Quando finirà la crisi?
Il 2011 sarà sicuramente ricordato come «l’anno delle rivoluzioni arabe» che hanno segnato il definitivo tramonto dei raìs (l’appellativo arabo dei «capi carismatici», che noi chiameremmo dittatori), e l’avvento della democrazia in tre Paesi: Tunisia, Egitto, Libia mentre in altri, come Siria e Yemen, la lotta popolare continua. Ancora una volta, la Tunisia è stata la prima, con le elezioni per la Costituente del 23 ottobre scorso, vinte dal partito islamista Ennhanda (Rinascita) di Ghannouchi che, però, non avendo la maggioranza assoluta, dovrà governare in coalizione. Quasi tutti i partiti islamisti del Maghreb – i Paesi arabi mediterranei – vengono dal Movimento dei fratelli musulmani, fondato in Egitto nel 1928, con caratteristiche musulmano-totalitarie. Ma, da allora, il movimento si è molto evoluto, avvicinandosi a una concezione di «democrazia islamica», facendo anche espliciti riferimenti all’esperienza politica delle democrazie cristiane europee.
L’annunciata buona volontà va messa alla prova, ma dobbiamo far presente che in Turchia la mutazione è riuscita, con il Partito della giustizia e dello sviluppo di Erdogan, che governa il Paese ormai da quasi dieci anni senza derive confessionali. Al momento in cui scrivo, non si conoscono ancora i risultati delle elezioni parlamentari in Egitto del 29 novembre, ma i Fratelli musulmani hanno creato un partito politico con un nome simile a quello turco e, forse volutamente, non si sono presentati in tutte le circoscrizioni per non raggiungere la maggioranza assoluta e partecipare a un governo di coalizione.
In Libia, ha fatto scalpore la dichiarazione del leader del Consiglio nazionale di transizione, Abdel Jalil, che il 23 ottobre, celebrando a Bengasi la liberazione della Libia, in televisione ha proclamato, tra un turbinio di bandiere, che «la fonte primaria del nuovo Stato sarà la sharia (ovvero la legge islamica), e che tutte le leggi ad essa contraria sono abrogate».
Da qui il timore, nelle minoranze religiose – ad esempio dei cristiani/copti egiziani – di un trattamento discriminatorio nei loro confronti. Si sa che, da un decennio ormai, è in atto l’emigrazione cristiana dai Paesi arabi musulmani, per un malessere diffuso, e anche per gli attentati subiti. Ma si deve avere fiducia nella democrazia e ricordare che, in Egitto, nelle dimostrazioni contro Mubarak, musulmani e cristiani erano fianco a fianco. Esistono gruppi musulmani fondamentalisti, ma stanno ai margini degli islamisti moderati; molto spesso sono stati espulsi dall’organizzazione dei Fratelli musulmani. Il successo degli islamisti nelle prime elezioni libere è d’altronde comprensibile, in quanto sono stati i più decisi oppositori dei regimi dei raìs e, in Paesi come la Tunisia, ma soprattutto in Egitto, hanno creato una rete di servizi e di assistenza sociale molto diffusa tra i ceti popolari più poveri. Vedremo come se la caveranno al momento di dover governare in coalizione con altri partiti.
Crisi, speculazioni
e indignados
Dal maggio di quest’anno, le Borse hanno cominciato a scendere, segno della ripresa della crisi globale iniziata nel settembre del 2008 con il fallimento della Lehman Brothers. Allora era partita dagli Stati Uniti, quest’anno invece ha coinvolto soprattutto l’Europa. Per salvare il sistema bancario mondiale sono stati usati sinora 1.500 miliardi di dollari: una «bella» sommetta se si considera che, a favore degli stati più colpiti, come ad esempio la Grecia, si è attinto a cifre molto inferiori. Il salvataggio delle banche – e degli Stati insolventi – è una necessità, un dovere di solidarietà europeo, ma bisogna distinguere tra economia reale e speculazione. I cosiddetti «derivati» (dei prodotti finanziari fortemente speculativi) scambiano ogni giorno sui mercati di tutto il mondo la cifra quasi inverosimile di 600 mila miliardi di dollari – anche se si tratta di «scambi figurativi sulla carta», con molto meno denaro sottostante. Da tempo si dice che, per risanare, è necessario «mettere almeno un granello di sabbia» dentro ingranaggi così vorticosi, che ormai poco hanno a che fare con la finanza e l’economia sana. La soluzione esiste: è la Tobin Tax, dal nome del Premio Nobel americano dell’economia che la propose sin dal lontano 1978. Anche con un’imposta minima – oggi si parla dello 0,1 per cento sulle transazioni finanziarie – si otterrebbe un rallentamento di questi scambi dove la speculazione trionfa, ricavandone un gettito, ogni anno, di ben 1.200 miliardi di dollari, assai utile in questi momenti di crisi. Approvata dalla Commissione Europea, la «tassa sui movimenti finanziari», non può essere applicata per l’opposizione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Per uscire veramente dalla crisi e per non passare da cadute in ricadute, occorre una scelta politica: che le autorità pubbliche riformino sostanzialmente i mercati, anche creando nuovi strumenti, in ambito europeo e, poi, in ambito internazionale. Il 24 ottobre, il Pontificio consiglio Giustizia e pace ha ripreso, e fatte sue, le proposte più sagge emerse in questi anni: dalla creazione di una Banca mondiale veramente capace di regolare i flussi monetari all’istituzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (la Tobin Tax, appunto) per sostenere le economie dei Paesi colpiti dall’attuale congiuntura. Altrimenti si continuerà a riproporre il dilemma di questi anni di crisi: noi tutti siamo in balia di un capitalismo finanziario privo di controlli effettivi, che sembra voler distruggere se stesso nell’insana ricerca di lucro. Poco male, se nella sua caduta non travolgesse anche tutti noi.
