14 Aprile 2016

Rinascere aragosta

In una società che trasforma i single in animali, un uomo si ribella al sistema, salvo poi innamorarsi di una fuggitiva come lui. In «The lobster» morale familiare ed etica procreativa si fondono con il tema della manipolazione dei corpi

Anche il cinema si occupa dello strano fenomeno sociale per cui le tradizionali coppie eterosessuali hanno un basso indice di natalità nei Paesi occidentali, e per cui, invece, il diritto ad avere figli (per adozione o in provetta) è fortemente rivendicato da figure alternative di famiglia: coppie omosessuali, single, soggetti con incerta identità di genere. Sembra che il figlio costituisca una buona causa, un motivo convincente per cui spendere incondizionatamente la propria vita, la quale altrimenti mancherebbe di un senso e soffrirebbe di un vuoto disperante. E tuttavia, quando i figli si possono avere «naturalmente », non ci si sente abbastanza pronti, maturi, idonei, insomma non ci si sente autorizzati a una decisione così alta come quella di procreare, cioè addirittura di partecipare al gesto creatore di Dio.

In effetti, nella scelta di diventare papà e mamma entra in crisi un modo sperimentale di guardare alla vita: mezze decisioni, prove incredule, tentativi provvisori, cedimenti alla moda, pigri compiacimenti. Si possono rinegoziare contratti, annullare matrimoni, cambiare mestieri logoranti e abitudini noiose, ma la promessa di cura, dichiarata a un bambino, non è dissolubile. Tu starai con lui, come padre o madre, chiunque egli sia, dovunque ti porti, qualunque problema sorgerà. Questo patto irrevocabile ricorda la testarda, esigente fedeltà del Dio d’Israele al suo popolo, anche in condizioni d’esilio, nonostante l’infedeltà idolatrica e in opposizione alla deriva farisaica che pretendeva d’immunizzare il cuore, congelando l’appassionata riconoscenza dietro l’ossequio scrupoloso di regole esteriori.

L’obbedienza al figlio, la dedizione a una vita, a quella vita che il grembo di madre riceve senza merito, come una gradita benedizione, dimostra quanto fuorviante sia l’enfatica retorica dell’autorealizzazione. Da soli non ci si realizza affatto. L’altro è «dentro» di noi, come colui grazie al quale cerchiamo noi stessi, come l’alleato di cui abbiamo bisogno, perché ci desidera, ci racconta di noi, ci restituisce lo sguardo e così ci autorizza a volere, assieme a lui, una giustizia di cui non vedremo il compimento. Una giustizia, però, che già da ora merita il nostro credito. La promessa che si scambiano gli sposi è, fin dall’inizio, una decisione in merito al figlio, in merito al cominciamento arcano e al destino trascendente di un’attrazione che li ha sorpresi e che si apre alla generazione.

Unione o reincarnazione

Verso quale mondo familiare stiamo andando? The lobster (GR, GB, IRL, NL, FR 2015) di Yorgos Lanthimos ha trasformato il diritto in un dovere. La società del futuro obbliga ad avere un partner affiatato. Ci sono quarantacinque giorni di tempo, raggiunta una certa età, per scovare il compagno giusto, senza distinzioni di sesso. I single devono portarsi fuori dalla città, vengono alloggiati in un grande hotel, interrogati sulle preferenze personali, spogliati e rivestiti con abiti uguali. Se nasce qualcosa di più di un’amicizia, si passa alla camera matrimoniale e poi allo yacht del fidanzamento, sempre sotto controllo dei monitor. In caso di fallimento, si viene trasformati in animali (la specie è a discrezione dell’individuo) e si scivola indietro nella scala evolutiva, come in una reincarnazione degradante. Coloro che si ribellano vivono nella foresta che circonda l’albergo. So- no come i «selvaggi» del romanzo Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932), dove un governatore pretende che tutti i cittadini siano felici, ordinati e produttivi, ma qualcuno alza le spalle e cerca un posto di libertà in cui vivere fuori dal controllo soffocante dell’organizzazione. Ogni giorno gli ospiti civilizzati di The lobster danno la caccia ai fuoriusciti con fucili anestetizzanti. Per ogni preda acciuffata viene concesso qualche giorno in più, un’altra chance coniugale. In inglese lobstersignifica «aragosta»: animale longevo, aristocratico e fertile. Scudo robusto e lunghe antenne che cercano il mare. Il protagonista, David, vuol essere trasformato in aragosta, se resterà da solo. Ma un’imprevista attrazione sorge tra lui e una bella ragazza miope, e si farà strada a prezzo di un sacrificio durissimo, forse folle.

