Religioni: la necessità del dialogo.Gli ortodossi, ovvero l’altra Europa.

I cambiamenti nel vecchio continente obbligano l’ortodossia, abituata a definirsi per opposizione, a tracciare un nuovo cammino, quello del dialogo e dello scambio costruttivo.
04 Novembre 1998 | di

Ci sono due Europe? C'erano al tempo della «guerra fredda», quando due sistemi dividevano il continente, ma sembra che ci siano ancora. Il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, parlando in Voivodina nel 1993 sul Danubio, disse, rivolto verso occidente: «Sono cosciente di trovarmi presso una linea di demarcazione che separa il continente europeo... l'Europa occidentale o, come l'affermano essi stessi con orgoglio, l'Europa...». Bartolomeo è una delle personalità  ortodosse più aperte alla dimensione europea, ma emerge dalle sue parole la coscienza che l'ortodossia è considerata una parte periferica del continente. Del resto, non è un timore ingiustificato. R. Brague, in Europe, la voie romaine, mostra di nutrire un pregiudizio verso gli ortodossi: «Si è europei talora più e talora meno. In questo senso, se il mondo protestante mi appare europeo a parte intera quanto il mondo cattolico, l'appartenenza all'Europa del mondo ortodosso mi pare meno netta».

È un luogo comune che, però, ha avuto molto corso ultimamente: dalle tesi di Huntington, che intravedono uno scontro tra l'Europa occidentale e l'Europa ortodossa, sino a tanti commenti della stampa in questi mesi. È anche una coscienza che si va diffondendo anche nelle società  ortodosse, reagendo al senso di un'esclusione dai circuiti europei e occidentali. Indubbiamente, la religione può divenire un'identità  di rifugio, quando ci si ritrova estraniati. Uno dei fatti caratterizzanti l'«altra Europa», l'Europa dell'Est, è stato, infatti, la riemersione della funzione sociale e nazionale della religione nei conflitti e nelle identità  nazionali in una maniera che appare smisurata alla cultura e alla politica occidentale. Ma poi - sia detto per inciso - è veramente laica la politica occidentale? Così si chiedono gli orientali, sospettando che, dietro al rifiuto dell'allargamento dell'Unione, ci sia un'inconfessata diffidenza per il mondo ortodosso. I turchi accusano con chiarezza l'Europa di essere un club cattolico-protestante o cristiano.

Un aspetto di civiltà  sostanzialmente trascurato nella riflessione sui rapporti tra l'Unione europea e l'Occidente è stato quello religioso. Questa dimenticanza è dovuta a un insieme di motivi: la trasposizione universalizzata del modello di laicità  occidentale come fosse buono per il mondo intero, la convinzione che la secolarizzazione avrebbe progressivamente ridotto a ben poco il ruolo pubblico delle religioni, la glaciazione comunista che ha sospinto la vita religiosa nei limiti del puro culto (e ben controllato) fuori da ogni legame con la vita pubblica. La religione non è apparsa, sino a non molto tempo fa, un elemento di radicale differenziazione in Europa.

Peraltro, nella seconda metà  del Novecento, specie dopo il Concilio Vaticano II, le diverse Chiese cristiane sembravano avere buoni rapporti. Si sono realizzate, in quegli anni, nuove relazioni ecumeniche tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse. Ma la stagione ecumenica, per l'Est, è stata caratterizzata da una mancanza di libertà  di tutte le Chiese ortodosse europee, eccetto quella greca. Il loro ecumenismo corrispondeva in parte alla volontà  dei governi comunisti di mostrare all'Occidente un volto libero (e quindi era in parte forzato), mentre, all'interno dei Paesi si viveva una stretta poliziesca. Tipico è il caso kruscioviano di apertura ecumenica a Roma e alle altre Chiese, ma di contemporanea persecuzione dell'ortodossia all'interno. La cultura ecumenica non è spesso passata a livello di popolo e di quadri ecclesiastici (in particolare ai settori monastici). La Chiesa ortodossa bulgara pensa di uscire dal Consiglio ecumenico delle Chiese. Il monte Athos, dove si ritrovano monaci provenienti da tanti diversi Paesi ortodossi, è un centro panortodosso importante, è preoccupato per le aperture ai cattolici.

Con la fine del comunismo, l'ortodossia è ritornata naturalmente a essere «arca» e «anima» della nazione, seppure in maniera differente da Paese a Paese. Lo si è visto in Serbia con il patriarcato ortodosso nella crisi con i croati e i musulmani e con quella, tanto attuale, del Kossovo. Lo si è visto anche in Romania e in Bulgaria con una ripresa del ruolo pubblico della Chiesa. Questo rapporto privilegiato dell'ortodossia con la nazione si spiega non solo con la storia, ma con i vuoti morali e ideologici aperti dalla crisi del 1989.

