A ritmo di «Dom»
«Dom», diminutivo di Domenico, è già un suono ritmico. Quasi una nota musicale. Perfetto per uno che di professione fa il batterista. Nel nome di «Dom» Famularo, nato nel 1956 a Long Island, nello Stato di New York, da genitori di origine calabrese, si concentra la storia della batteria moderna. Un grande maestro che insegna ai maestri. Uno che dai concerti in tutto il mondo passa alle aule delle scuole di musica. Un musicista che visita oltre quaranta Paesi ogni anno (Cina compresa) per diffondere il suo «verbo musicale», erede e sintesi della «trinità ritmica» della metà del Novecento che ha modificato, amplificato e strutturato il suono moderno: Jim Chapin, Joe Morello e Sanford Moeller. L’albero genealogico della musica a un certo punto sembra ricongiungersi e i tre rami confluiscono in quella leggenda vivente che è oggi Famularo, incontrato in occasione del «Drum’s day 2012», svoltosi nel giugno scorso, prima a Roma e poi in Veneto.
Msa. Mr. Dom, anche la chiassosa risata fa parte del suo ritmo?
Famularo. La risata è musica. Non tutti possono suonare la batteria, ma tutti possono ridere. Ridere fornisce il terreno comune da cui partire per ispirare e motivare le persone a suonare la batteria. Quando sono in Italia è sicuramente il sole a mettermi di buon umore, ed è visibile anche quando sto sul palco.
Significa che si diverte?
Il divertimento è la chiave principale del successo di una persona. Fare ciò che piace significa farlo bene e con poco sforzo. Quando suono o insegno mi diverto e imparo.
Che cosa impara?
Rubo di continuo con gli occhi e le orecchie. Lo faccio ogni giorno e dovunque. Questo mi dà l’opportunità di non annoiarmi mai. Imparo dai bravi musicisti, come dagli allievi. Ognuno mi lascia qualcosa di suo che io lascio poi agli altri. È la catena umana…
Ok, ma lei resta il maestro.
Ognuno di noi è la somma del proprio passato. Guardi me, se non fossi stato nel posto giusto (New York, negli anni Sessanta) con le persone giuste, forse oggi non sarei quello che sono. Ho iniziato ad andare a lezione di batteria a 10 anni, a 12 suonavo già come professionista, e molto di questo successo lo devo ai miei maestri.
Questione di fortuna o solo capacità?
Mettiamoci anche un pizzico di fortuna per rendere la formula perfetta. Io sono stato davvero fortunato: allora New York era la capitale mondiale del ritmo. A 17 anni, poi, il desiderio d’impegnarmi in una carriera mi ha portato ad avvicinarmi ai grandi maestri e mentori, come Ronnie Benedetto. Con lui ho studiato i rudimenti, la lettura e la comprensione dei differenti stili musicali. Ronnie mi ha offerto la tecnica perfetta per suonare la batteria. È morto nel 1999 e da allora, ogni giorno, applico i suoi insegnamenti!
Questo dimostra l’importanza di avere un maestro, una figura che oggi, purtroppo, scarseggia.
La musica è un’arte che s’impara. È tecnica e cuore messi insieme. Ma è anche storia di chi ci ha preceduto. Io non sarei così se il mio primo maestro, Al Miller, che mi ha seguito a 10 anni a New York, non m’avesse trasmesso la sua arte. Il vero maestro sa di dare, ma è l’allievo a dover prendere. È lui che ruba con gli occhi e le orecchie. Il maestro è la bacchetta che imprime il ritmo al tamburo. Un musicista è per natura il frutto di un buon maestro, ecco perché nella mia vita sto dedicando tanto tempo al metodo educativo della trasmissione generazionale.
Per questo è chiamato in tutto il mondo?
Visito oltre quaranta Paesi in un anno. Ecco perché, quando arrivano le vacanze, scelgo di starmene a casa mia.
