Reportage

Il «Messaggero di sant’Antonio» è andato tra i terremotati d’Abruzzo per ascoltarne il dolore e gettare ponti di solidarietà.
28 Aprile 2009 | di

Sbocciano i fiori dell’Aquila

Nell’interno, il paesaggio incanta: paesi di pietra arroccati, fioriture, verde chiaro che ruba spazio alla roccia. In pianura le pievi ti sorprendono agli incroci, in aperta campagna, mentre il Gran Sasso ancora dorme sotto la sua neve. Poi all’improvviso una chiesa annuncia la tragedia: la facciata intatta, crolli nell’abside e sulla fiancata. Ci siamo.
L’Aquila è deserta e affollatissima allo stesso tempo. Le arterie principali sono piene di mezzi: Vigili del fuoco, Polizia, Carabinieri, Protezione civile ma anche organizzazioni umanitarie. C’è la Misericordia dell’Irpinia e quella di San Giuliano di Puglia: le vittime di altre tragedie sono qui a condividere. Un traffico da ora di punta; sullo sfondo le tende blu della Protezione civile, piantate nei giardinetti. Ma nei quartieri regna il silenzio. I panni sono ancora stesi e sulle terrazze le piante soffrono la sete: nessuno abita più qui. In un palazzo destinato alla demolizione, campeggia il cartello «vendesi»: nulla è più come prima.

Scendiamo dalla macchina, c’è appena stata un’altra scossa. L’ennesima. Dentro una cinquecento parcheggiata, zeppa di cose, c’è una donna. Esitiamo ad avvicinarci, per pudore, ma lei sorride. Ci presentiamo: «Siamo del “Messaggero di sant’Antonio”». E il sorriso diventa gioia: «Mia madre è abbonata, vi leggo sempre, in quelle pagine ci mettete il cuore. E poi amo sant’Antonio». Scende dalla macchina e sono abbracci e risa. «Sa che lei è la prima persona che incontriamo?» le confidiamo. Lei ironizza: «Beh, sono la terremotata tipo: vestita dalla Caritas, con la macchina di quarant’anni fa e la casa pericolante qua davanti». È una pediatra, ha tre figli che l’aspettano in un paese della costa, si chiama Vincenza. È venuta qui a prendere qualcosa, un violino, dei libri «per portare ai miei ragazzi un po’ di casa. Siamo senza radici». Però oggi è un giorno fortunato: «Sono entrata per la prima volta nel mio appartamento e ho incontrato voi». Ironia, fede, dolore e dignità: quante note ha un incontro.

Il centro storico è chiuso e i Vigili del fuoco sono tutti fuori, insieme alla gente a recuperare beni e ricordi. Per le strade accessibili, ai lati delle quali i palazzi stanno in piedi come fantasmi feriti, gruppetti di familiari sono in attesa. Ogni tanto un vigile sbuca da una finestra, scende dalle scale a pioli che salgono ai piani, sulle spalle sotto l’elmetto arancio porta un sacco ricolmo, come un Babbo Natale fuori stagione.
Lucio lo troviamo, stanco, poggiato a un albero davanti a una farmacia. È un volontario della Protezione civile. Quella sera ha salvato tutti i suoi e poi si è dato anima e corpo a salvare gli altri. A L’Aquila ha perso due case, «ma è la vita che conta». È un uomo alto, solido, con poca voglia di parlare. «Ho lavorato per sei giorni di seguito, senza mai dormire. Solo il giorno di Pasqua mi sono tolto le scarpe».
Onna dista pochi chilometri da L’Aquila. Un pugno di case adagiate sulla pianura. Doveva essere un paradiso, con la sua chiesa e le sue case antiche. Non è solo la distruzione che sconcerta, sono i particolari: tra le macerie gli appunti di chimica, un pinocchio di legno, una statuina del presepe, la foto di due ragazze che sorridono. Una vita in pezzi. In alto un termosifone in ghisa sovrasta le macerie di una casa, come una croce sopra un tumulo: è sorretto in aria solo dal suo tubo, intorno tutto è crollato.

