per lasciarsi riem­pire occorre fare spazio, svuotare. Un «io» ingombro non lascia spazio ad altro. Se è pieno di sé, non può lasciarsi riempire da ciò che può farlo veramente felice. «Beato» viene appunto da «beare», che significa «far felice». È un verbo transitivo, che ha fuori di sé il suo oggetto. Beato è chi viene reso felice, non chi si bea da solo. Per questo il movimento della felicità è il lasciare spazio, l’accogliere, per essere riempiti da ciò che può renderci beati. Quanto al termine «povero», è una parola che dice di una «piccolezza al quadrato»: pau-per infatti unisce paucus (poco) e parvus (piccolo). Il termine ribadisce che, solo accettando il nostro limite, potremo essere davvero beati. Nella logica evangelica del chiasmo e del paradosso, chi si fissa su qualcosa non la raggiunge mai; chi invece riesce a dimenticarsi di sé per aprirsi ad altro, trova più di quanto pensava di desiderare.

La potenza espressa da un io grande e grosso, che si espande senza tener conto di nulla, non ci rende beati, è evidente. Solo in quanto consapevole di essere «poco» e «piccolo», e dunque di avere bisogno di altri e altro, l’essere umano può iniziare il cammino verso la piena realizzazione della sua umanità. Che lo renderà anche felice.

Ci sono due immagini, una poetica e una pittorica, che aiutano a capire la verità di questo movimento contro-intuitivo: la felicità si ottiene quasi come «effetto collaterale» di un desiderio di pienezza e della disponibilità a lasciarsi riempire.

L’immagine poetica è quella che Emily Dickinson ci offre in molti suoi versi. Il n. 985 per esempio recita «Mancare di tutto mi impedì di mancare di cose minori». Mentre la poesia numero 968: «Com’è dolce che la mia privazione non sarà inutile/ ma guadagnerò/ perdendo/ soffrendo/ otterrò/ la bellezza che meglio lo compensi/ la bellezza del desiderio/ appagato».
È il vuoto che ci fa desiderare un pieno appagante; è col digiuno che possiamo veramente gustare il cibo della festa; sono l’attesa e il silenzio che ci preparano all’evento. Cercare di riempirsi per non sentire il richiamo di una pienezza diversa ci rende ciechi, sordi, tristi. È rinunciando alle cose minori che sentiremo la sete di quelle grandi.

L’immagine pittorica è quella di Lucio Fontana, l’artista famoso per le sue tele monocrome, squarciate da tagli che lasciano intuire un «aldilà», un «oltre» la tela, che si colloca su una diversa dimensione: di profondità anziché di piattezza monocolore.
L’essere umano, nel suo limite, può in fondo solo riempire la vita (la tela) di cose equivalenti, che hanno lo stesso colore e lo stesso sapore. Ma ha anche una straordinaria libertà: squarciare il velo di questa equivalenza, per lasciar entrare ciò che non può creare da solo, ciò che può unicamente ricevere in dono.

Uno di questi quadri, su uno sfondo uniforme di colore rosa (che evoca la carne) presenta una croce disegnata con tanti buchi, fatti con un punteruolo. Una frase di Georges Bataille sarebbe una didascalia perfetta a quest’opera, e anche una bussola per il primo passo sul cammino della beatitudine: «Sono il non compimento, la ferita, la miseria a essere la condizione della “comunicazione”. La morte di Gesù sulla croce è la ferita per mezzo della quale si rende possibile alla mente umana la comunicazione con Dio» (L’amicizia).
Chiara Giaccardi
 


Tra giochi, bagni e cicogne

Esercizi provvisori di beatitudine

 
Una famiglia come tante, una vita semplice e la consapevolezza che nessuno è così povero da non aver nulla da offrire agli altri. È il miracolo della beatitudine della povertà che prende corpo tra le mura domestiche.
 
È una beatitudine «delicata», questa. Tanto più in tempi di crisi economica come quelli odierni, nei quali molte famiglie hanno difficoltà ad arrivare a fine mese. Va pertanto dosata con parsimonia, e soprattutto evitando di scivolare dal «beati voi poveri» a «beata la povertà» (che di beato, invece, non ha proprio nulla).

La famiglia di Flavio e Anna, pur conducendo una vita semplice e dignitosa, pensava che la beatitudine della povertà fosse per tutti: che potesse essere una promessa divina per chi non ha, ma che interrogasse anche chi ha. La loro intuizione aveva a che fare con un gioco, il bagno di casa e… la cicogna (che per la quarta volta, per intenderci, faceva loro visita).

Cominciamo dal gioco. Durante un’attività parrocchiale con altre famiglie venne il turno di un gioco per i figli, divisi in squadre. Ogni gruppo doveva affrontare un certo numero di difficoltà. Ciascun ragazzo aveva in dotazione una serie di carte, che rappresentavano alcuni beni importanti: il gioco, la tv, il computer, i libri, ma anche i fratelli, gli amici, i genitori. Superata la prova di turno, ognuno doveva rinunciare a una delle carte in possesso per poter procedere con il gioco. Naturalmente le prove erano più delle carte a disposizione. E naturalmente i ragazzi, esaurite le carte che indicavano beni materiali – di cui si erano liberati magari un po’ controvoglia –, ridotti alle carte che significavano beni relazionali, si rifiutarono di proseguire piuttosto che rinunciarvi (questa scelta era in realtà lo scopo dell’attività parrocchiale).

Oltre al gioco, un secondo elemento – nella famiglia di Flavio e Anna – era testimone e veicolo della beatitudine della povertà: il bagno di casa. Per convincersene, ad Anna è bastato uno sprazzo di consapevolezza mentre faceva l’ennesima doccia ai figli, nel gesto di prendersi cura che rasenta pericolosamente l’ordine di Gesù di lavarsi i piedi gli uni gli altri, se si vuole essere come lui. Effettivamente, glielo aveva confermato anche il prete: ha lavato più piedi lei in bagno che non il parroco al Giovedì Santo! Per giunta piedini davvero sporchi, e non imborotalcati per l’occasione. Ma anche Flavio aveva pensato che davvero in bagno uno fa i conti con il proprio lato debole e fragile, per nulla poe­tico. È dove ci si riconosce quotidianamente nudi, bisognosi di tutto.

Con queste due premesse, quando ha bussato alla porta di casa il quarto figlio, arrivato un po’ inaspettatamente, in un momento di difficoltà economica e di forze non più così giovani, papà, mamma e i tre bimbi hanno potuto giocarsi fino in fondo la scommessa della beatitudine della povertà. Che è sì mettere al centro la bellezza delle persone e delle relazioni, relativizzando tutto il resto, vivendo una vita sobria e solidale con chi ha meno, ma è anche consapevolezza che nessuno è così ricco da non avere bisogno degli altri, né così povero da non avere qualcosa da dare loro. Ma è soprattutto fidarsi di Dio e della sua provvidenza, accettando con gioia e speranza il dono di una nuova vita! Sapere di essere nelle sue mani, che è il posto più sicuro dove andare a rifugiarsi nella nostra… povertà.
fra Fabio Scarsato 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017