La grottesca società del futuro è dipinta con colori freddi, inquieti, allusivi. È una comunità attanagliata dalla paura: paura di accoppiarsi, paura di non accoppiarsi e restare da soli, paura dei figli, paura di essere feriti nella privacy,paura di essere traditi. I metodi educativi sono violenti e falsi. La città ha bisogno di coppie stabili e ha programmato un istituto di riabilitazione minaccioso e assieme ridicolo. È la caricatura della famiglia combinata, frutto di pressioni economiche, obiettivi industriali ed esigenze di ordine pubblico. I corpi diventano macchine impersonali, i sentimenti si spengono, la curiosità esplorativa è soffocata. Gli individui sono funzionali a un sistema etologico, che deve continuare a funzionare. Persino i bambini diventano strumenti per addomesticare i partner più solitari, riscaldandone gli affetti. Anche i fuggiaschi soffrono un disagio morale: i rapporti sessuali sono proibiti, si viene addestrati alla sopravvivenza individuale, al cinismo, all’opportunismo, al mascheramento, all’obbedienza gerarchica. Il nemico di tutti è il desiderio nelle sue forme più varie: l’eros, il gusto per la conoscenza, l’amicizia disinteressata, la passione politica, il coraggio di urlare la verità.

Ironia dell’assurdo

La pellicola The lobster ricorda L’invasione degli ultracorpi (USA 1956, di Don Siegel): semi spaziali assumono la tua forma umana e succhia

no la tua mente, mentre dormi. Il contagio produce cittadini omologati, sedati, anaffettivi, inespressivi, ciascuno dei quali custodisce aggressivamente costumi conformisti. Niente lacrime né innamoramento, ma il raptus omicida è pronto a esplodere sotto pelle. Famiglie dalla faccia per bene e dagli irreprensibili costumi sono, in realtà, gruppi beoti e pasciuti, timorosi del nuovo e del diverso, omologati da un delirio lucido e perverso. Il regista Yorgos Lanthimos inserisce nel suo The lobster una malinconica voce narrante. Impone una recitazione distanziata, glaciale, istupidita, rallentata e usa magistralmente la musica, anche classica, per imprimere un brivido di verità, per amplificare la macabra ironia, per evidenziare la tragedia, per svegliare lo spettatore, che rischia di assuefarsi all’assurdo.

L’ambientazione «da hotel» è diventata, nella storia del cinema, la camera asettica, in cui si seziona al microscopio la famiglia d’oggi, con i suoi riti e i suoi valori, le sue nevrosi e le sue attese. Abbiamo già commentato Youth (ITA 2015, di Paolo Sorrentino) su questa rivista. In Hotel (AU, DE 2004, di Jessica Hausner) una receptionist sente il richiamo pericoloso del bosco che aveva inghiottito una collega. In Forza maggiore (FR, DE, DK 2014, di Ruben Östlund) i coniugi svedesi scampati a una valanga durante una vacanza in montagna cominciano a guardarsi con sospetto. Nell’ospedale di The Kingdom-Il regno (DK 1994, di Lars von Trier) una ricoverata sente il misterioso pianto di una bambina propagarsi dall’ascensore. E non dimentichiamo soprattutto Stanley Kubrick, che in Shining (USA 1980, dal romanzo di Stephen King) espone i componenti di un nucleo familiare al test orribile di lavorare come guardiani in un albergo vuoto e desolato in Colorado, nella stagione invernale. Vivere in casa a volte è come alloggiare in hotel. Tu prenoti una stanza per la villeggiatura, ma non è la tua dimora e non lo sarà mai; così ignori i fantasmi di chi c’è stato prima e di chi verrà dopo di te. L’alleanza familiare autentica, invece, non si può prendere in affitto. Non c’è caparra né conto che saldi il debito verso chi ti accoglie e si prende cura del tuo amore, della tua vulnerabilità.

Il cinema impone una scelta: devi credere alla storia, per capirla. Devi immedesimarti nella vicenda per comprendere che cosa desideravi, andando al cinema. È un fidanzamento, un patto. Non sei più single. Non sei più solo. C’è un racconto, che ti attende, ti seduce, ti accoglie. Senza una buona novella, regredisci. Bisogni e istinti primari si impadroniscono di te, perché manca uno spartito per esprimere le emozioni, mancano le parole per confessare paure o speranze. Il cinema ama anche i ribelli, gli anticonformisti, quelli che nel bosco oscuro della sala sognano un’emancipazione, quelli che criticano i rituali imperanti e contestano le leggi senza amore. Non basta, però, comprare un biglietto per godere nuove visioni. E non è la sola convivenza fisica che fa l’unione «sponsale», cioè gravida di una promessa ( spondére in latino significa promettere). L’anima gemella non esiste a priori. Si diventa una sola carne, decidendo giorno per giorno di lasciarsi prendere dalla storia che ci ha affascinato e che pretende di essere raccontata ancora.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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