Quasi un testamento
Padre Giacomo Panteghini ci ha lasciati, dopo un'agonia che sembrava non avere mai fine: lo diciamo per lui, perché ogni nuova giornata umanamente gli riservava solo dolori che lui, per la grande fede che ha dimostrato di possedere, tramutava in occasioni di grazia per sé e per tutti noi. Più avanti gli dedichiamo un commosso ricordo.
Padre Giacomo ha diretto questa rivista per vent'anni: con grande intelligenza e discrezione, preoccupato soprattutto dei riflessi che ogni articolo e ogni fotografia pubblicati potevano avere nei lettori: nulla gli interessava di più. Il «Messaggero» doveva essere un servizio reso ad essi, e non la vetrina per la vanità o gli interessi di chicchessia. Doveva rispondere alle esigenze dei lettori, soprattutto dare una guida che, nella confusione che domina regina, aiutasse a capire quel che ci sta succedendo, a discernere negli scarabocchi della storia la scrittura di Dio. Padre Giacomo si serviva proprio di questa pagina (assieme a quella delle lettere) per trasmettere le sue convinzioni, le sue certezze ancorate alla parola di Dio; e le sue critiche, decise anche se mai aspre, perché ha sempre rifiutato un giornalismo urlato, lo scoop ad ogni costo, lo scandalo vero o presunto, giusto per essere ripresi dalla stampa. Curava i contenuti, la sodezza del messaggio, la parola che penetra e scuote alla conversione. Sull'esempio di sant'Antonio. Quando non poteva, suggeriva le idee cui davamo corpo di articolo. Questa è la prima volta che ci tocca scrivere senza le sue illuminazioni: ultimamente le condizioni gravissime non gli hanno consentito di trasmetterci se non la sua testimonianza di cristiano che vive con serenità e coraggio i momenti cruciali dell'esistenza. Se avesse potuto farlo, ci avrebbe suggerito di affrontare il tema della sofferenza, anche perché l'11 di questo mese in tutto il mondo si celebra la giornata del malato, e i devoti del Santo riuniti nell'Unione antoniana mondiale malati (Uamm) si incontrano nella basilica per ritrovare accanto ad Antonio motivi di conforto e di speranza. Dotato di una forte fibra, da montanaro, ha sempre goduto di buona salute. Tolti i fastidi di un'ulcera per la quale s'era imposta una dieta alimentare molto sobria, non ha mai conosciuto, almeno nei suoi aspetti più duri, la sofferenza. Da teologo aveva affrontato il problema più di una volta, inserendolo all'interno del tema più ampio del male e della morte, nella prospettiva della teologia della croce. «Di fatto - scriveva in L'orizzonte speranza - la storia della speranza è anche storia di sofferenza. La croce di Cristo è emblema di speranza anche di fronte alla catastrofe storica e alla morte. Non si tratta qui però del ritorno alla visione rassegnata e pessimistica di un certo passato, ma del passaggio al vigoroso ottimismo di chi soffre lottando contro il male, le ingiustizie e le sofferenze, al servizio di una speranza che trionfa anche nell'apparente sconfitta di chi lotta». Ne aveva parlato con l'acutezza del teologo preparato e del credente, ma senza l'apporto dell'esperienza diretta. Ultimamente, quando il male l'aveva colpito ma non c'era ancora la certezza della fine imminente, aveva scritto una traccia di risposta a una lettera, ma che poteva essere anche la scaletta di una riflessione più ampia (un nuovo libro?). Abbiamo trovato quelle righe su un foglio rimasto sul suo tavolo. Le trascriviamo così come sono. Gli spunti di riflessione non mancano. «Perché a me? Nel tunnel del tumore. Ne uscirò vivo? Lettera di un ammalato, oscillante tra sorpresa, protesta, desiderio cristiano di salvezza, speranza e delusione. R. (la traccia di risposta): Dalla mia esperienza. Si spegne il sole, si accendono le stelle non subito - horror vacui - (paura del vuoto, ndr), desiderio vile di lasciarsi andare. La luce della Croce... oltre l'efficienza. La scoperta della bontà di Dio nell'amore disinteressato di parenti e amici. L'esperienza dell'ospedale. L'orizzonte speranza visto dal tunnel della sofferenza, come un telescopio. Gli amici di Giobbe...». Appunti di risposta, ma forse anche capitoli di un libro, dunque, al quale si sarebbe dedicato se la malattia non glielo avesse impedito. Ci rimane il rammarico che non abbia potuto farlo: rinforzato dall'esperienza del dolore, ne sarebbe uscita un'opera viva, illuminante, preziosa.