In ricordo di Giovanni Paolo I

Un papa di campagna Grande amico del «Messaggero», vi collaborò per alcuni anni scrivendo sorpredenti lettere a «illustrissimi» del passato.
07 Settembre 1998 | di

Estate tormentata quella di vent'anni fa per il mondo cattolico. Il 17 agosto, mentre gli italiani in vacanza tentavano di smaltire una stagione violenta che aveva avuto a maggio, con l'uccisione dello statista democristiano Aldo Moro, il momento più drammatico, moriva Paolo VI.

A succedergli venne inaspettatamente eletto, il 27 dello stesso mese, il patriarca di Venezia Albino Luciani. Per noi del «Messaggero» all'iniziale sorpresa seguì la gioia più intensa: per alcuni anni il patriarca era stato collaboratore della nostra rivista, nella quale scrisse insolite lettere a «illustrissimi» del passato, sugli eterni problemi dell'uomo. Lettere curiose che destarono meraviglia per il loro stile, più laico che curiale, per la vasta cultura che il cardinale sfoggiava citando con disinvoltura brani di Bibbia e sonetti di Trilussa, interpellando con eguale competenza e simpatia autori laici come Charles Dickens, Wolfgang Goethe, Mark Twain, Gioacchino Belli... e santi del calibro di Francesco di Sales, Teresa di Lisieux, Bernardo, Teresa d'Avila... Meraviglia relativa, invece, per chi lo conosceva bene: Albino Luciani confessava (anche a noi) di sentirsi addosso più la stoffa dello studioso che dell'uomo di comando, di trovarsi più a suo agio tra libri e biblioteche che nelle questioni sindacali, nelle quali era spesso chiamato a intervenire.

Sul soglio di Pietro Giovanni Paolo I durò pochissimo, trentatré giorni appena, ma furono giornate intense, contrassegnate da uno stile insolito di fare il papa, più da buon parroco di campagna che da sommo pontefice. Memorabili le semplici, esemplari lezioni di catechismo recitate nelle udienze del mercoledì, con i bambini che gli sedevano accanto: in una di esse, con sorpresa generale, affermò che Dio è anche madre. Luciani aveva portato in Vaticano quel suo stile dimesso, che da vescovo gli aveva fatto scegliere un apostolato fatto di attenzione ai poveri, ai malati, ai lavoratori e di impegno nel rilanciare, con linguaggio semplice e colorito (e le lettere del «Messaggero» ne erano un esempio), i principi della fede e della morale cattolica in un momento di confusione alimentata anche dalla contestazione.

Poi, il mattino del 28 settembre i giornaliradio davano l'incredibile notizia: nella notte un infarto aveva ucciso il papa. Al «Messaggero» ci stavamo preparando con grande euforia all'udienza particolare che il papa ci aveva promesso, per rinsaldare i vincoli di stima e di amicizia che ci rendevano orgogliosi. La bella favola, invece, finì presto. E in modo così inatteso che ci fu chi rievocò spettri del passato, inventando una congiura di cardinali e altri prelati del sottobosco vaticano, i quali gli avrebbero somministrato una letale pozione di veleno. Motivo? Papa Luciani avrebbe manifestato l'intenzione di togliere il coperchio a pentole dove gorgogliavano affari poco puliti di cui si stava in quei giorni occupando la magistratura... Fantasie di giornalisti e scrittori in cerca di pubblicità . Di fatto Albino Luciani, uomo mite e schivo, si spaventò da morire di fronte alla logica e ai giochi di certi settori della curia vaticana, che egli intendeva riformare, ma davanti alla cui potenza forse si era sentito spiazzato... E il cuore un po' malandato non resse.

Giovanni Paolo I visse e morì da santo. Vogliamo qui ricordarlo anzitutto come collaboratore della nostra rivista, riportando alcuni brani delle sue famose lettere, espressione di un magistero che Igino Giordani, nella prefazione al volume che le raccoglie: Illustrissimi (Edizioni Messaggero Padova), definisce «nuovo, attraente e suadente, fatto per tutti, dotti e indotti, vicini e lontani; così come per tutti sono fatti l'aria, l'acqua, la terra, insieme col cielo e con la religione».