Aspettiamo di entrare nel cuore del paese sostando al ritrovo dei Vigili del fuoco. Ci accorgiamo che i personaggi di questa assurda tragedia sono già tutti qui. Bernardino e Igino sono fratelli: «Vi conosciamo, la rivista arriva anche da noi». Vivono in un paese vicino, e quella che abbiamo di fronte è la loro casa natale: «Dopo il terremoto, papà non rispondeva al telefono, siamo corsi qui, l’abbiamo estratto vivo. Abbiamo perso undici parenti, è tutto distrutto». S’avvicinano due uomini della nettezza urbana, nella loro tuta giallo fosforescente. E questa volta è rabbia: «Siamo stanchi di tutti questi politici che vengono a parlare e parlare, a intralciare il nostro lavoro. A dirci come e dove dobbiamo costruire. Gli abruzzesi vogliono ricostruire le case dov’erano, una accanto all’altra, da soli se occorre. La mattina dopo il terremoto eravamo sul posto di lavoro, e nessuno a darci ordini. Abbiamo preso il nostro mezzo e cominciato a pulire le strade: è quello che sappiamo fare». Monia – venticinque anni – è invece timida e dolce: «Quella notte non riuscivo ad aprire la porta. Mia madre è invalida e mio padre è anziano. Ci ha salvato un ragazzo, Alessio: ha sfondato la porta, si è caricato mia madre sulle spalle. A Onna ci siamo salvati l’un l’altro, i soccorsi sono arrivati con il giorno. Ho perso la casa e il lavoro, ma voglio vivere qui, ho fiducia nel futuro».
Nella tendopoli adiacente si è creata una strana normalità. C’è chi lava i panni, chi mette a posto, chi aspetta seduto sulle brande. Nel tendone che fa da mensa alcune persone si sono sedute insieme. Il tempo scorre lento. Ci avviciniamo a un’anziana signora. C’è un dolore enorme sul suo volto, un dolore composto: «Sono stata la prima a essere intervistata, non voglio più parlare. Non ci manca niente, abbiamo tanta solidarietà, tutti questi ragazzi fanno tanto per noi». Ci rendiamo conto che il verbo giusto ora non è né «dire» né «fare», forse solo «stare». Troviamo il coraggio per dirglielo: «Siamo del “Messaggero di sant’Antonio”, siamo qui per “stare”». Lei capisce che cosa vogliamo dirle e comincia a raccontare: «È la fede che mi sorregge. Per quattro ore sotto le macerie ho pregato i santi. Ero serena. Mi sento una miracolata. Sono stata a Padova e mi piacerebbe ritornare. Ormai non sarà più possibile. Ho perso i miei nipoti di 14 e 27 anni. È finita». Né dire, né fare. «La porteremo dentro di noi a Padova», sussurriamo. «È la cosa più importante – risponde lei – non dimenticateci».

Appena fuori dal tendone, Francesco e Valentina annunciano il loro matrimonio. Studiavano a L’Aquila e qui vogliono restare. «Vogliamo sposarci lo stesso, il 6 giugno, come avevamo deciso, anche sotto una tenda. La chiesa è crollata, il ristorante è danneggiato. Ma proprio qui dove tutto è precario vogliamo testimoniare che il nostro amore è rimasto».
Da una tenda esce una signora, le mani alzate al cielo: «Sono Rosaria, sono un’abbonata. Da 51 anni!». Luciano, il nostro fotografo, le ha detto chi siamo. Ci apre le porte della sua tenda. Se potesse ci aprirebbe anche quelle della sua casa di mattoni, ne siamo sicuri. Stringe le mani dei frati ed è festa. «Ce la faremo» dice.
È crudele questo aprile, ma i «lillà» stanno sbocciando a L’Aquila.

 

Giulia Cananzi


Il tecnico. Costruire bene si può



Msa. Che idea si è fatto dei danni?