È stato tra i primi musicisti occidentali a essere invitato ufficialmente in Cina.
Insegnare, in inglese, davanti a 5 mila studenti che parlavano solo il cinese è stata un’emozione. Sono stato il primo maestro di batteria al mondo a essere invitato ufficialmente negli anni Novanta dalle autorità cinesi.
Perché non ha un gruppo tutto suo?
L’ho avuto, anzi, ne ho avuto più d’uno e per oltre vent’anni. Poi, a un certo punto della mia carriera, dopo aver frequentato gruppi internazionali e star che mi volevano ai loro concerti, ho sentito di voler condividere il mio talento con chi aspirava a diventare musicista. A loro volevo trasmettere i valori musicali e filosofici, come l’importanza del divertimento quando si suona una batteria.
Parlavamo di ritmo, mi diceva che c’è una «pulsazione del mondo»: cioè?
Parlare, camminare, pensare, lo stesso modo in cui noi amiamo, tutto è frutto di un ritmo continuo. Tutto «pulsa» e questo ha una sequenza di suono che finisce con l’influenzare il nostro stesso modo di pensare. Quando vado in un Paese, cerco prima di tutto di capirne il ritmo. Il ritmo è la chiave dell’esistenza.
Qual è allora la nazione più ritmica?
Decisamente il Brasile. Lì il ritmo si respira, quasi si mangia.
E l’Italia?
L’Italia ha la fortuna di avere ancora un forte senso sociale, anche se i ritmi sembrano un po’ «sonnacchiosi», quasi rilassati. Ma il ritmo della vostra cucina è delizia per le orecchie come per il corpo. E questo lo colgo mentre ascolto e insegno agli allievi italiani. Ragazzi promettenti che hanno un valore aggiunto, quello di essere italiani, rispetto a molti loro coetanei nel mondo. Valore che spesso non sanno neppure di avere.
Come sta il mondo della musica oggi?
Dipende. Esistono maestri eccellenti, studenti brillanti e manager della musica che sfruttano entrambi.
Qual è stata la sua migliore stagione musicale?
Beh, New York è storicamente la capitale della batteria nel mondo. Qui si sono ritrovati i tre grandi mostri sacri (Jim Chapin, Joe Morello e Sanford Moeller), musicisti ma anche scienziati del movimento per come hanno concettualizzato la batteria. Negli anni Settanta avevi la possibilità di uscire e, passando di locale in locale, poter ascoltare in una sola serata anche tre-quattro concerti dei migliori batteristi del mondo. Quel periodo fu un crogiuolo di energia esplosiva che ancora illumina il mondo di oggi…
Come definirebbe la batteria?
Come il matrimonio tra il corpo fisico e la musica eterea. Tamburi e vita sono un tutt’uno!
Dia un consiglio a un giovane batterista.
Di dare il massimo di sé, ma con il minimo sforzo. È una regola della fisica enunciata dallo stesso Einstein.
Qualcosa di più pratico?
Esercitarsi muovendo le dita, i polsi, battendo su qualsiasi superficie e in qualsiasi posto, come mi diceva di fare il grande Joe Morello, che ha offerto una risposta pragmatica alla formula di Einstein. Poi gli direi di frequentare dei maestri bravi e una buona scuola.
Musicisti si nasce o si diventa?
Assolutamente si diventa. Se poi uno ha passione, dedizione e costanza, può spiccare il volo. Ma il successo ha le sue radici nell’insegnamento e nell’apprendimento.
Lei ha una sua scuola di musica a New York, ma è docente in molte accademie nel mondo: che rapporto ha con i suoi allievi?
Pretendo che si divertano con la batteria. Voglio spingerli a trovare il loro percorso di auto-espressione. La musica è uno dei mezzi più validi e divertenti per ritrovarsi, a ogni età. Sono un artista della vita e dell’arte: come vivo la mia vita vivo la mia arte.
Facendo questo, mi diverto ancora.