Quanto è scomodo il disabile

La disabilità comporta oggettivi «inconvenienti»: per gestirli è necessario che la società rifletta sui meccanismi del proprio funzionamento e, prima ancora, sui principi che regolano il proprio operato.
27 Dicembre 2011 | di

Il 5 ottobre scorso la Provincia di Bologna mi ha assegnato il «Premio Provincia 2011», per ragioni legate in parte all’attribuzione della laurea honoris causa che ho ricevuto all’università di Bologna, in parte all’attività che con i miei colleghi porto avanti da oltre trent’anni.
Il premio viene conferito a chi «si è distinto più di ogni altro nel proprio settore di attività, contribuendo in modo significativo alla valorizzazione della realtà provinciale e della sua immagine».
A noi risulta automatico associare premio e positività (espressa, prodotta o incarnata da chi lo riceve), anzi, ci suonerebbe paradossale un’associazione di segno opposto: il negativo non solo non va premiato, ma va piuttosto evitato, superato, soppresso.
 
E se non fosse proprio sempre così? Una persona disabile cosa rappresenta a un’analisi non meditata, immediata? Pensiamo a un modello generico: la mancanza di mobilità, l’incapacità di realizzare in autonomia anche le più semplici funzioni quotidiane, la lentezza nello svolgimento di operazioni materiali e mentali. Con tutto ciò che ne consegue: la disponibilità di mezzi e persone di trasporto, una presenza che possa assistere in tanti momenti della giornata, la «pazienza» di chi affianca nei vari ambiti la persona con deficit e così via.
Se dovessi riassumere con una sola parola tutto questo, sceglierei «scomodità». La persona disabile, anche a un livello non strettamente materiale, porta in sé ed esprime in modo tangibile la scomodità. È un «personaggio scomodo», infatti, che spezza certezze, ribalta giudizi, propone, magari senza volerlo, assetti di pensiero diversi. La disabilità comporta oggettivi «inconvenienti», ma per gestirli è necessario che la società subisca un riassestamento, che si adatti a dare una risposta adeguata, che rifletta sui meccanismi del suo funzionamento e, prima ancora, sui principi che la regolano; quindi, sui valori di base di quella stessa società. Ecco allora che la disabilità (e la scomodità) esprimono di conseguenza una funzione positiva, perché fungono da pungolo, da stimolo, da spinta riformatrice, educando al pensiero critico. Con ironia, si potrebbe dire che è come se la Provincia avesse deciso di assegnare un premio alla scomodità, un’assegnazione senz’altro pionieristica, in controtendenza.
 
Due caratteristiche che richiamano subito alla memoria un’altra figura che con la disabilità condivide molti degli elementi che elencavo poco sopra: mi riferisco a Gesù. Non credo di sbagliarmi: Gesù è stato uno dei personaggi più scomodi che abbiano percorso la storia dell’umanità. La sua irruzione sulla scena del mondo pone alle persone, alle istituzioni, alla comunità, questioni ineludibili, impone la necessità di (ri)pensare e (ri)pensarsi, spinge alla ricerca non rimandabile di risposte a domande che riguardano non solo l’ambito della fede, ma chiamano in causa, in modo dirompente, ogni aspetto della vita sociale, dei rapporti quotidiani tra gli individui, e tra di essi e il Dio in cui credono.
È scomodo, aggiungo, anche perché la sua figura riguarda, interpella, magari in modo velato e nascosto, anche chi con lui non ha o non ha avuto una relazione stretta o prolungata nel tempo.
La disabilità stessa evade dai suoi confini per certi versi angusti e pone questioni rilevanti anche a chi appena conosce questa condizione, aprendo orizzonti pieni di senso e di prospettive che, come dicevo, interessano e investono una comunità nel suo complesso, non una sua porzione. È, appunto, quella di Gesù e quella incarnata dalla disabilità, una scomodità pienamente politica e culturale.
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Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017