Le lettere agli «illustrissimi»

Il patriarca fu più volte coinvolto nei problemi dei lavoratori, quelli del polo chimico di Marghera in particolare. Ricordò gli operai proprio nella prima lettera a Charles Dickens, autore di libri «tutti pervasi - annota Luciani stesso - da un senso di amore ai poveri e di rigenerazione sociale», rigenerazione che i lavoratori in parte hanno raggiunto associandosi. «L'unione dei lavoratori per la difesa dei propri diritti - scrive il patriarca - fu dapprima dichiarata illegale, poi tollerata, poi riconosciuta giuridicamente. Lo stato dapprima fu 'stato carabiniere', dichiarò il contratto di lavoro affare del tutto privato, proibì i contratti di lavoro collettivi; il padrone teneva il coltello per il manico; imperava senza freni la 'libera concorrenza'. 'Due padroni corrono dietro a un operaio? Il salario dell'operaio crescerà . Due operai tirano per la giacca un padrone? Il salario calerà '. Questa è la legge, si diceva, tale, che porta automaticamente all'equilibrio delle forze! Invece portava agli abusi di un capitalismo, che fu, e di certi casi ancora è, 'sistema nefasto'».

Scrivendo ad Andreas Hofer, grande cristiano ed eroe dell'indipendenza e dell'unità  del Tirolo contro gli invasori di turno, il patriarca pensa al miracolo che la fede ha compiuto in quel popolo, e scrive: «Vorrei che il vostro eroismo, gentile e cristiano insieme, ispirasse qualcuno. Intendiamoci: non auspico nessuna guerriglia; sono convinto che, specialmente nell'Italia democratica, non ce ne sarà  bisogno. Ma la vostra fede cristiana, tutta d'un pezzo, la compattezza di popolo, che, con Haspinger (un frate cappuccino, compagno di battaglie), avete saputo realizzare nell'ora del pericolo, queste sì le desidererei con tutto il cuore». Oggi la fede nella gente è messa in discussione da tanti «chissà » e tanti «perché» che non erano allora pane per i tirolesi. «Lassù, nella modesta trattoria che voi gestivate, essi giocavano, bevevano, si divertivano, discutevano. Ma tornati alle loro case, recitavano le preghiere della sera con la famiglia; andavano alla messa domenicale; usavano sostare sulla tomba dei loro morti nel piccolo cimitero tutto stretto attorno alla chiesa. L'ambiente, le pie tradizioni, il tempo disponibile favorivano la riflessione...».

Riflessione in parte negata agli uomini del nostro tempo, travolti da un ritmo frenetico di vita, questa forse - sostiene il patriarca - è la causa del tentennare di parecchi, che li rende deboli e facilmente vittime di un sistema di informazione che, abilmente manipolato da qualche furbone, si serve della menzogna per far apparire, per i loro fini, bianco dov'è nero e viceversa. Lo scrive a Cicikov, grottesco personaggio de Le anime morte di Gogol e re delle bugie. «Le bugie vostre - commenta il patriarca - con relativi sorrisi e complimenti seducenti, Cicikov, possono oggi essere potenziate al mille per uno e diventare bugia corale, nazionale, internazionale e cosmica, facendo del nostro il 'tempo per eccellenza degli impostori'... C'è di più. Attraverso la stampa, la radio, la televisione, non si viene a contatto con i fatti in sé, ma con la versione dei fati, interpretati da diversi in modo diverso. E allora si insinua nelle menti l'idea perniciosa che non si può arrivare mai alla verità , ma solo all'opinione. 'Una volta c'erano certezze - si dice - adesso non siamo più nell'era della credenza, ma dell'opinabile'».

Mancanza di certezze che rende gli uomini instabili, incapaci di avere idee proprie e pronti a intrupparsi in qualche gruppo per mettersi al riparo. Scrivendo ai personaggi del Circolo Pickwick di Dickens, dice: «Prendete il partito, la classe, il paese: si va a rischio di abbracciare quella data idea non perché la si è riconosciuta vera, ma perché è l'idea del gruppo, del partito. Gli errori del razzismo, del nazionalismo, del campanilismo, dell'imperialismo, abbracciati da milioni di persone, vengono da qui».