Modena. In provincia de L’Aquila ci sono paesi molto danneggiati, altri decisamente meno. Percorrendo il centro del capoluogo poi, negli edifici nuovi in cemento armato, si notano parecchi danni che rovinano i tamponamenti, ma in qualche modo sono danni attesi per un evento naturale di una certa entità. In questo senso è anche un terremoto molto selettivo: in alcune zone colpisce in maniera intensa, in altre modesta.

Dipende dalla qualità della costruzione degli edifici?

Non solo. Per esempio ho presente un caso di due case identiche, una vicino al crollo e l’altra senza lesioni.

Ma questo fenomeno come si spiega?

Per gli edifici storici spesso dipende dalla manutenzione: se è meno curata è più probabile che possano esserci lesioni. Si vede benissimo l’importante effetto delle catene (cioè quelle barre in acciaio con funzione di tirante tra una parete e l’altra, ancorate alla muratura con capichiave, ndr) negli edifici in muratura. Abbiamo visto crolli in cui c’è il capochiave ma non la catena, che è stata eliminata durante un restauro. Basta questo, a volte, per provocare gravi danni o il crollo.

Molti sono rimasti stupiti dal fatto che a crollare siano stati edifici ristrutturati o costruiti di recente.

Ovviamente l’attenzione si concentra su questi fatti, ma venendo qui in Abruzzo si ha una visione più completa. Le stime che stiamo facendo indicano che circa il 50 per cento degli edifici evacuati è comunque agibile. Altro discorso è spiegare perché in determinati casi un crollo sia stato così grave, ma credo valga la pena attendere gli esiti delle indagini, perché le cause possono essere complesse. Del resto i danni sono previsti anche dai criteri più moderni di progettazione in zona sismica. Anzi, il progetto fa affidamento proprio sulla capacità delle strutture di danneggiarsi, perché altrimenti non resisterebbero al terremoto. Poi, nonostante tutti gli accorgimenti, la possibilità di danni gravi è ridotta, ma non nulla. Bisogna, ahimè, tenerlo presente.

Nei giorni scorsi il «Corriere della sera» ha titolato: «Prevedere i terremoti? L’unica difesa è costruire bene». Lei è d’accordo?

Senz’altro. L’unico modo per ridurre gli effetti del terremoto è progettare in maniera adeguata sia il nuovo che gli interventi sull’esistente. Ma credo che su questo l’Italia abbia dato dei contributi importanti: c’è stata una recente evoluzione della normativa per la costruzione di edifici in zona sismica, all’avanguardia in campo internazionale.

Ma queste leggi sono già entrate in vigore?

Non in via definitiva. Dal 2003 c’è stata una forte revisione delle norme sismiche. Proprio per l’importanza del cambiamento, è stato programmato un adeguamento graduale, per consentire al professionista di prendere familiarità col nuovo assetto. La polemica è nata per le varie proroghe all’entrata in vigore definitiva della normativa: l’ultima è recente, e ha spostato al 30 giugno 2010 il termine. Chiaro che sarebbe meglio si passasse il prima possibile a criteri di progettazione e di realizzazione più adeguati.

