Restituire il futuro

La protesta dei giovani in varie parti del globo è una richiesta di attenzione e di impegno al mondo adulto, che per primo ha perso i valori di riferimento, ipotecando il futuro delle nuove generazioni.
13 Gennaio 2011 | di

Come si può costruire speranza in questo 2011 appena incominciato? Quali risposte si possono dare ai giovani? Non sono certo interrogativi facili, né tanto meno esauribili nello spazio di un articolo. In tutto il mondo, forse soprattutto nei Paesi ricchi, proprio i giovani hanno sempre più forte la percezione di essere derubati del futuro, di pagare errori dei quali non sono responsabili, di essere sacrificati all’impotenza – o forse all’incuria miope e autoassolutoria – di classi dirigenti che non sanno dare loro risposte e, spesso, neppure ascolto e attenzione.
Da almeno un paio d’anni a questa parte, infatti, tutte le classi dirigenti invocano, a giustificazione di fallimenti e di promesse non mantenute, l’alibi della cosiddetta crisi globale, creata proprio da quel mercato al quale si continua ad attribuire la presunta esclusiva capacità di produrre ricchezza. Ma globale significa di tutti. E non è così. All’impoverimento dei più continua a corrispondere la crescita sfacciata della ricchezza depredatoria di pochi. E questa depredazione non distrugge solo le risorse di oggi, ma anche quelle di domani, basti pensare alle devastazioni dell’ambiente.
In tutto questo, un ruolo rilevante ha proprio la questione dei giovani. Stiamo rubando la loro eredità, stiamo assassinando il futuro. Si allarga sempre più la cosiddetta generazione Neet (Not in Education, Employment or Training),  quella di giovani che non studiano e non lavorano. I dati più recenti diffusi dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) dicono che nei Paesi aderenti (quelli più ricchi) l’economia globale si sta riprendendo, ma che l’occupazione giovanile sta andando peggio: i giovani hanno più del doppio delle possibilità di trovarsi senza lavoro rispetto agli altri. Nell’area Ocse ci sono tre milioni e mezzo di giovani disoccupati in più e almeno 16,7 milioni si trovano appunto nel cosiddetto gruppo Neet. Tra questi ultimi, almeno dieci milioni hanno smesso di cercare un lavoro. Cioè hanno smesso di battersi per il loro futuro, hanno subito e subiranno il peso di un’esclusione di lungo termine.
Un nuovo Sessantotto?
I mesi dell’autunno e dell’inverno hanno visto in diversi Paesi europei, ma anche in altri continenti, le proteste dei giovani, studenti e disoccupati, sommate a quelle di tante categorie disagiate, crescere esponenzialmente dalle forme legittime, e non poche volte creative,  all’asprezza di un dissenso al quali alcuni gruppi – certo estremisti, ma non necessariamente estranei al sentire comune dei giovani – hanno dato l’impronta della  violenza. Non è la prima volta che accade, ma stavolta non sembra quella sorta di liturgia identitaria che ogni anno porta a occupazioni di scuole e università , ma una critica di sistema che ricorda quella del Sessantotto.
Si usano oggi – spesso in modo pappagallesco – formule roboanti come «valori irrinunciabili»  o «condanna della violenza senza se e senza ma». Magari è giusto. Lo è però solo come conclusione di comportamenti coerenti, non come pregiudiziale generica. Noi adulti spesso vi ricorriamo in modo acritico, senza partecipazione convinta. Certo è più facile parlare di minoranze violente che vedere i fatti reali: tasse universitarie triplicate, come in Gran Bretagna, borse di studio pressoché cancellate, come in Italia, precariato sempre più diffuso ovunque, cultura mortificata, lavoro sacrificato all’idolo del mercato, speranza di futuro sempre più flebile.
