Ricercatori, un sogno da mille euro
Giovani, bravi, eppur precari. Tutti con un solo grande sogno: potersi dedicare a tempo pieno allo studio e alla ricerca. Sono circa 90 mila i ricercatori italiani. E sono sul piede di guerra. La loro protesta è iniziata a giugno 2008: un primo blocco delle lezioni (l’attività didattica non è un obbligo per i ricercatori che però, di fatto, la svolgono in tutti gli atenei) è stato annunciato lo scorso aprile e non va meglio in questo autunno «caldo» di cortei in piazza, sit-in, blocco delle attività accademiche, ma anche proposte per una riforma dell’università che parta dal basso. Lo scorso luglio le loro rivendicazioni sono finite su «Nature», uno dei più prestigiosi periodici internazionali dedicati alla scienza e alla ricerca. Solo che stavolta i ricercatori italiani non sono stati citati per la scoperta di nuove cure contro il cancro o per importanti novità nel campo della genetica, ma perché nell’arco degli ultimi mesi hanno dato vita a un movimento che vuole opporsi alla «graduale cancellazione della ricerca pubblica».
Ma chi, e quanti sono i ricercatori? E, soprattutto, che cosa pretendono – si chiede più di qualcuno – in un momento di grave crisi, con famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese? Secondo una stima pubblicata dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, i ricercatori precari sono tra i 60 e i 70 mila, mentre quelli strutturati, vale a dire assunti in università con un contratto a tempo indeterminato, 24.075. Per riuscire a comprendere meglio le ragioni di un disagio diffuso e della fuga all’estero di tanti talenti nostrani, basta dare un’occhiata alle retribuzioni. Partiamo dal dottorato di ricerca, ossia dal percorso formativo più alto e specializzato del sistema universitario, al quale i neolaureati accedono per concorso nazionale: i circa 25 mila dottorandi ricevono una borsa di studio che dovrebbe assicurare autonomia economica per dedicarsi a tempo pieno a studio e ricerca. L’assegno mensile è di circa mille euro. Tutti gli altri, vale a dire i «senza borsa», non solo non percepiscono nulla, ma devono pure pagare le tasse di iscrizione che possono arrivare anche a 2 mila euro. Vediamo, invece, gli strutturati. A inizio carriera la retribuzione di un ricercatore è di 1.200 euro, che diventano 2.200 con 15 anni di anzianità. Un termine immediato di confronto su quanto «pesa», anche in fatto di retribuzione, la ricerca nel nostro Paese arriva, per citare un esempio, dal contratto nazionale dei lavoratori domestici: il minimo retributivo per un dipendente di fascia B (collaboratore generico polifunzionale) è di 5 euro l’ora per 40 ore la settimana, ossia 800 euro al mese. Poco meno di quanto percepisce un dottorando che, però, ha almeno 18-20 anni di studio alle spalle.
«In Italia più che in altri Paesi, purtroppo, si investe molto poco nella ricerca – spiega Silvia Gross, ricercatrice del Cnr dell’Istm Padova (Istituto scienze e tecnologie molecolari) presso il dipartimento di Scienze Chimiche –. Benché vi siano alcune eccezioni, come l’Università di Padova (nel senso che qui la situazione di lavoro è ottimale), in genere non vengono create, per mancanza di fondi o di volontà, quelle condizioni (spazi, finanziamenti, personale) che garantirebbero a un giovane ricercatore di lavorare in modo sereno e proficuo. Durante i miei studi, e anche in seguito, ho trascorso vari periodi all’estero nelle Università di Gottinga e Stoccarda in Germania, di Vienna in Austria, di Versailles in Francia, e ho sempre verificato come lavorare in strutture con fondi, strumentazione e personale adeguati, faccia un’immensa differenza». La disparità degli investimenti in ricerca tra l’Italia e gli altri Paesi europei è abissale. Da noi la media dei finanziamenti pubblici-privati è di appena l’1,10 per cento del Pil, a fronte di un 1,84 europeo che diventa 2,68 negli Stati Uniti e addirittura 3,18 in Giappone. Se poi si considerano solo i finanziamenti pubblici, in Italia si scende a un misero 0,9 per cento.