Alberto Friso


L’economista. Uscire dalle emergenze


Il dramma dell’Abruzzo sembra mettere in evidenza ancora una volta vizi e virtù del nostro Paese e, tra di essi, il contrasto tra una diffusa illegalità nel quotidiano e il sussulto di solidarietà nel momento della grande crisi, con il paradosso che quest’ultima viene aggravata proprio dalla somma di quelle piccole illegalità. Non siamo gli unici a comportarci in questo modo, perché le case del terremoto assomigliano incredibilmente ai mutui subprime: prodotti composti da elementi di buona e cattiva fattura sottoposti a una verifica di qualità non adeguata, a un giudizio di affidabilità troppo generoso.
I difetti vengono drammaticamente a galla nel momento del grande choc: il crollo della bolla immobiliare in un caso e il terremoto nell’altro.
Nel percorso della ricostruzione speriamo di far tesoro di ciò che gli economisti e gli studiosi sociali dell’uscita dalle emergenze (disaster recovery) hanno da tempo messo a punto. Il primo problema è il flusso di risorse eccessivo nelle catastrofi affettivamente o mediaticamente più vicine, e quello troppo scarso in quelle più lontane o dimenticate dal grande pubblico. In Sri Lanka dopo lo tsunami arrivarono fondi fino a cinque volte superiori a quelli necessari, mentre la calamità del Kashmir raccolse pochissimi aiuti. In Abruzzo interverranno tutti, ma le tante emergenze dimenticate che le organizzazioni del volontariato cattolico e della società civile sostengono nel quotidiano possono far leva solo sui membri di quelle organizzazioni e non sul grande pubblico. Sono quelle le emergenze più a rischio.

Il secondo problema è circoscrivere i beneficiari degli interventi alle zone effettivamente colpite. La storia dei terremoti passati testimonia che, quanto meno questo avviene, tanto più i veri beneficiari rischiano di non essere effettivamente risarciti.
Infine, dopo un primo intervento umanitario, l’inondazione di prodotti gratis non fa bene e rallenta il riavvio dell’economia locale. In Sri Lanka i produttori di barche hanno avuto seri problemi dopo l’inondazione di imbarcazioni donate dall’estero, tra l’altro inadatte alle caratteristiche naturali del luogo. In Abruzzo il tessuto dei piccoli commercianti e della grande distribuzione rischia di andare in difficoltà di fronte all’inondazione di viveri gratis. Meglio sarebbe raccogliere donazioni in denaro e utilizzare le stesse per distribuire buoni pasto o buoni acquisto alla popolazione colpita.
Infine, la cosa più utile e urgente è creare le condizioni affinché si possa restituire dignità favorendo il ritorno a casa e al lavoro. La cosa più triste è vedere persone abbandonate in tende e magazzini pieni di vestiti usati e colombe pasquali.

Leonardo Becchetti



Le campane di Onna suoneranno ancora


di Sabina Fadel


Anche la Chiesa aquilana è stata duramente colpita dal sisma del 6 aprile. Ma si è rialzata e ora cammina con la sua gente.



Ed è proprio di fronte alla tenda di don Pasquale che incontriamo suor Pia, suor Maria Lilia, suor Enrica e suor Rosalba. Sono Suore della Presentazione, ma per tutti, qui, sono semplicemente le suore di Onna. Gestivano l’asilo, frequentato da oltre 70 bambini, alcuni dei quali oggi non ci sono più. Anche loro hanno dormito in tenda per una settimana; ora sono ospiti in un vicino convento, ma tornano qui tutti i giorni e stanno con la loro gente dalla mattina alla sera. «Sono stati gli abitanti del paese a chiederci di restare con loro – raccontano –. Noi siamo parte della loro vita, una vita che vorrebbero tornasse alla normalità prima possibile». Una vita che, paradossalmente, anche adesso scorre tra ritmi normali: sonno, veglia, bucato, quattro chiacchiere con i vicini. Solo che ora le case sono tende, i letti brandine, gli abiti quelli forniti dalla Caritas, la lavatrice un lavatoio di fortuna simile a quelli che usavano nel dopoguerra le nostre nonne e le chiacchiere si fanno nella tenda comune, dove si pranza, si guarda la televisione, ci si incoraggia a vicenda.