Intanto il 15 maggio scorso, una folla di giovani si è accampata nella centrale piazza di Puerta del Sol a Madrid, presto imitati da altri giovani in varie parti del mondo. Ecco perché hanno assunto un nome in spagnolo (mentre, a loro volta, si ispirano al libro di un intellettuale francese di 93 anni, Stephan Hessel, che chiamava alla protesta col titolo «Indignez-vous»). Questi giovani sono stati paragonati ai loro coetanei dei Paesi arabi, che hanno dato vita alla «Primavera araba». Il paragone mi sembra non tenga: mentre la rivolta dei giovani arabi appare di natura soprattutto politica, contro i raìs dittatori, ed è sfociata in vera rivoluzione, i «nostri giovani» protestano soprattutto contro questo tipo di capitalismo che nega loro le speranze di un lavoro stabile e di una maggiore uguaglianza sociale. Il loro movimento è molto importante perché scuote le coscienze e organizza la protesta, anche se poi non sanno indicare originali alternative, oltre a slogan già vecchi. Tocca a una nuova classe politica dare sbocco positivo a questa protesta.
Tra luci
e ombre
L’11 marzo, in Giappone, uno tsunami (ovvero il maremoto prodotto dal terremoto) di proporzioni gigantesche, ha colpito anche la centrale nucleare di Fukushima, pur progettata per resistere a eventi tellurici, come tutti gli edifici di quel Paese. Le perdite radioattive prolungate hanno suonato la campana a morto per la costruzione di nuovi impianti nucleari. Almeno sino a quando non si arriverà – in tempi piuttosto lontani – a utilizzare l’idrogeno, che non produce scorie. Si va quindi, in tutto il mondo, a una riconversione gigantesca e allo sviluppo delle fonti alternative, possibilmente «pulite», che cioè non producono (o producono poco) inquinamento: dall’eolico al solare. È una nuova via di sviluppo che può servire da stimolo alla ripresa economica. Non dobbiamo, però, dimenticare che le due superpotenze posseggono ancora 500 bombe atomiche ciascuna, e che la tentazione «dell’atomo a fini bellici» continua a serpeggiare nel mondo, come attestano i casi della Corea del Nord e dell’Iran.
Ma il 2011 si è aperto anche con l’accesso alla carica di «presidenta» del Brasile, per la prima volta, di una donna, Dilma Roussef, erede di Lula. Il 23 ottobre un’altra donna, Cristina Kirchner, è stata rieletta «presidenta» di un altro colosso latino americano: l’Argentina. Il 7 ottobre, il Nobel per la Pace è andato a tre donne: due liberiane, la presidentessa Ellen Joahnson Sirleaf e Leymah Gbowee, per la loro lotta a sostegno della democrazia; e Tawakkul Karman, dello Yemen, Paese che attende ancora la sua «primavera»,
Il 9 luglio è nato un nuovo Stato, il Sud-Sudan: il 193° dell’ONU. C’è solo da chiedersi perché ci sono voluti cinquant’anni di guerra e un milione di morti, per raggiungere, finalmente, questo risultato. La domanda va girata a uno dei raìs ancora in sella, quello del Sudan, Ahmed al-Bashir, al potere da ventidue anni. Ha chiesto l’ammissione all’ONU anche la Palestina araba, di fronte allo stallo delle trattative per un accordo tra arabi e israeliani.
Il 2 maggio un commando di militari statunitensi ha ucciso in Pakistan il «re del terrore», Osama bin Laden. Anche se sarebbe stato meglio tradurlo davanti al Tribunale per i crimini contro l’umanità, l’episodio conferma che la lotta ai terroristi si combatte più efficacemente con mezzi di intelligence e di polizia internazionale piuttosto che invadendo altri Paesi. Il presidente degli Stati Uniti, Obama, ha confermato il ritiro completo dei militari americani dall’Iraq entro quest’anno, e l’inizio del ritiro dall’Afghanistan, entro il 2014. Questi ritiri di truppe straniere toglieranno altro terreno sotto ai piedi del fondamentalismo islamico di matrice terrorista.
Aspettando
l’anno che verrà
Ad Assisi, il 27 ottobre, Papa Benedetto XVI, ha ribadito che la volontà di dialogo e di riconciliazione è il più forte cemento spirituale per un Paese che si costruisce nelle coscienze, prima di farsi azione politica. Nel 2012 possiamo facilmente prevedere una continuazione delle rivoluzioni arabe alle quali non dobbiamo restare indifferenti, soprattutto nel caso di gravi violazioni dei diritti umani e civili da parte dei governanti-dittatori, come sta avvenendo, mentre scriviamo, in Siria e Yemen. Si voterà, invece, di nuovo, nei Paesi liberati, come Tunisia ed Egitto mentre la Libia avrà le prime elezioni libere della sua storia.
In Europa, si voterà in Francia e in Russia, dove Putin vuole ritornare alla presidenza, sembra senza rivali. Le elezioni parlamentari in Iran ravviveranno il dissenso popolare e dei giovani o saranno «regolate» dal regime? In Cina cambieranno i vertici secondo il metodo di cooptazione dall’alto che i «nuovi mandarini» del partito comunista cinese hanno mutuato dalle tradizioni millenarie del «celeste impero». Ma le elezioni più importanti appaiono quelle che si terranno a novembre negli Stati Uniti, dove Obama si gioca la rielezione e la sua politica, invero sempre più edulcorata, di cambiamento.