Ritorno al Pier 21

Un viaggio a ritroso, alle origini della nascita e dello sviluppo del Paese, tra paesaggi grandiosi e la memoria di un'epopea della colonizzazione che non si è ancora spenta.
12 Ottobre 2010 | di
Toronto
Era la prima volta che mi avventuravo oltre i confini delle due maggiori Province canadesi, l’Ontario e il Quebec, ma avevo spesso sentito parlare delle stupende bellezze naturali delle Province dell’Est canadese che, dal 1605, hanno accolto sulle loro sponde esploratori francesi, conquistatori inglesi e scozzesi, ma soprattutto tanti emigranti e turisti provenienti da tutto il mondo. La scorsa estate stavo curando i fiori del mio giardino quando mi fu proposto di accompagnare in autobus un gruppo di 50 persone di Toronto, quasi tutte di origine italiana, in un viaggio di undici giorni attraverso quei territori. Accettai immediatamente soprattutto perché nel lungo itinerario era inclusa una sosta importante al «Pier 21» del Porto di Halifax dove sbarcò la maggior parte degli emigrati italiani nel secondo dopoguerra.
Le Province marittime esercitano un fascino particolare su coloro che le visitano in virtù dei paesaggi meravigliosi, delle pianure sconfinate ricoperte da un verde riposante, dei numerosi e pittoreschi laghi, dell’immenso e maestoso Oceano Atlantico che le contiene e le delimita. Ma sono rinomate anche per la cordiale ospitalità degli abitanti, fatta di semplicità e di squisita generosità che generano pace e simpatia nell’animo di chi entra in contatto con loro. Queste terre hanno accolto in massa francesi e inglesi, e ancora oggi, a distanza di secoli, riflettono il carattere bilingue dei loro primi colonizzatori, con bandiere particolari che ostentano le loro origini. Inoltre hanno un’importanza particolare nella storia del Paese per aver dato vita al movimento per l’unione dei territori canadesi. Fu infatti a Charlottetown, la capitale della più piccola Provincia del Canada, l’Isola del Principe Eduardo, che 23 dirigenti politici provenienti da queste Province e da quelle dell’Ontario e del Quebec, nel 1864 avviarono importanti discussioni che portarono, nel 1867, alla creazione di una nuova grande nazione: il Canada appunto.
Sono stati innumerevoli i momenti indimenticabili che abbiamo vissuto e condiviso, e i luoghi straordinari che abbiamo visitato. La Camera della Confederazione dove i padri fondatori crearono questa nazione; la casa di campagna più famosa del Canada: quella di Anne of Green Gables, preservata e restaurata per ritrarre il periodo degli anni attorno al 1890, com’è stato descritto nei romanzi di una delle più famose scrittrici canadesi: Lucy Maud Montgomery; il Ponte della Confederazione, lungo oltre 12 chilometri, e inaugurato nel 1997 per unire l’Isola del Principe Eduardo al continente americano.
Degno di nota anche il «Cabot Trail» ovvero il Sentiero di Caboto, nell’Isola di Cape Breton, così chiamato in onore dell’esploratore italiano Giovanni Caboto che fu il primo europeo ad arrivare a Cape North nel 1497 per prendere possesso di quelle terre in nome dei re d’Inghilterra. Questo «sentiero», percorribile in autobus, è lungo oltre 300 chilometri, e raccoglie alcuni tra i paesaggi più suggestivi del Canada, offrendo la vista di sconfinate spiagge sabbiose, cascate maestose, la possibilità di osservare branchi di balene a breve distanza, e di gustare scorci ineguagliabili.
Il momento culminante del viaggio è stato il ritorno a Pier 21, ad Halifax, la capitale della Nuova Scozia, perché è stato proprio su quel molo che la maggior parte dei componenti del gruppo, o i loro genitori, avevano messo piede, per la prima volta, sul suolo canadese. Ognuno di noi aveva una storia da raccontare, e tutti provavano sentimenti di gratitudine verso i rispettivi genitori che ebbero il coraggio di emigrare in questo Paese. Anch’io sono passato per quel «Pier 21».
Addio Molise!
Era il 1962, e qualche anno prima di me, era toccato partire ai miei genitori e a due fratelli, per raggiungere una sorella che aveva sposato un italo-canadese. Ricordo che anche per me la partenza dall’Italia fu dolorosa. Benché fossi contento di raggiungere i miei familiari, il fatto di dover lasciare la mia patria d’origine, il paese dov’ero nato – Montorio nei Frentani, nel basso Molise –, e tanti amici e parenti, mi procurava una grande malinconia. Il giorno prima di partire feci il giro del paese per salutare buona parte degli abitanti e rivedere per l’ultima volta i luoghi dove avevo trascorso l’infanzia e la gioventù, senza tralasciare la chiesa e il cimitero. Mi accompagnarono a Napoli una zia e un paio di amici. Al momento della partenza, dopo alcuni lugubri squilli di sirena, ci recammo tutti sui ponti superiori della nave per salutare le persone care rimaste sul molo. Ci avevano consegnato dei coriandoli variopinti da lanciare ai parenti rimasti a terra, quasi nel tentativo di restare ancora in contatto per qualche altro istante. Quando il bastimento cominciò a staccarsi dal molo, l’orchestra della nave iniziò a suonare melodie malinconiche d’addio. Molti di coloro che mi erano vicini, piangevano sconsolati, specialmente gli uomini che lasciavano le proprie famiglie, o le ragazze che salutavano i loro fidanzati o genitori. Avevo vissuto anch’io quei momenti strazianti quando avevo accompagnato i miei cari alla partenza. Adesso la tristezza del distacco era mitigata dal pensiero di riabbracciarli presto.
