Quelle Favole che salvarono Guareschi

Dai lager alla libertà. Il 25 dicembre diventa, nella penna dello scrittore nato 100 anni fa, una data per riconciliarsi con sé stessi e tornare a credere negli uomini di buona volontà.
12 Novembre 2008 | di

Non è frequente trovare, in un’opera letteraria, la presenza del Natale espressa con un’intensità di fede e con un soffio di delicata poesia come nelle pagine di Giovannino Guareschi. Che nell’incarnazione di Dio che si fa uomo per il bene degli uomini, ci credeva a tal punto da scrivere addirittura due Favole di Natale, e di dedicare all’evento diverse altre pagine, a iniziare da quel finale di Don Camillo (il primo volume all’insegna del Mondo Piccolo – Rizzoli, 1948) nel quale Peppone, in una brumosa serata novembrina, andato in canonica a confidare certe sue preoccupazioni al parroco, si trova fra le statuine del presepe. Il vecchio prete sta lavorando, infatti, in forte anticipo sui tempi perché – dice – Natale arriva in fretta, cogliendoti magari di sorpresa. Eccolo, allora, ricevere la visita del sindaco e capo dei rossi mentre sta ripulendo e sistemando le statuine del presepe… Allora prende il Bambinello e un pennellino, affidandoli a Peppone per i ritocchi necessari di pulizia e di colore. Incombenza alla quale il nostro omone non si sottrae, anzi… E uscendo – annota Guareschi – «Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa».
Il finale del racconto è all’insegna di una fede semplice e toccante: «Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l’argine, ed era anch’esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all’acqua, c’eran voluti mille anni. E soltanto fra venti generazioni l’acqua avrà levigato un nuovo sassetto. E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per fare cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino».
Di riferimenti al Natale ne troviamo anche in chiave umoristica, nello Zibaldino, per esempio, in un racconto esilarante dove i figli dell’autore, Albertino e Carlotta, devono imparare ciascuno una poesia da recitare il 25 dicembre, e si fanno i dispetti, l’una recitando quella del fratello, l’altro, quella della sorella, e tutto il vicinato, nel frattempo, sentendo mandare a memoria ad alta voce i versi, ha in parte imparato anch’esso.
Ma ci sono due episodi della vita dell’autore nei quali il Natale si rivela più che mai presente, significante, coinvolgente, consolante. Ne Il magone dell’antenato, racconto apparso sul settimanale Oggi nel dicembre del 1967, poi raccolto in Chi sogna nuovi gerani? (Rizzoli, 1993), l’autore scrive della sua annuale visita alla tomba dei genitori nel piccolo cimitero di Marore, alle porte di Parma.
Lì riposano sua madre, la maestra vecchia, (Lina Maghenzani), e il padre di Giovannino, Primo Augusto, e sulla tomba c’è il «monumento» a Gramigna, che non è una sorta di Franti del Cuore deamicisiano, bensì «l’ultimo della classe». Ed ecco come, prima di avviare il muto colloquio coi suoi morti, che ci immerge in quella meravigliosa «comunione dei Santi» del Credo cattolico, incomincia Guareschi.
«Dicembre 1967. La sosta di Natale. Per noi della vecchia generazione, pure disincantati da guerre, relativi dopoguerra, nonché da altre esperienze, il traguardo sentimentale d’ogni anno rimane il Natale».
«Natale è per noi la tappa annuale del lungo e duro cammino: l’albero frondoso all’ombra del quale, usciti dalla strada assolata e polverosa, ci fermiamo un istante per raccogliere le nostre idee, i nostri ricordi, e per guardarci indietro. E sono assieme a noi i nostri cari: i vivi e i morti. E nel nostro Presepino d’ogni Natale rinasce, col Bambinello, la speranza in un mondo migliore…».
Sarebbe stato, quello, l’ultimo Natale di Giovannino. Quello del 1968 non avrebbe fatto in tempo a vederlo: il 22 luglio, infatti, avrebbe cessato di vivere, colpito da un infarto nella casa di Cervia dove trascorreva i mesi estivi.