Con Carlo Goldoni, il grande commediografo veneziano, parla invece di donne, per concludere sull'aborto. Le donne, che i quattro rusteghi vorrebbero loro soggette («Che le staga in casa, che non le veda nissun, che no le sappia gnente») e che con la loro intraprendenza riescono a far valere le loro brave ragioni, sono le antesignane di un femminismo che ha portato a tante conquiste positive, come il diritto allo studio, al lavoro, alla pari opportunità , ma anche ad altre presunte tali che sanno di sconfitta, come il diritto a vivere la propria sessualità  non solo nell'ambito del matrimonio, della famiglia e in vista di una famiglia, e senza essere limitato dal senso del peccato. A questo proposito il cardinale citava il pensiero di una deputatessa che annoverava la liberalizzazione dell'aborto tra i segni della promozione della donna. Goldoni non era un bigotto e le sue donne non erano santarelline, però «era inaudito che l'esercizio di una sessualità  femminile extrafamiliare venisse reclamato come diritto a nome di tutte le donne, sotto gli occhi di tutti e senza reticenze. Inaudito anche che il peccato passasse come pura invenzione del 'potere' per far rigare dritta la gente e togliere la libertà »; e che se peccavano, le sue donne «ammettevano quasi tutte che, fuori di noi, un Dio - a nostro e non a suo vantaggio - poteva mettere leggi alle azioni umane».

E l'aborto? Sarà  vera promozione? Risponde Luciani: «Inchieste di medici giapponesi, inglesi e ungheresi su aborti, pur eseguiti sotto il patrocinio della legge e in cliniche specializzate, rivelano che tali aborti sono sempre un trauma per la salute della donna, per i parti e i figli successivi. Psicologi e psichiatri, a loro volta, segnalano altre cattive conseguenze: queste, dicono, magari sonnecchiano abitualmente nel subcosciente della donna che ha abortito, ma riemergono in seguito in tempo di crisi. Non parliamo dell'aspetto morale: l'aborto, oltre che violare le leggi di Dio, va contro le aspirazioni più profonde della donna, turbandola fortemente».

Con Trilussa, poi, parla di fede, un banchetto del quale il patriarca cerca di «approfittarne tutti i giorni, rimettendo in piedi oggi la vita di fede buttata giù coi peccati di ieri».

In un carteggio con san Bernardo, abate di Chiaravalle parla della prudenza nel governare e dà  qualche buon consiglio utile ai chi ci comanda. Stavolta è san Bernardo a scrivere al patriarca: «Un successo apparente, anche clamoroso, è in realtà  un insuccesso se raggiunto calpestando la verità , la giustizia, la carità . Chi è sopra è al servizio di chi è sotto... Quanto maggiore è la responsabilità , tanto più grande è il bisogno di essere aiutati da Dio».

Ai giovani, infine, allora affascinati dagli ideali e facili alla contestazione, oggi confusi per la mancanza di valori, suggerisce di guardare a Cristo e lo fa inviando una lettera a Figaro, barbiere di Siviglia e con la fregola della rivoluzione: «Vogliono la fraternità ? Cristo ha detto: voi siete tutti fratelli! Hanno sete di autenticità ? Cristo ha bollato con forza ogni ipocrisia. Sono contro l'autoritarismo, il dispotismo? Cristo ha detto che l'autorità  è servizio. Contrastano il formalismo? Cristo ha contestato le preghiere recitate solo meccanicamente, l'elemosina fatta per farsi vedere, la carità  interessata. Vogliono la libertà  religiosa? Cristo, da una parte ha voluto che 'tutti gli uomini... giungessero alla conoscenza della verità ', dall'altra non ha imposto nulla con la forza, non ha impedito la propaganda contraria, ha permesso l'abbandono degli apostoli, il rinnegamento di Pietro, il dubbio di Tommaso. Ha chiesto e chiede di essere accettato e come uomo e come Dio, è vero, ma non prima che avessimo controllato e visto che egli era da accettare, non senza una scelta libera!». l

Papa Luciani racconta. Esempi e aneddoti narrati da Giovanni Paolo I, a cura di Francesco Taffarel, Edizioni Messaggero Padova, pagine 288, lire 25.000. È una raccolta di esempi e fatterelli che Albino Luciani raccontava quando parlava e scriveva per rendere più chiaro il messaggio e più accattivante il discorso. Pagine fresche, semplici, di facile e piacevole lettura.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017