Ragazzi coraggiosi

Le peripezie del primo viaggio dei nostri migranti nel dopoguerra, è stato rievocato dai protagonisti di quell’avventura. Una generazione che non ha dimenticato l’Italia.
04 Marzo 1999 | di

Adelaide
Nel 1948, tre anni dopo la guerra, la crisi economica in Italia era galoppante. La ricostruzione delle città  danneggiate dai bombardamenti alleati andava a rilento. Non si prospettava per i giovani un immediato futuro di lavoro che aprisse le porte al benessere. Bisognava emigrare. Dove? Verso i Paesi che cercavano «braccia», usciti quasi indenni dalla guerra. L";Australia era uno di questi Paesi.
«Il primo gruppo organizzato di italiani migranti verso l";Australia, salpò da Genova il 19 ottobre 1948» "; ricordano Duilio e Galdino Caon, originari di Ramon di Loria (Treviso), membri di una famiglia di 11 figli. Duilio aveva 20 anni e Galdino 17; due giovani ancora imberbi ma ricchi di spirito d";avventura. La nave era la Toscana del Lloyd Triestino, 9584 tonnellate di stazza, velocità  13 nodi, costruita a Saarbrucken per la flotta tedesca.

Fu acquisita dal governo italiano nel 1935 per essere destinata al trasporto di passeggeri sulle rotte del Sudamerica e del Sudafrica. Durante la guerra la nave fu riattata ad ospedale, e riconvertita al trasporto passeggeri nel 1947. Curiosa l";impressione di un passeggero, abituato alle visioni agresti del suo paese, quando vide per la prima volta la nave in porto: «Pareva una grande anatra, sotto le cui ali andavano a porsi centinaia di anatroccoli per essere condotti lontano, nel mare!». I pulcini-anatroccoli erano 136, in gran parte donne e stranieri, ospitati nelle cabine, e 690 migranti provenienti da tutte le regioni italiane, sistemati su letti a castello nelle stive della nave. La nave-anatra gettò le ancore nel porto di Melbourne il 30 novembre, dopo 41 giorni di sofferta navigazione per il caldo e il mare agitato. «Le strutture della barca scricchiolavano sotto le sferzate dell";acqua che si frangeva sui fianchi. In qualche momento pareva perfino che l";imbarcazione gemesse come una vecchia signora lenta a camminare perché colta da acuti dolori artritici» "; ricorda Alfonso Beltrame nato a Salvarosa di Castelfranco (Treviso), che raggiungeva il fratello Giuseppe residente ad Adelaide da prima della guerra.

«Durante il viaggio non mancò un fatto luttuoso: una coppia inglese di Southampton, nell";Hampshire, ebbe la sventura di veder morire nella culla, al largo del Golfo di Aden, il proprio bambino di 4 mesi, a seguito di un attacco di gastrite» "; racconta il professor Aldo Cinzio, allora pastore protestante, e diretto con la famiglia a una missione in Queensland ";. Celebrai le esequie funebri sulla tolda della nave, nel buio di una notte senza luna, alla presenza di molti passeggeri "; ricorda Cinzio ";. Alla fine del rito e dopo la recita del salmo nel quale si supplica il Signore di accogliere nel suo grembo le anime dei giusti, il capitano, che, per la circostanza, aveva fatto fermare le macchine della nave, diede l";ordine di lasciare scivolare in mare il corpicino, coperto dalla bandiera inglese». Ciò è prescritto dai regolamenti, quando un";imbarcazione si trova a più di un giorno di navigazione dal più vicino porto. Tutti gli italiani a bordo ricordano quel fatto luttuoso con molta commozione: alcuni avevano visto una «sepoltura» in mare solo al cinema. Maria Panozzo, nativa dell";Altopiano di Asiago (Vicenza), allora quattordicenne, ricorda quel fatto in modo confuso ma pur sempre toccante. Era sulla nave anche lei per raggiungere, con la mamma Lucia, il padre Pietro emigrato in Australia ancora prima della guerra. Aveva lasciato con molta tristezza nel cuore il suo paese di montagna e le amiche. Ma c";era a bordo anche una famiglia composta di due gemelle, Ramella e Romilda, di 16 anni e una sorellina di 9, Renata, accompagnate dalla madre Regina Rech, di 39, proveniente da Cesio (Belluno). Anche loro si ricongiungevano al capofamiglia, Everino Rech, in Australia dal 1939. Era una nave di persone giovani dotate di entusiasmo, decise a dare un futuro luminoso al loro passato di povertà .

