Restaurare i muri e i cuori

Papa Francesco invita la Chiesa a uscire, ad andare verso le periferie geografiche ed esistenziali. Lì si scopre che fede, cultura e bellezza possono guarire le persone.
19 Giugno 2014 | di

Mai come ora si è parlato tanto di periferie. Papa Francesco ha invitato la Chiesa a uscire da se stessa e ad andare per le strade, verso le periferie. «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano» scrive il Papa nell’Evangelii Gaudium. E ancora: «Uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo».

Francesco, il Papa venuto dalla fine del mondo, è andato, concretamente, verso le periferie: si è recato in un’isola, Lampedusa, tra i migranti, e in Brasile. Qui non a caso ha visitato la favela di Varginha a Manguinhos, una delle zone più povere di Rio, e l’immagine della sua utilitaria incagliata tra la folla festante della città ha fatto il giro del mondo.

Il Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, intervenendo sul tema «Le parole del Papa» al Salone internazionale del Libro di Torino, ha detto: «“Camminare” e “andare” sono due parole con una frequenza di ripetizioni altissima, in particolare nei discorsi delle udienze, quando il Papa fa catechesi. La vita cristiana in papa Francesco, infatti, è essenzialmente un camminare, un andare, un “moto a luogo”. Subito si trovano i verbi, che sono conseguenza logica di quei primi due, “uscire”, “seguire”. L’“andare” per papa Francesco non è solamente un percorso interiore, ma è un andare anche fisico, verso quei luoghi e quelle situazioni esistenziali dove conviene andare, uscendo da se stessi non per sforzo ma perché attirati e portati dalla grazia di Cristo. Anche perché (come ha detto papa Francesco ai bambini nella sua prima visita da Papa in una parrocchia della periferia romana) “la realtà si capisce meglio non dal centro ma dalle periferie”». 

Il cardinale Parolin ha proseguito: «Secondo papa Francesco, l’ingiustizia e gli squilibri sono il vaso di Pandora di tutti i conflitti. E “quando la società (locale, nazionale o mondiale) abbandona nella periferia una parte di sé (ha scritto nella Evangelii Gaudium) non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità”». Il Segretario di Stato Vaticano ha osservato che le parole del Papa prefigurano, secondo molti, il profilo di una «città affidabile»: «La città abitabile è infine una proposta politica, perché impegna “al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace”».

Già da arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio si era interessato ai processi in atto nelle grandi aree urbane, proponendo l’immagine di Gesù che passa in città operando il bene di tutti.

Raffaele Luise, vaticanista e giornalista Rai, non a caso ha intitolato il suo libro su papa Francesco Con le periferie nel cuore (San Paolo). «L’invito del Papa ad andare verso le periferie – osserva Luise – ha una portata globale: riguarda tutto l’uomo e tutte le terre degli uomini, riguarda le periferie esistenziali. Come dice il Papa, la Chiesa è “ospedale da campo” di una guerra che è la condizione contemporanea di profonda infelicità, di povertà materiali e spirituali, crescenti. Anche i non credenti possono essere per certi aspetti “periferie”. Le periferie sono i movimenti degli immigrati e questi movimenti biblici che sono espressione di un Nord e di un Sud legati da rapporti di ineguaglianza crescenti».

La Chiesa, dunque, è sempre più «ispirata» dalle periferie, i poveri possono insegnare tanto «sull’umiltà e sulla fiducia in Dio».

Padre Giulio Albanese, comboniano, giornalista, esperto di temi legati all’Africa e al Sud del mondo (sui quali tiene anche una rubrica sulla nostra rivista), aggiunge su questo tema: «Dobbiamo smettere di vivere un cristianesimo algido, ingessato, pensando che tutto si esaurisca dentro le mura delle nostre chiese o degli oratori. Il campo di missione è l’agorà, la piazza, è il mondo fino ai “crocicchi delle strade”, fino agli estremi confini. Perché essere cattolici significa affermare la globalizzazione intelligente e perspicace di Dio. Papa Francesco ci dice che dobbiamo vivere un cristianesimo decentrato, in periferia, anche perché nostro Signore Gesù, duemila anni fa, iniziò la missione in Galilea, una terra di frontiera. Gesù Cristo inizia lì. In periferia c’è la manifestazione dei poveri, quello è il locus per eccellenza dove si incontra l’umanità dolente. Nel contesto della globalizzazione il rapporto Nord-Sud non è più semplicemente geografico (la vecchia Europa ricca e industrializzata e le Afriche abbandonate). Oggi questo rapporto Nord-Sud è presente nelle nostre stesse città, nelle nostre stesse nazioni».

A padre Giulio Albanese, autore del volume Alle periferie del mondo (Emi), chiediamo, quindi, che cosa ci sia di bello nella missione. «C’è un’esperienza dello Spirito. Quando sono partito – risponde – guardavo gli ugandesi come delle persone che avevano bisogno non solo della Parola di Dio, ma dei saperi del mondo occidentale. Quando uno sbarca da quelle parti si rende conto che è di fronte a un “mondo capovolto” e la prima constatazione è che lo Spirito Santo è arrivato prima di noi, nel senso che quelli che san Giustino definiva germi della Parola sono presenti in quelle culture prima ancora che arrivi il missionario. E, alla fine, se un missionario prova a fare un bilancio della sua esperienza, si rende conto che la missione non è solo dare, ma è anche ricevere e, paradossalmente, è molto più quello che uno riceve rispetto a ciò che uno ha preteso di dare.

