Professione reporter, col vizio del canto
Vicenza
«E “mo” da dove cominciamo?». Da una cena in compagnia di quel Mo storico giornalista e inviato speciale del «Corriere della Sera». L’appuntamento è in una trattoria vicentina dove ci aspetta il piatto principe di questa terra: il baccalà alla vicentina. Ettore Mo è uno schivo alle celebrazioni o cene ufficiali, ma l’ambiente da osteria gli dà subito il buon umore. E dire che la sua firma è da maestro del giornalismo, tradito però dalla figura minuta di settantasettenne piemontese, con il volto scavato dalle rughe e i capelli bianchi, che lo mimetizza tra la gente comune. Niente di più congeniale, forse, per uno che ha scelto la strada per fare del vero giornalismo. «Esserci, senza però farsi troppo notare – dice lui – ti dà sicurezza, ti dà la possibilità di vedere per poi raccontare». Se poi queste sue parole le si confronta coi luoghi da lui frequentati normalmente – Afganistan, Nicaragua, Cuba, Iran –, si intuisce che il suo mestiere sia un’ autentica vocazione. Di fatto, inviati «vecchio stampo» come Mo sono ormai rari come il Panda. Di questo lui non se ne fa vanto. Semmai lo traduce in un ragionamento sui giornalisti di oggi. Una semplice cena che, senza volerlo, diventa la lectio magistralis di un giornalista, che dopo aver visto la Storia e intervistato i grandi del mondo, continua a proclamarsi solo un artigiano della parola.
Gregolin. Maestro Mo…
Mo. «Cominciamo bene! Io sono Ettore, e basta. Quando mi definiscono così, prosaicamente penso: “Ma va a quel paese…”».
Cosa significa essere un buon giornalista?
Significa raccontare quello che si vede e non, come oggi spesso accade, raccogliere notizie da chi dice di aver visto.
Intende dire che i giornali riprendono le notizie da Internet?
«Appunto. Il reportage deve essere vissuto in prima persona. Ricordo una delle mie prime esperienze da giornalista esordiente. Ero a Londra come corrispondente, dal ’62 al ’67, incalzato dal grande Egisto Corradi del «Corriere». Dividevamo la stanza con Ennio Caretto, allora inviato per La «Gazzetta del Popolo». Arrivò la notizia di una tragedia ad Aberfan, in Galles: una frana aveva investito una scuola elementare, uccidendo 40 bambini. Chiesi l’autorizzazione di recarmi sul luogo per scrivere un pezzo. Mi risposero che dovevo riprendere la notizia dagli altri giornali. Ennio Caretto invece, partì subito. Lì trovò una scena drammatica. Una bambina semisepolta dal fango lo implorava: “My name is Margareth. Please help me!”. L’indomani aprì quella sua straordinaria corrispondenza con quelle strazianti parole».
La sua è stata una carriera fulminante…
«Volevo essere un giramondo fin da ragazzino, ma non ero sprovveduto. Leggevo molti autori di libri, e mi dicevo: voglio diventare come loro. A diciotto anni scelsi d’imbarcarmi su una nave mercantile inglese, per lavorare. Compìi tre viaggi, di cinque mesi l’uno, intorno al mondo. Prima d’imbarcami per quello che sarebbe stato il mio ultimo viaggio marittimo, nel 1957, consegnai una mia corrispondenza a Piero Ottone, caporedattore del «Corriere della Sera» a Londra. Mi disse, poi, che avevo la stoffa per fare il giornalista. Al mio ritorno a Londra nel 1962, trovai una lettera con la quale mi offriva la possibilità di lavorare per il “Corriere”, dove seguito a esercitare quella che è una passione prima ancora che un mestiere».
Da mozzo di mare a giornalista?
«Sì, ma inizialmente come vice del vice del vice. Scrissi per dieci anni le mie corrispondenze da “guardiano del bidone” senza che mai mettessero la mia firma sugli articoli: “Come facciamo a firmare un articolo con il cognome Mo”, mi dicevano da Milano. Mio padre, operaio piemontese che aveva la terza elementare, ma mi ha reso sempre felice, per vantarsi del mestiere di suo figlio era così costretto a mostrare i necrologi che la redazione riservava sul giornale alle personalità scomparse. Su questi, compariva il mio nome seguito da quello di Indro Montanelli o Eugenio Montale. Figuratevi la gioia di mio padre.