Solidarietà, forse è questo il sentimento che qui si tocca con mano. Una solidarietà scattata pochi minuti dopo il dramma. «La mia casa è crollata la notte della prima scossa – racconta Paolo, priore della Confraternita della Madonna delle Grazie, venerata in Onna –. Sotto le macerie mia mamma e mia sorella. Le ho chiamate, con tutta la forza della disperazione, le ho cercate, ma loro non rispondevano più. E allora, quando ho capito che per loro non c’era più nulla da fare, sono andato ad aiutare gli altri». Oggi Paolo è qui insieme ai Vigili del Fuoco per recuperare dalla chiesa parrocchiale quel poco che resta. Le prime cose a uscire sono le più preziose: un affresco del ’400, un crocifisso, il fonte battesimale. E poi, posate in una carriola, le vesti utilizzate per la processione. Poche cose, ma fondamentali per recuperare un senso di comunità che il sisma non è riuscito a strappare a questa gente. Piange Paolo, ricordando i momenti in cui la terra ha tremato e si è portata via i suoi affetti più cari. Ma piange anche quando il dolore lascia spazio alla speranza. «Il 10 maggio a Onna si festeggia la Madonna. Con le travi e i mattoni delle nostre case crollate costruiremo qui, all’ingresso del paese che non c’è più, un altare e un piccolo campanile. Quel giorno le campane di Onna, quelle campane che adesso stanno lì, a terra, torneranno a suonare: è una promessa!». E noi saremo con loro quel giorno, almeno con il pensiero, ad ascoltare il suono di quelle campane: un rintocco familiare, capace di parlare al cuore di tutti, in un paese che vuole rinascere.



Una lezione di dignità. Non è rimasto seppellito il cuore.


Non è vero che la sofferenza, come anche le gioie della nostra vita, non siano comunicabili, anzi, si potrebbe dire che questa è un’esperienza tra le più naturali e umanizzanti che ci è dato di vivere.

In ogni situazione, lieta o triste che sia, noi abbiamo bisogno di condividere con qualcuno ciò che ci sta succedendo, di entrare cioè in una reciprocità, in una empatia che rassicuri il nostro cuore e che ci renda migliori, imparando gli uni dagli altri. E così possiamo, come insegna san Paolo, «sorridere con chi sorride e piangere con chi piange», mediante una presenza accanto a ogni situazione, senza invadenza, senza la pretesa di capire tutto e subito, ma semplicemente stando accanto con delicatezza e con rispetto, dedicando all’ascolto tutto il tempo che è necessario. Spesso le parole sono retoriche o inutili, e lo stesso «fare» è qualche volta semplice attivismo di un momento, mentre il calore di una compagnia, se è sincero, non lascia mai indifferenti e porta sempre frutto. Non è stato allora difficile per padre Ugo, per Sabina, per Giulia e per il sottoscritto incontrare uomini e donne provate dalle tristi conseguenze del terremoto d’Abruzzo; è stato sufficiente avvicinarci alle persone e «lasciarle dire» un’esperienza drammatica che ha segnato per sempre la loro vita, ma che non ha ucciso la speranza nei loro cuori e progetti. E abbiamo potuto constatare con emozione quanto sia consistente il bagaglio umano e spirituale di questo popolo, quanto veri e forti siano i legami con la fede, con la terra, con le sane tradizioni. Abbiamo potuto visitare, a nome del «Messaggero di sant’Antonio» e di tutta la grande famiglia antoniana, il piccolo centro di Onna, dove tutti si conoscono, dove non c’è una casa che sia rimasta illesa, non una persona che non abbia perduto un affetto, un’amicizia, dei ricordi. Ma dove sono passate la devastazione e la morte, abbiamo percepito che qualcosa di nuovo sta venendo avanti, e che tutti sono protesi – da quella tragica notte del 6 aprile impegnata in febbrile mutuo aiuto prima dei soccorsi – a ricostruire un ambiente umano dove condividere i valori di sempre.
Meravigliose le persone incontrate: dai giovani, primi soccorritori dei compaesani, ai Vigili del fuoco, provenienti da ogni dove; da don Cesare, il parroco, che si aggira instancabile tra i volontari e la sua gente, alle «mitiche» suore di Onna; dal giovane don Pasquale, con la sua tenda/cappella che custodisce l’Eucaristia alla giovane che ha perso casa e lavoro ma non la speranza.
E poi gli abbonati al «Messaggero»: eravamo sicuri di incontrarli. È stato come andare in famiglia, tra i ricordi vivi di anni e anni di fedeltà al Santo di generazione in generazione. Tutti ci hanno chiesto che il passare del tempo non cancelli il ricordo della loro situazione sicuramente non risolvibile in pochi mesi. Abbiamo assicurato, anche a nome di tutta la famiglia dei devoti di sant’Antonio, che non ci dimenticheremo di loro, anche perché sentiamo di avere nei loro confronti un debito di riconoscenza per le lezioni di dignità e di forza morale che ora ci stanno donando, mentre la terra, purtroppo, continua a tremare.