Ormai, si ripete ovunque che, per l'ortodossia, la religione si identifica con la nazione. Ma è un fenomeno che va ben capito e che ha parecchie facce. Il noto teologo ortodosso, Lossky, parlava di «identificazione della Chiesa nei destini del popolo». È un aspetto connaturale dell'ortodossia, che ha avuto la sua grande stagione tra Ottocento e Novecento, quando gli Stati nazionali hanno voluto la loro Chiesa nazionale «autocefala», cioè autonoma. In questo processo, si è spesso smarrito il senso dell'universalità  come orizzonte della Chiesa. Talvolta, ciascuna nazione si è sentita il popolo di Dio con la sua storia sacra. L'orizzonte ultranazionale si è allontanato, ma certo non è andato smarrito.

I Paesi ortodossi hanno una storia di coabitazione dentro i loro confini con altre minoranze. Non sono Paesi omogenei etnicamente. Sono caratterizzati da un profondo pluralismo etnico-religioso tipico dei grandi imperi asburgico e ottomano. Sono le terre delle diversità  e delle minoranze. Ogni Stato ortodosso è multireligioso (con l'eccezione della Grecia). C'è un'ombra di cosmopolitismo bizantino che sopravvive in essi. Basterebbe pensare al fatto che nella piccola Jugoslavia ci sono importanti minoranze cattoliche e musulmane. In Romania, notevoli minoranze di cattolici, latini e greco-cattolici, e di protestanti. La Bulgaria ha cattolici e musulmani. La storia della seconda guerra mondiale ha visto in Bulgaria il patriarca ortodosso, per nulla moderno e democratico, difendere la comunità  ebraica dai tedeschi. C'è qualcosa del cosmopolitismo pluralista in ogni Paese ortodosso.

Questo pluralismo non nega il rapporto privilegiato tra la nazione, lo Stato e l'identità  ortodossa; ma l'esperienza attuale forza a vivere questo rapporto in un quadro di pluralismo. Non è una composizione facile, come si vede in Romania dalla querelle tra ortodossi e greco-cattolici, che oggi reclamano la restituzione delle chiese confiscate nel 1946 dal potere comunista e passate al patriarcato ortodosso.

Tuttavia, non ci si può nascondere che, nei momenti di crisi o di conflitto, le religioni possono rappresentare un elemento per un rifugio. Nella crisi kossovana, i serbi utilizzano motivazioni antislamiche per opporsi agli albanesi che, d'altra parte, non fanno dell'islam la loro bandiera. Il rifugio fondamentalista nella religione è una facile reazione in un mondo che si globalizza, come in una condizione di marginalità  difficile dal mondo europeo e dall'Occidente. È il richiamo del tradizionalismo come rifiuto del moderno. Tracce ci sono in quasi tutti i Paesi: fondano l'orgoglio della diversità . Il discorso integralista mescola nuove paure con pregiudizi antichi. Nella depressione postcomunista, il richiamo all'integralismo ortodosso, è facile.

D'altra parte, viene da chiedersi che cosa significhi, in questo mondo globalizzato, la contrapposizione evocata tra cultura occidentale e cultura orientale. Un grande teologo ortodosso, Olivier Clément, ha scritto: «È ora di finirla con la riduzione del religioso al culturale, all opposizione senza rimedio di una cultura ortodossa un po' fantasma con quella occidentale diabolizzata: in questa concezione, l'Occidente è concepito come una civiltà  dell'eresia totalitaria, scatenato a distruggere l'ortodossia ...». Tutti viviamo in una cultura occidentalizzata con i suoi valori di libertà  e i suoi limiti.

È infondato, però, ridurre la storia ortodossa soltanto a una dimensione meramente nazionale o ancora più fondamentalista o tradizionalista. Nel mondo ortodosso, accanto all'identificazione con il destino della nazione, c'è una tendenza che vorrei definire «ecumenica», anche se di un ecumenismo diverso da quello delle Chiese occidentali. Il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, fin dal secolo scorso, ha pesantemente contrastato la chiusura dell'ortodossia nei confini nazionali, definendola «filetismo», cioè nazionalismo religioso. Al patriarcato ecumenico si deve l'avvio, lungo tutto il Novecento, di un discorso di rapporti nuovi tra le Chiese ortodosse. In particolare, Atenagora, un patriarca vissuto tra gli scontri nazionali e la «guerra fredda», e l'attuale patriarca, Bartolomeo, hanno rilanciato questa dimensione ecumenica delle Chiese ortodosse. L'ecumenismo ortodosso è una tensione a sentirsi parte di un mondo - cristiano ma non solo - che fatica, in questo momento, a trovare modelli, ma esiste.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017