Nel Nord Uganda – continua Albanese – la Chiesa è comunque ancora un piccolo gregge. È una Chiesa che ha sperimentato la passione di nostro Signore Gesù Cristo, perché quella è una zona dove la gente ancora oggi fa fatica a sbarcare il lunario, dove ci sono comunità cristiane che, grazie ai missionari e ai laici del posto, vivono un cristianesimo decentrato. C’è un impegno da parte dei laici, un senso di corresponsabilità, che dimostrano che la periferia è il locus della missione, perché lì c’è una maggiore percezione di quello che è l’impegno battesimale. Dobbiamo capire che la missione, l’annuncio e la testimonianza, avvengono per strada».
 
Napoli, Rione Sanità
Don Antonio Loffredo, parroco dal 2001 nel Rione Sanità e direttore delle catacombe di Napoli, ha raccontato nel bel libro Noi del Rione Sanità (Mondadori) la scommessa di un quartiere antico (luogo di nascita di Totò), ricco di arte e di storia, ma anche di problematiche sociali. Una sfida vinta, una rinascita dell’uomo a partire dalle pietre, in una zona centralissima di Napoli, ma rimasta «tagliata fuori». «È un’area – spiega don Antonio – che è restata isolata dal 1810 a causa di un ponte, quindi è una “periferia nel centro urbano”, con microcriminalità e degrado. Ci siamo guardati attorno e abbiamo cominciato a considerare il quartiere a partire dai beni storico-artistici. Abbiamo capito subito che questo poteva servire a guarire il cuore delle persone e a creare l’occupazione materiale dei ragazzi. Attraverso la bellezza, l’arte e la cultura, la gente si sta riappropriando del suo patrimonio artistico-culturale. E i giovani stanno sperimentando come il lavoro si moltiplichi, partendo dal bene storico-artistico. In Italia si dice che questo è il nostro “petrolio” perché ha delle ricadute economiche importanti, ma, secondo me, ancora prima è il petrolio perché fa crescere le persone. Io stesso resto stupito vedendo il cambiamento dei giovani: sono cresciuti come persone, attraverso i viaggi, la conoscenza delle radici, della storia».

Il lavoro di questi anni ha fatto uscire questa periferia dal ruolo in cui era stata relegata due secoli fa, per farla diventare anche un «luogo di traino».

Continua don Loffredo: «Abbiamo cominciato un lavoro sulle persone, attraverso il doposcuola, il teatro, la musica, ed è iniziato il recupero dei beni artistici abbandonati. È nata quindi la prima cooperativa, che si chiama La Paranza, e gestisce le catacombe di Napoli. Nel primo anno le visite sono aumentate del 300 per cento e ora i numeri continuano a crescere. Siamo tra il terzo e il quarto sito più visitato nella città di Napoli». Poi sono arrivate un’altra cooperativa, che si chiama l’Officina dei Talenti, per aiutare i ragazzi a inserirsi nel mondo del lavoro e moltissime altre attività, iniziative, sogni realizzati, che hanno veramente cambiato il volto del Rione. «Noi pensiamo – conclude don Antonio – che non esistano altre armi, se non quelle della cultura e della bellezza, capaci di intaccare il cuore dell’uomo. Il nostro ruolo è quello di stimolare i giovani a percorrere certe strade, perché dobbiamo insegnare loro a essere liberi e a vivere con dignità questo pezzetto di vita che il Signore nel tempo ci fa vivere».

E «bellezza», non a caso, è un’altra delle «parole chiave» del Papa, assieme a «bontà» e «verità». Una bellezza, prima di tutto, di occhi e di cuori, da cercare nelle periferie.
 
 

MAURO MAGATTI
Luoghi da valorizzare
 
Come sono le periferie e quali sono i loro punti di forza. Lo abbiamo chiesto a un attento osservatore della società, il professor Mauro Magatti, sociologo ed economista, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nonché curatore del volume della Caritas italiana La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane (Il Mulino).

Msa. Che cosa avete trovato nelle periferie che avete preso in esame?
Magatti. Nelle periferie abbiamo trovato un’umanità certamente ferita, ma non vinta. Abbiamo trovato donne, uomini, gruppi, comunità che vedono anche calpestati i propri diritti, ma spesso portatori di una grande intensità che non si trova in situazioni di maggior benessere. Il problema non è solo una questione economica, ma è l’esclusione, l’abbandono, la distanza, la mancanza di competenze.

Come si possono valorizzare e che cosa possono insegnarci?
Le periferie non sono solo luoghi di emarginazione, anche se delinquenza e degrado fanno spesso parte di queste aree urbane. Vi abitano persone che cercano di sopravvivere in una situazione sicuramente svantaggiata e, in genere, vi è anche una qualche forma di socialità, che può essere religiosa, oppure cooperativistica (una cooperativa che stimola e mette in rete le risorse umane che ci sono). E poi c’è sempre la scuola.  L’obiettivo dell’intervento in una periferia è quello di correggere le storture. Il modello cui ispirarsi non deve essere necessariamente quello del centro. È bene capire quali sono le risorse e come valorizzarle. La periferia può e deve essere anche un luogo di sperimentazione sociale ed economica.

Quante sono le persone che ci vivono?
L’Italia e l’Europa, in generale, sono sicuramente «messe meglio» rispetto ad altri Paesi, perché noi abbiamo una tradizione storica di cittadine medio-piccole. In Italia le grandi città sono veramente poche, quindi da noi il fenomeno è più contenuto, anche se una stima quantitativa esatta non c’è.

 
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017