La svolta professionale arrivò nel febbraio del ’79. L’allora direttore Franco Di Bella mi disse: “Khomeyni è tornato a Teheran! Vai in Iran”. “Sei matto!” gli risposi. “Butto nell’acqua solo chi sa nuotare” rispose lui. Al mio ritorno partii per l’Afghanistan, dove arrivai la notte di Natale del 1980, quando i russi entravano a Kabul. Furono questi i miei primi passi da inviato speciale, anche se fin da allora aspiravo a ben altro…».
A cosa?
«Diventare cantante lirico come Enrico Caruso. Io ho studiato canto a Padova e Vicenza. Se non avessi fatto il giornalista sarei diventato, forse, un cantante».
Cos’è indispensabile per essere un bravo inviato?
«La salute».
Che valore dà alle scuole di giornalismo di oggi?
«Oggi fare il giornalista è facilitato dalla tecnologia, ma guai se il giornalista perde la volontà di essere testimone diretto dei fatti. Le scuole di giornalismo ti danno degli strumenti, ai miei tempi queste non c’erano e credo che servano a poco se non frequenti la “scuola della strada”. I maestri, nel nostro campo, sono fondamentali: diciamo che ogni giornalista sa scegliersi il suo maestro. I mie furono Vittorio Girossi ed Egisto Corradi, pietre miliari del “Corriere”».
Cosa teme di più un inviato speciale?
«Fare migliaia di chilometri, arrivare sul posto e non trovare la notizia. Se questo accade, ogni volta pensi di aver sbagliato mestiere. Poi, invece, trovi il contatto giusto e, magari, arriva la soddisfazione di raccontare una bella storia, che ti ripaga di ogni sforzo».
Ha intervistato i grandi della storia, mi faccia qualche nome?
«Del mondo della lirica, tutti! Della politica, quello con cui ho stretto un autentico legame d’amicizia è stato il comandante Massud dell’alleanza del Nord del Afghanistan. Ho poi avvicinato, ma non intervistato, Khomeyni. Solo Oriana lo poteva fare…».
La Fallaci?
«Sì, proprio lei, con cui avevo un legame particolarmente stretto. Lei che era burbera, scontrosa e non si faceva amare per il carattere, con me era disponibile e stranamente dolce. Diciamo che, umanamente, ci’ntendevamo».
Cosa serve per fare una buon servizio?
«Serve far capire all’intervistato che di te si può fidare. Bisogna instaurare un rapporto di fiducia, psicologico e, dunque, umano, che va al di là della professionalità. Per cui quello che sei, sei».
Da dove inizia un reportage?
«Sempre da un fatto. Un episodio che ti porta a raccontare una storia».
Quanto può durare?
«Alle volte più mesi. Altre uno solo. Nell’ultimo periodo i miei reportage non superano le due settimane».
Viaggia da solo?
«No, giro con Balzelli, il mio fotografo, che mi fa anche da scrivano, correttore e tecnico del computer».
Significa che non sa usare il computer?
«Sì! I miei pezzi li scrivo ancora a penna, o con la mia vecchia macchina da scrivere “Olivetti 32”. Sono vecchio, non lo si è capito?».
Ho capito bene: correttore?
Dico spesso a Baldelli di dare un’occhiata anche agli errori… sbaglio spesso anch’io!».
Mai pensato di cambiare testata?
«Sono rimasto sempre fedele, nonostante le proposte siano da considerarsi come tentazioni».
Cosa fa nel suo tempo libero?
«Mi godo la mia bella famiglia, diviso tra l’Italia (una villetta sul lago Maggiore) e Londra. Ho sposato una inglese, da cui ho avuto tre figli. Una ragazza fa la scultrice. Una, il medico a Londra. Il figlio è direttore in uno scalo aeroportuale. Ma è mia moglie che ogni tanto mi dice: “Vai, vai a scrivere qualche storia…”».
Nessuno in famiglia, però, fa il giornalista?
«Detesto il nepotismo».
La cosa che ancora non le è riuscita nella vita?
«Ripeto: essere come Enrico Caruso!».
E professionalmente?
«Quella storia che non ho ancora scritto».
Dunque Mo è felice?
«Assolutamente sì! Nonostante ormai nella mia Italia non mi senta più a mio agio. Per questo mi divido tra l’Italia e Londra. Ma la felicità professionale e personale sta nel conservare una salute che mi permetta di fare qualsiasi cosa».