Ma il pieno, completo e compiuto senso del mistero, espresso poi con un’altezza poetica da vertigine, lo troviamo in quella Favola di Natale scritta in un lager nazista nei giorni precedenti il 25 dicembre 1944.
Una prima fiaba Guareschi l’aveva scritta l’anno precedente alla vigilia di quello che sarebbe stato il suo primo Natale di internamento. Era una favoletta, nel senso di pochi fogli: con una sentinella sulla torretta, Giuseppe e Maria che arrivano al lager chiedendo ospitalità, e poi il nascondimento, grazie alla sentinella stessa, una gran luce che si accende nel luogo dove nasce il Bambino, una grande stella luminosa, un colonnello, quindi la scomparsa della Sacra Famiglia così, nel nulla, e infine un «buon Natale» detto dal soldato della torretta. Un gioiellino mai pubblicato, con Guareschi vivo, e che i figli molto opportunamente avevano inserito in Ritorno alla base (Rizzoli – 1989).
A proposito di queste pagine, nel Grande Diario 1943-1945 appena pubblicato (sempre da Rizzoli), del Natale si legge più e più volte… Eccone una: «Venerdì 24 dicembre 1943 Vigilia di Natale. Neve in terra e nebbia – Salute adeguata – Minestra di cavoli, patate, marmellata, carne in scatola, pane».
«Ho disegnato la “Lettera del papà” sulla parete, e Novello ha finito il Presepe. Abbiamo fatto l’albero di Natale… Ho finito la mia conversazione “Natale 1943”; l’ho scritta con disperazione…».
«Sabato 25 dicembre 1943. Nebbia e brina ricamata. Salute adeguata… Questa notte è venuto Albertino a trovarmi col suo sorellino e il buon Dio, per non farglieli vedere, ha coperto i reticolati con candidi fiori di gelo. Regalo del Bambino Gesù: dato i tempi ha fatto anche troppo».
Ma il capolavoro di Giovannino sarà la Favola di Natale del 1944, musicata da Arturo Coppola, edita nel dopoguerra da Rizzoli, più e più volte ristampata. In quel testo, l’incipit vedrà ancora una volta protagonista il figlio dell’internato 6865, con una poesia, e quindi con la nonna, il fido cane Flik e una lucciola, lungo la via sconosciuta che porta al lager.
Nel Grande Diario, alla data di Domenica 17 dicembre 1944, leggiamo: «Ho scritto una Favola di Natale» e il martedì successivo: «Finito Favola di Natale». Ancora nei giorni antecedenti il 25 si legge della preoccupazione dell’autore che il testo non venga capito, poi: «Domenica 24 dicembre 1944… Prima della Favola di Natale. Un successone». E il successone si ripeterà nelle successive letture baracca per baracca.
Tornato in patria nell’estate del 1945, Giovannino presentò quella favola all’Angelicum di Milano la sera del 23 dicembre: spettacolo a favore delle famiglie degli ex internati; e tornarono la commozione, le speranze, la fede, la poesia di quel Natale fra i reticolati. Quelle pagine scritte nel lager avevano avuto tre muse ispiratrici: la fame, il freddo e la nostalgia – come sottolineato dallo stesso autore. Ed erano pagine ricche di metafore, con note polemiche, con soffi di poesia, ma soprattutto testimonianza che il Dio della pace che si incarnava nella notte santa, rappresentava l’Evento centrale nella vita di quei disgraziati, poveri straccioni affamati, lontani dalla patria, dalla famiglia, ma che trascinavano i loro giorni di pena all’insegna della fede, della speranza e della libertà. Sì, della libertà, perché – come aveva avvertito lo stesso Guareschi in un precedente scritto – lui non poteva uscire dal campo di concentramento, ma poteva entrare chiunque: sogni, ricordi, affetti, e pure il buon Dio! La libertà essendo, prima di tutto, un fatto interiore. È la libertà dei figli di Dio.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017