Precari: un futuro senza certezze
Stiamo vivendo una rivoluzione economica, epocale da molti punti di vista. Giustamente si è detto che la caduta delle barriere doganali e la globalizzazione «sono sconvolgimenti paragonabili alla rivoluzione industriale». Il mutamento porta, però, al consolidamento della precarietà. La vita è precaria nel matrimonio, nei rapporti sociali, nel lavoro. Per cui, ecco il paradosso: migliore è, tecnicamente ed economicamente, la vita sociale, più numerose sono le fonti di disagio. I precari sono quasi il 6 per cento della forza lavoro in Gran Bretagna, il 12,2 per cento in Germania, il 12,3 per cento in Francia, l’11,9 per cento in Italia, il 30,4 per cento in Spagna.
In Europa – la notizia viene da Bruxelles – dopo sei anni solo il 55 per cento dei lavoratori precari ottiene il posto fisso. In Italia un gran numero di persone lavora nel sommerso, in nero.
Si tratta, ma è soltanto una stima, di sei milioni di lavoratori: alla fine del 2005 in Italia le posizioni lavorative irregolari erano quasi sei milioni, con un aumento di 286 mila rispetto al 2004. Qualcuno sostiene che sono due su dieci i lavoratori pagati meno del dovuto, che non maturano diritti alla pensione, non godono delle minime condizioni di sicurezza, non possono fare riferimento a nessun contratto o orario. Sono una specie di popolo invisibile, che continua ad aumentare.
Gli irregolari variano dal 19 per cento circa del Nordest a circa il 37 per cento del Mezzogiorno. Non concorda con queste cifre l’Ires (Istituto delle ricerche economiche e sociali), per il quale il 42 per cento delle posizioni irregolari si trova nel Mezzogiorno e il 17 per cento nel Nordest. Inoltre, ci vogliono diciannove mesi perché una persona riesca a trovare un lavoro. Ma anche qui le cose vanno meglio nel Nordest rispetto al Mezzogiorno.
Ci sono, poi, i contratti atipici, che sono circa il 25 per cento del totale. Il 60 per cento dei precari resta stabilmente tale e soltanto il 6 per cento di essi si sposa e ha figli. D’altronde, si tratta di un esercito privo di diritti, con buste paga magre e contratti a singhiozzo. Per fare solo un esempio, dirò che a Roma il 20 per cento dei lavoratori è precario: del resto, secondo alcune stime, quasi il 28 per cento del prodotto interno lordo proviene dal «sommerso», prodotto, cioè, da lavoratori in buona parte precari.
Queste, dunque, le cifre che, pur contraddittorie e approssimative, dimostrano una rilevante e drammatica presenza del lavoro precario. Le conseguenze sociali di tale fenomeno? È il più grave elemento di ostacolo alla formazione delle famiglie, alla possibilità di procreare e, insieme, anche un grave elemento che contribuisce alla loro disintegrazione. Quando mi si chiede di segnalare le cause più gravi della crisi della famiglia, insieme ai soliti elementi sociali, economici, morali, eccetera, ricordo anche, e forse come il più importante, il lavoro precario, che mina le strutture familiari alla loro base.
Come rimediare? Certamente dobbiamo far conoscere e valorizzare i 6 mila 761 mestieri e professioni esistenti in Italia. Dobbiamo dare un nuovo significato alle attività socialmente rilevanti, togliendole dal limbo del puro volontariato e trasformandole in lavori organicamente finalizzati a migliorare la qualità della vita.
Tutto questo nel quadro di una nuova e innovativa visione dello sviluppo. Dobbiamo sederci attorno a un tavolo per risolvere un problema che probabilmente è la fonte principale, o una delle fonti principali, della crisi morale della famiglia e, forse, dell’intera società. Occuparsi in modo radicalmente diverso del precariato, significherebbe rinnovare la maniera di affrontare sia i problemi economici, sia quelli che riguardano la cosiddetta morale sociale, condizionata, appunto, da problemi di questo tipo.