L";arrivo a Melbourne era una festa per chi si ricongiungeva alla famiglia. Invece, per chi cercava lavoro e fortuna, a digiuno di lingua inglese, le difficoltà  si affacciavano preoccupanti. Buona parte di quei passeggeri raggiungevano Adelaide in treno, mentre quelli diretti a Sydney e a Brisbane proseguivano il viaggio con la nave.

Nives Caon, organizzatrice con il marito Duilio dell";incontro al «Veneto Club» per la celebrazione dei 50 anni dall";arrivo in Australia del primo contingente di italiani nel dopoguerra, ha ricordato le molte difficoltà  cui sono andati incontro i primi emigrati in questo continente. «Non ricordo proprio bene le ragazze italiane che arrivarono alla stazione di Adelaide "; dice scherzando ";. Ma avevo gli occhi bene aperti sui ragazzi così giovani e aitanti. Noi ragazze, nate in Australia da genitori veneti, avevamo allora 15-16 anni e naturalmente ambivamo a parlare con i coetanei dei nostri paesi di origine. Sono sicura che i primi elementi della lingua inglese, quei ragazzi li appresero da noi. Era estate e ci incontravamo spesso nelle nostre case. Quasi tutti iniziarono a lavorare dopo pochi giorni dal loro arrivo, con ritmi di 6-7 giorni alla settimana. Fraternizzare con gli australiani era comprensibilmente difficile (durante la guerra eravamo nemici). I pionieri italiani, arrivati in Australia negli anni Venti e Trenta, non si comportarono meglio. Quei giovani damerini ben vestiti e impomatati non andavano giù ai vecchi connazionali che avevano dovuto affrontare disagi enormi nei lavori più umili e duri, riservati loro nei primi anni di vita australiana».

Nives Caon, che ha sposato Duilio, proprio uno di quei «damerini», ha concluso il suo discorso ai superstiti del `€˜48 affermando: «Noi ragazze imparammo molto da voi, venuti dall";Italia con tanta voglia di lavorare per costruirvi un futuro dignitoso. Molti mancano all";appello sia perché sono deceduti o rientrati in patria (pochi) per vari motivi. Le vostre piccole storie sono parte della grande storia dell";emigrazione italiana che ha intricatissime radici affondate nel tempo».

Dopo Nives ha parlato anche Aldo Pratale di Genova, che ha illustrato con scioltezza espressiva i piacevoli incontri sulla nave con gli amici, e le prime simpatie per le ragazze, mentre i fratelli Anna e Angelo Amato, imbarcati a Napoli, hanno ricordato le paure delle burrasche e il pensiero insistente che la nave potesse cedere sotto le ondate violente, specie durante la traversata dell";Oceano Indiano. La nave Toscana non cedette allora, ma perse le ancore il 3 giugno 1952, in seguito alle turbolente condizioni del mare a Portsea, e fu coinvolta nel 1953 in una seria collisione con una petroliera americana nel Canale di Suez, nella quale riportò danni devastanti.

All";incontro del «Veneto Club» erano presenti solo una ventina dei «ragazzi del `€˜48» con i familiari; in sala c";erano quasi 150 persone. Tutti i «quarantottini» sono riusciti a diventare benestanti e a concedersi lunghi periodi di vacanza, specialmente in patria, i cui vincoli non si sono mai allentati in 50 anni di vita all";estero. Fatto onorevole da lodare e da citare ad esempio alle nuove generazioni. L";ineffabile sensazione del passato che vive e palpita nel presente non invecchia mai ed è sempre gratificante.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017