Predica: meno parole, più Parola

Dopo la lettura del Vangelo non si volta pagina, ma si entra nella pagina per andare, con Gesù, incontro alla vita.
29 Giugno 2011 | di

L’estate è tempo di viaggi, spostamenti, anche solo nel fine settimana, e questo dà occasione di partecipare alla santa Messa lontano dalla parrocchia d’origine, ascoltando una voce diversa da quella del proprio parroco. Incontrando, alcune volte, preti capaci di affascinare, e altre, invece, preti che fanno rimpiangere la chiesa sotto casa. D’altra parte la predica, l’omelia come si dice con linguaggio sostenuto, è un genere che non gode di buona reputazione e non raramente mentre il celebrante – dopo il Vangelo – svolge la sua riflessione, la mente dei fedeli vaga in tutt’altri territori. Stanchezza, distrazione, abitudine, bastano per giustificare il fatto che staccare la spina sia avvertito dai più come un diritto di legittima difesa?

Si può rimediare a una situazione che pare aver preso una brutta piega: insoddisfazione cronica da parte di fedeli giustamente convinti che i preti potrebbero e dovrebbero dare di più, rassegnazione accentuata da parte di un clero oberato di burocrazia durante la settimana e costretto la domenica a celebrare messe a ripetizione, anche tre o quattro a testa in alcuni casi. In una sua riflessione sulla predicazione, il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer sostiene che per approntare il «sermone» domenicale (altra cosa, perché più consistente, rispetto alla «predica») un buon ministro dovrebbe impegnarsi per almeno dodici ore tra lettura, meditazione, studio e scrittura. Forse anche troppo, ma quando all’opposto c’è chi si vanta di preparare l’omelia dalla sacrestia all’altare, quindi in una manciata di secondi, l’impressione di superficialità sale alle stelle.
 
Ma vediamo, da vicino – e lo faremo in modo caricaturale anche per sorriderci su – alcune tipologie di predicazione. Al primo posto metto il predicatore cantilena che, qualsiasi cosa dica, lo fa con un ritmo di voce cadenzato e petulante: nessuno gli ha detto che lo stile è il primo messaggio. C’è poi il predicatore professorino, che spacca il capello in quattro e in un quarto d’ora commenta un versetto di Vangelo: chi gli sta dietro è bravo. Il predicatore zigzag, invece, salta di palo in frasca, e volendo dire tutto pronuncia parole a raffica che non lasciano traccia. Il predicatore moralista, da parte sua, «pesta duro», convinto che fare la voce grossa e puntare il dito sia servizio dovuto al Vangelo: che però, per fortuna, è tutt’altra cosa. E che dire del predicatore giovanilista, che regredisce e ostenta il linguaggio gergale delle tribù tardoadolescenziali? I giovani, però, lo guardano strano e gli adulti reagiscono con freddo imbarazzo. C’è poi il predicatore sociale, che parla sempre dei poveri, di carità e servizio. Ma anche quello spiritualista, tutto interiorità e languidi slanci dell’anima.
 
Naturalmente l’oceano di bene che le prediche svolte ogni domenica nelle 25 mila parrocchie italiane mettono in circolazione, è incalcolabile. Se molte cose potrebbero essere migliorate, ci sono, e rappresentano la maggioranza, preti in gamba innamorati del Vangelo e con la passione di comunicarlo. Sacerdoti che hanno capito come non paghino né la sola erudizione, né il gretto moralismo, né il giovanilismo balzano, ma neppure terzomondismo duro, solo impegno sociale o fumoso spiritualismo. Certo, un po’ di questo e di quello, a seconda dei casi, può venire utile, ma unicamente se al centro viene posta la Parola di Dio. Dopo la lettura del Vangelo non si volta pagina, ma si entra nella pagina per andare, con Gesù, incontro alla vita. L’immagine della Bibbia in una mano e del giornale nell’altra, che Karl Barth utilizza per indicare il compito del teologo, è applicabile al buon predicatore. Verso il mondo non senza la Parola, con semplicità e coraggio, questo è il suo compito. Perché anche quando trova terreni sfavorevoli, il seme che cade li rende fecondi.
 
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017