Un Paese difficile per i giovani
A questi scarsi investimenti si aggiunge anche una «gerontocrazia» diffusa, e non solo in ambiente universitario. In Italia i professori associati e ordinari sono 36.566: la metà è destinata alla pensione nei prossimi cinque anni. «Abbiamo la classe docente più vecchia di tutti i Paesi industrializzati – spiega Alessandro Rosina, professore associato di Demografia nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano –. Il numero dei docenti over sessanta è enormemente più alto rispetto agli altri Paesi, così come è più basso quello degli under quaranta. Le percentuali parlano chiaro: i professori con più di sessant’anni sono il 24 per cento, vale a dire 1 su 4; in Francia, invece, rappresentano solo l’11 per cento e in Gran Bretagna appena l’8. Se poi parliamo dei professori ordinari, in Italia la percentuale sale al 46,5 per cento. La “gerontocrazia” che esiste nel mondo accademico riflette quella della classe dirigente italiana, la cui età media nel 1990 era di 51 anni e oggi, nel 2010, di 62. E invece il fatto di avere professori con una prossimità generazionale sarebbe importante per gli studenti: vivrebbero così l’università non solo come “esamificio”, ma anche come ambito nel quale acquisire gli strumenti per decifrare la realtà che cambia». Emblematica la storia dello stesso Rosina. «Vengo da un paesino del Veneto. I miei genitori hanno fatto solo le scuole dell’obbligo. Siamo in quattro fratelli. Ho studiato e lavorato per anni. Dopo la laurea, ho vinto un concorso come ricercatore. Ma il concorso è stato annullato perché non aveva vinto il candidato interno. In seguito mi sono classificato al primo posto in un altro concorso all’Istat. Da lì, inizia la mia storia».
La «mobilità intragenerazionale», ossia la probabilità di fare carriera partendo da un livello molto basso, ha coefficienti davvero ridotti nel nostro Paese: negli Stati Uniti ce la fa il 12,8 per cento, in Francia l’11 per cento, in Inghilterra il 10,6 per cento, in Italia appena il 3,3 per cento. La laurea, insomma, oggi non è più garanzia di occupazione e tanto meno di un posto di lavoro con una retribuzione adeguata al curriculum di studi.
Sono tanti i cervelli in fuga, ricercatori o giovani laureati, che hanno deciso di lasciare l’Italia per ottenere stipendi più alti o per riuscire a dedicarsi appieno alla professione. Ma c’è pure chi – e non sono pochi – ha scelto di rientrare. Francesca Coin, ricercatrice del Dipartimento di Storia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stata per sette anni negli Stati Uniti. «Sono rientrata in Italia nel 2008. Ho partecipato subito a un concorso con altri sei colleghi. Due di noi avevano trent’anni, gli altri ne avevano più di quaranta. Parlavano di famiglia e di figli, di bollette, di una passione messa a dura prova dalla precarietà e dalla svalutazione del sapere. In America, nel mio dipartimento c’erano molte donne e tra le cose che venivano valutate nel reclutamento di nuovi docenti c’era l’età del candidato. Ricordo che al mio arrivo negli Stati Uniti, come studente di dottorato al primo anno, ho trovato ad attendermi all’aeroporto il direttore del dipartimento. Mi ha ospitata a casa sua per circa un mese. Amava gli studenti, perché credeva rappresentassero il futuro e voleva che fossimo tutti nelle condizioni migliori per lavorare».
«Arrivederci Italia»
Francesca è una dei ricercatori della «Rete 29 Aprile», in prima linea nella protesta culminata in una serie di richieste presentate al ministro Gelmini. Sul tavolo, il disegno di legge sulla riforma universitaria che, prima di essere convertito in legge, dovrà trovare le adeguate coperture finanziare. «Abbiamo raccolto un’adesione trasversale: ricercatori, studenti, rappresentanti del mondo accademico e qualche politico – aggiunge Alex Ferretti, 41 anni, ricercatore che fa la spola tra il dipartimento di Fisica sperimentale di Torino e il Cern di Ginevra –. Per due ragioni. La prima è che in tutti traspare la stessa difficoltà, il senso di impotenza e mortificazione di una generazione che non ha spazi. La seconda è che non ci siamo limitati alla protesta, a un “no” senza proposte, ma abbiamo presentato delle linee guida al ddl per una riforma reale».