Il terremoto non ha seppellito il cuore, e la forza della speranza c’è ancora tutta. Grazie, amici.

padre Danilo Salezze



notes

Un aiuto per l’Abruzzo

«Fortunatamente i nostri conventi non sono stati particolarmente colpiti dal terremoto. La parrocchia di
San Pio X, a L’Aquila, è diventata un punto di riferimento per molte persone terremotate, soprattutto nei giorni immediatamente successivi al sisma: abbiamo distribuito alimenti e vestiario». A tratteggiare questo quadro è padre Giorgio Di Lembo, ministro provinciale dei frati minori conventuali d’Abruzzo e Molise, con il quale ci siamo messi in contatto all’indomani del terremoto. Il «Messaggero di sant’Antonio», insieme con la Caritas Antoniana, ha aperto una sottoscrizione. I frutti della raccolta verranno impiegati per un progetto di ricostruzione che sarà individuato dopo l’emergenza.

Chi volesse aderire alla raccolta, può inviare il suo contributo attraverso il ccp n. 12742326 intestato a P.P.FMC Caritas S. Antonio Onlus, Basilica del Santo, 35123 Padova, indicando la causale: Terremoto Abruzzo.


In cerca di un senso. Domande dal terremoto.


«Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro. Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto. Ma nel cuore nessuna croce manca. È il mio cuore il paese più straziato». Le parole del poeta – Giuseppe Ungaretti – colgono il reale nella sua profondità, in modo quasi implacabile: muri diroccati, ma anche e soprattutto cuori lacerati, spezzati, violentati, svuotati, privati della relazione più cara, dell’affetto paterno e materno, fraterno e filiale, parentale e amicale. Ho anche letto, e credo sia vero, che oltre alle case e alle vite crollano le identità: quando accade un terremoto, un’eruzione vulcanica, uno tsunami, quando vacillano le fondamenta – ciò di cui l’uomo si può fidare: la terra innanzitutto, ma anche elementi vitali come l’acqua – in qualche modo si ritorna al caos primordiale. E questo vale ancor più in una società della prevenzione, che in linea di massima sa preventivare i rischi e mette sotto tutela tutto ciò che è incerto: le polizze di assicurazione, per fare un esempio, servono a questo.
Il duplice crollo, delle mura e delle identità, al quale si aggiunge quello irreparabile della perdita della vita – in particolare se si tratta di bambini che sbocciano all’esistenza, innocenti e ignari –, sollevano le domande più alte ed esigenti. Perché? Perché a me? Perché in questa maniera brutale, inumana? Dov’era Dio? Quando il dolore si fa acuto, insopportabile, e ci si sente come braccati da una sorte cieca che colpisce fino alla morte, risparmiando alcuni e graziando altri, dentro l’animo il tumulto dei pensieri e delle emozioni cresce fino a diventare incontenibile. Si affina la domanda, come un coltello che è costretto però a colpire nel vuoto, a vibrare colpi contro ignoti, perché la risposta sembra non venire e quando viene non convince.
Ecco in realtà cosa penso: non esiste «la» risposta al dolore che travolge, alla malattia che percuote e deforma la vita, a un evento devastatore che in pochi attimi ci rivolta come un calzino, alla morte di una persona cara; esiste invece la possibilità di «dare un senso» all’esistenza nonostante il non-senso di una situazione alla quale s

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017