Sì: noi adulti sembriamo spesso ignorare il grido dei nostri figli, così come noi Nord ricco del mondo ignoriamo con pervicacia il grido dei poveri, forse per la vergogna di aver apparecchiato loro una mensa più povera e più devastata di quella toccata a noi.  Negli incartamenti degli ergastolani c’è scritta una frase atroce: «Fine pena mai». La nostra epoca ha fatto della disoccupazione un ergastolo per milioni di nostri figli. E loro lo sanno.  Così come sanno che le loro famiglie sono sempre meno in condizione di proteggerli. Per quanto riguarda l’Italia, più di un adolescente su quattro dichiara che la propria famiglia è  stata colpita dalla crisi economica e un bambino su cinque afferma che la sua famiglia ha difficoltà  ad arrivare alla fine del mese, come emerge da un’indagine diffusa dall’Eurispes e da Telefono Azzurro alla fine del 2010.
E  allora, invece che stracciarsi le vesti, forse è il caso di rimettere al primo posto, della politica e dell’economia, proprio la famiglia, i giovani e il lavoro. Invece che passare e ripassare per ore in televisione le immagini di cortei sfociati in battaglie, sarebbe il caso di chiedere conto a quanti hanno le leve del potere se davvero si possono considerare i giovani, gli studenti, i disoccupati, come voci di bilancio. Del resto, che cosa possono fare questi giovani se non ribellarsi ai tagli indiscriminati che colpiscono la ricerca, la scuola, la formazione e il lavoro, cioè il loro futuro? 
Invece che invocare competizioni o esaltare presunte meritocrazie, sarebbe il caso di denunciare quei populismi che hanno smontato il patto sociale, quello fondato sul lavoro e soprattutto quello tra generazioni. Vale per tutti, ma vale soprattutto per quanti si dicono cristiani. Perché derubare i giovani della speranza è una delle forme più perniciose del dare loro scandalo. Costruire speranza è anche e soprattutto non derubare i giovani del loro entusiasmo. Perché diventare adulti non significa rinunciare a quell’entusiasmo, ma imparare a esprimerlo nella fatica del quotidiano, nelle esperienze  ripetitive, se non banali, oltre che nelle occasioni straordinarie. Significa affiancare alla forza delle motivazioni la costanza, l’impegno, la pazienza, o meglio la fiducia di avere sia il tempo sia le  prospettive.
Gesù aveva trent’anni
La risposta, se tale può essere definita, del mondo degli adulti di oggi oscilla tra contrapposti luoghi comuni, quali la presunta assenza di valori e di progetti nel mondo giovanile o, al contrario, l’altrettanto scontata adesione a una sorta di primato del «giovanilismo».  Da un lato si accusano i giovani di non farsi protagonisti della propria vita. Dall’altro si frustrano, con pensosi e talora tronfi richiami a un supposto  buonsenso, quelle che vengono definite velleità o utopie dei giovani stessi.
Il mondo cattolico – quello degli adulti – in questo senso non fa eccezione. I giovani vengono visti più come terminali di una catechesi specifica che come protagonisti dell’evangelizzazione del loro tempo e della loro concreta esperienza storica. Si tende a dimenticare spesso che il cristianesimo stesso è giovane nella sua essenza e nei suoi principali protagonisti. Maria era una fanciulla quando accettò di cambiare la sua storia personale e quella dell’umanità, con quel fiat senza logica, senza buon senso, ispirato solo da fiducia e da amore. Era  poco più che un ragazzo Francesco, quando scelse  una radicalità folle agli occhi del mondo, eppure in grado di prendere il mondo per mano. Lo stesso Gesù aveva appena trent’anni quando percorreva le strade di Galilea, di Giudea e di Samaria.  Gli esempi non sono certo scelti a caso: proprio i giovani e le donne sono le due macrocategorie più vaste dell’umanità (non tutto il mondo ha il progressivo invecchiamento di popolazione al quale è soggetto l’Occidente), ma al tempo stesso quelle meno rappresentate nei processi decisionali.
Ed è tempo di cambiare, tempo di restituire diritti, di alimentare speranza.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017