Della fuga di cervelli dal nostro Paese si è occupato anche «Time», in un articolo del 18 ottobre scorso intitolato in italiano: «Arrivederci, Italia». La rivista americana spiega come «a spingere tanti giovani a partire siano motivi non tanto diversi da quelli che hanno provocato l’ondata di emigranti andati a cercare la loro fortuna un secolo fa». Ma «Time» evidenzia anche le differenze rispetto a quell’epoca: «Invece che i contadini e i lavoratori manuali che affollavano le navi a vapore dirette a New York, l’Italia sta perdendo i suoi giovani migliori e più intelligenti, per un decennio di stagnazione economica, un mercato del lavoro congelato e un sistema arroccato di clientelismo e nepotismo». E aggiunge: «Per molti giovani con talento e istruzione sopra la media, la terra dell’opportunità è dovunque, tranne che in patria». L’articolo, a firma di Stephan Faris, esordisce con la lettera aperta scritta un anno fa, precisamente il 30 novembre 2009, da Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss, al figlio studente universitario: «Figlio mio, stai per finire la tua università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio». Abbiamo chiesto al direttore della Luiss se oggi, a un anno di distanza, la riscriverebbe. «Quella lettera – spiega Celli – è stata importante perché ha posto un tema allora trascurato, del quale adesso tutti parlano. Mio figlio? È stato un periodo all’estero e ora è tornato in Italia per lavorare e completare la tesi. Farà autonomamente quello che gli sembrerà più onorevole per la sua dignità».
Tra le cause di «fuga dei cervelli» va annoverata anche la mancanza di valutazione, a più livelli, del «merito». La stessa «mancanza dei valori della meritocrazia» è anche la causa del declino dell’economia italiana e della carenza di equità. A esserne convinto è Roger Abravanel, manager italiano, autore di Meritocrazia: Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro Paese più ricco e più giusto (Garzanti, 2008). L’Italia, scrive Abravanel, ha un gap (divario) tra ricchi e poveri analogo agli Stati Uniti, però non ha la mobilità sociale americana. «La società italiana si è spaccata in due sui tagli alla spesa per scuola e università – spiega –, ma il vero problema è la mancanza di equità e di eccellenza, non il costo. In tutte le società avanzate il sistema educativo è la leva essenziale della mobilità sociale».
Sullo stato della ricerca e dei ricercatori è intervenuto anche il premio Nobel Renato Dulbecco. «Non c’è una soluzione ovvia alla “fuga dei cervelli” – ha affermato –. Credo si debba, ad esempio, aprire le porte anche ai ricercatori stranieri: l’importante è che si tratti di menti che si dedicano alla sacra conquista della verità». Un invito che non è caduto nel vuoto: anche nel nostro Paese, infatti, c’è chi l’ha già preso alla lettera. Klaus Müller, tedesco della Foresta Nera, formatosi tra Friburgo, Stoccarda e l’Istituto Weizmann in Israele, già professore all’Università di Stoccarda, nel 2008 ha deciso di venire in Italia, per vivere e, soprattutto, per lavorare. Oggi insegna a Trento, al dipartimento di Ingegneria dei materiali e tecnologie industriali della facoltà di Ingegneria. «Quello che mi colpisce dell’Italia – spiega Müller – è come i ricercatori, nonostante fondi e risorse limitati, riescano a fare della ricerca di alto livello e a produrre ottime pubblicazioni».
«L’Italia ha grandi talenti e creatività, ma mancano le opportunità per i giovani che hanno idee per fare ricerca, e che di fatto non possono farla» ha affermato di recente il professor Mario Capecchi, veronese naturalizzato statunitense, premio Nobel per la Medicina nel 2007.
Parole così commentate, ai microfoni di Radio 24, da Dulbecco: «Per fare ricerca non basta solo l’entusiasmo: servono conoscenze, attrezzature e l’ambiente giusto. Senza tutto ciò non si può fare ricerca. Sono cose che non si improvvisano. I giovani devono poter fornire un contributo fondamentale in qualsiasi campo dell’attività umana. Il giovane ha le idee, e le può sviluppare. Ciò è la base della ricerca».