Per quelle mamme dal cuore ferito
C’è un tipo di povertà che spesso sfugge persino alle grandi organizzazioni umanitarie. È un «effetto collaterale» delle guerre e dei genocidi, che colpisce soprattutto le donne e i bambini. Sono tante le mamme rifugiate che, prive di mezzi e della protezione di una famiglia, cadono in gravi forme di malattia mentale, trascinando i figli nella loro miseria. E così, nel 2009, Caritas Antoniana ha proposto per giugno un progetto dedicato a queste famiglie straziate e agli orfani dell’aids, malattia che dilaga incontrollata in particolare nei Paesi in guerra. Si tratta di una casa-famiglia a Mbarara, in Uganda, città sita a sud-ovest del Paese, poco distante dal confine con il Congo e il Rwanda, teatro quest’ultimo, nel 1994, di uno dei più sanguinosi genocidi della storia umana.
La casa sarà aperta nel corso di marzo, offrendo a circa quindici mamme e cinquanta bambini un tetto, l’assistenza sanitaria e soprattutto l’affetto di una grande famiglia. Una meta non facile, come racconta Sara Paternoster, psichiatra e membro della Comunità Shalom di Riva del Garda (TN), che ha realizzato l’intervento con l’appoggio finanziario della Caritas Antoniana. «Credo di poter dire che questo progetto è frutto della Provvidenza: non saprei come chiamare altrimenti una serie di coincidenze che si sono verificate e che lo rendono unico».
Msa. Avevate chiaro fin dall’inizio che cosa volevate realizzare?
Paternoster. Non proprio. Avevamo conosciuto il responsabile locale del progetto, padre Emmanuel Tusiime, per caso: era di passaggio a Riva del Garda. Lui ci ha invitato ad andare in Uganda con l’idea di pensare a un progetto per gli adulti malati di aids: già avevano a disposizione un terreno a questo scopo. In vista del progetto ci eravamo rivolti alla Caritas Antoniana, che aveva sottoposto l’appoggio finanziario a due condizioni: che fosse a favore dei più poveri dei poveri e che fosse profondamente radicato nel territorio.
Come siete approdati alla casa-famiglia?
Arrivati a Mbarara, avvenne quella serie di coincidenze di cui parlavo prima. Innanzitutto il terreno acquistato era nel cuore della città, a pochi passi dall’ospedale universitario con l’unico servizio psichiatrico della zona e vicino a un piccolo ospedale pediatrico in costruzione, finanziato dagli americani. Io e Paolo, il responsabile dell’associazione, ci scambiammo un’occhiata di stupore: sembrava un posto mandato da Dio. Ma le sorprese non finirono qui: in quel terreno, nei ruderi di una scuola abbandonata, viveva una donna che aveva raccolto degli orfani dell’aids e due mamme malate di mente con la loro folta nidiata di bambini. Che fine avrebbero fatto una volta iniziato il nostro progetto? La risposta praticamente unanime ci fece sobbalzare: chi meglio di loro, ultimi tra gli ultimi, poteva essere beneficiario del nostro intervento? Ne parlammo con padre Emmanuel, che approvò in pieno la soluzione: per persone come loro non c’era alcuna risposta sul territorio.
Come siete riusciti a coinvolgere le autorità locali?
Per merito di altre due coincidenze. La prima è che io come psichiatra avevo chiesto mesi prima di poter parlare con il primario di psichiatra dell’ospedale universitario. Semplice curiosità professionale. L’incontro cadde «a fagiolo», come si suol dire. Fu lui per primo a raccontarmi della situazione terribile delle donne rifugiate dal Ruanda, che hanno avuto il marito ucciso in guerra e che ora vivono ai bordi delle strade, perse nella loro malattia mentale assieme ai loro quattro, cinque bambini, esposte alla fame e a violenze di ogni tipo.
Quello stesso giorno dovevamo incontrare anche il sindaco di Mbarara. Lui era assente e ci accolse la giunta comunale al completo. In un colpo solo conoscemmo tutte le persone chiave della vita cittadina: contatti che si sarebbero rivelati vitali per il buon andamento del progetto.
In quell’occasione spiegammo ciò che volevamo realizzare e loro ne colsero immediatamente l’importanza: «Le mamme malate di mente e gli orfani sono un nostro grande problema» disse l’assessore ai servizi sociali. Da quel momento ci aiutarono non solo a disbrigare le pratiche burocratiche ma anche a realizzare il sistema di servizi sanitari e assistenziali intorno alla nostra casa.
Comunque i lavori si sono conclusi con mesi di ritardo.
Secondo gli standard occidentali, ma non di certo secondo quelli africani. Abbiamo avuto dei guai burocratici (che in Africa possono causare anni di ritardo), ma li abbiamo superati grazie all’intervento del Comune e i lavori sono stati finiti in tempo record. Sa perché? Perché abbiamo raccontato agli operai la storia della casa che stavano costruendo: quei mattoni non erano solo il loro lavoro ma erano vita per mamme e bambini e bisognava fare presto. I settanta operai iniziarono a lavorare febbrilmente – l’avevano proprio presa a cuore – e l’ingegnere del Comune rimase a bocca aperta.
Che cosa significa per una donna senza speranza riavere un futuro?
Una delle donne che avevamo visto nella scuola diroccata aveva perso progressivamente i figli a causa della malattia: due erano state prese da parenti, la più piccola, di tre anni, era stata portata in un istituto di suore da una delle nostre assistenti. La donna non voleva farsi curare, ma dietro la promessa di riavere la figlia ha accettato di far parte del nostro progetto. Negli ultimi tempi, quando la malattia le consentiva una tregua, smetteva di urlare e diceva alla gente che presto non sarebbe più stata una stracciona, qualcuno le stava costruendo una casa e le avrebbe restituito la figlia. Il nostro lavoro non sarà solo curare le mamme, ma recuperare i bambini dispersi, restituire loro una famiglia, fare in modo che le donne riacquistino progressivamente capacità di cura verso i figli e con il tempo un’autonomia economica. Stiamo anche organizzando corsi professionali per agevolare questo percorso. Man mano che le donne saranno in grado di farcela da sole, saranno inserite nella comunità in modo da poter accogliere nuovi casi.
Qual è la prospettiva futura?
Che il nostro progetto diventi un modello di recupero per mamme con problemi mentali e bambini ammalati e orfani dell’aids. Che diventi nel contempo un luogo dove preparare personale specializzato per la cura e l’assistenza di questo tipo di persone. Noi vediamo la nostra casa come un tassello di un sistema più grande che coinvolga i servizi e le risorse del territorio, un centro propulsore da cui si inizi a diffondere una nuova sensibilità verso la malattia mentale in Uganda e in Africa. Perché nessuno è più povero e solo di una mamma malata, che cerca come può di allevare i suoi figli.
Il progetto in breve
- Realizzazione: Casa-famiglia
- Beneficiari: mamme malate e orfani dell’aids
- Periodo: 2009-2010
- Costo: euro 250 mila