I primi due giorni sulla nave greca Queen Frederica passarono felicemente. Sembrava di essere a bordo di una lussuosa nave da crociera in navigazione sulle tranquille acque del Mediterraneo, con giochi e passatempi d’ogni specie, e pasti squisiti e abbondanti. Appena attraversato lo Stretto di Gibilterra, però, le acque agitate dell’Oceano Atlantico, provocarono, alla maggior parte dei passeggeri, una nausea terribile che li costrinse a saltare i pasti e a restare sdraiati a letto nelle cabine. Nei giorni in cui il mare era eccezionalmente furioso, delle funi robuste venivano installate sulle pareti dei corridoi per aiutare gli spostamenti dei passeggeri. Pur essendo la Queen Frederica una nave di stazza relativamente grande, era stata costruita nel 1927, e benché fosse stata restaurata e modernizzata varie volte, mostrava segni di usura. Specialmente durante le tempeste notturne scricchiolava paurosamente. Per gran parte della traversata atlantica, sia i ponti che i ristoranti rimasero semi-deserti. Finalmente, nel pomeriggio del 9 settembre 1962, con grande sollievo scorgemmo all’orizzonte la tanto sospirata costa canadese. Sembrava un sogno, quasi una liberazione da un incubo durato troppo tempo. Lo sbarco si svolse con una certa confusione. Eravamo quasi tutti provenienti dalle regioni meridionali, in gran parte contadini, con le nostre povere valigie, spesso rinforzate da robusti spaghi e da cinture. Molti parlavano ad alta voce, specialmente le mamme che cercavano di non perdere di vista i propri bambini. Ricordo il pavimento della grande sala d’attesa come un caos organizzato. I passeggeri, vicino ai loro bagagli, aspettavano con una palpabile tensione il momento di passare l’ispezione del contenuto delle loro valigie. Io non ebbi alcun problema, ma ricordo che gli ispettori doganali toglievano dalle valigie e sequestravano ogni prodotto commestibile portato dall’Italia, specialmente salami, formaggi e bottiglie di liquore, spesso buttandoli sul pavimento e causando il panico generale. Poi ci fecero salire su un lungo treno a vapore, con vagoni riscaldati, ma poco comodo per il trasporto di persone per un lungo tragitto. I sedili, infatti, erano di legno, con le spalliere reclinabili, per essere usati come letti per la notte. Viaggiammo per circa tre giorni: un viaggio monotono che sembrava interminabile. Il cibo a bordo era poco invitante, specialmente il pane bianco, che non era croccante come quello italiano, ma piuttosto morbido come una gomma elastica e senza alcun sapore. Guardando attraverso il finestrino, restavo meravigliato alla vista di pianure sconfinate, con rare abitazioni e paesini isolati, dove apparivano automobili di grandezza smisurata, e piccoli cimiteri con modeste pietre tombali.
La sfida dell’università
Arrivato a Toronto, dopo i primi giorni di euforia e orientamento, pensavo di trovare subito un lavoro qualsiasi per cominciare anch’io ad aiutare la famiglia. Mia madre, però, fu chiara: «Devi continuare gli studi all’università e devi prendere una laurea canadese», mi disse, accompagnandomi alla chiesa più vicina dove un sacerdote italiano mi accolse con molta cordialità. Avendo ricevuto una buona formazione musicale, mi presi cura della corale italiana della chiesa, divenendone il direttore, e suonando l’organo nelle messe funebri e nei matrimoni. Dopo due anni di corsi intensivi di lingua inglese a tempo pieno, inoltrai una domanda d’ammissione ad alcune università canadesi. Le risposte furono incoraggianti, e l’Università francese di Montréal mi accettava accreditandomi anche alcuni corsi completati in Italia. L’inizio non fu facile. Avevo studiato il francese in Italia e lo avevo ripreso anche a Toronto, ma avevo avuto poche occasioni per praticarlo. Dopo alcuni mesi di studio estenuante, volevo rendermi indipendente dai genitori per gli studi, e cominciai a insegnare l’italiano ai figli di italiani il sabato mattina, e l’inglese agli immigrati nei corsi serali. Dopo circa un anno di questa vita sacrificata, un amico mi informò che alla sua scuola cercavano un insegnante d’inglese e mi incoraggiò a presentare una domanda d’impiego. Il giorno successivo mi presentai con molta titubanza davanti ai responsabili della scuola e della commissione scolastica per essere intervistato. Dopo due ore mi assunsero e mi domandarono di cominciare a insegnare immediatamente. Si trattava di una scuola bilingue, frequentata quasi unicamente da ragazzi di emigrati, in maggioranza d’origine italiana. Dovevo insegnare alcune materie in lingua inglese nella mattinata, e ripetere le stesse lezioni in un’altra classe nel pomeriggio. E così, di giorno insegnavo in inglese, di sera seguivo dei corsi in francese, e il sabato insegnavo l’italiano. Mi restava la notte e il fine settimana per studiare e preparare le lezioni. Fu il periodo più difficile della mia vita, ma due anni più tardi ottenni la prima laurea universitaria in Lingua e letteratura francese.
Ero contento e volevo tornare subito a Toronto, ma il preside mi convinse a restare nella sua scuola. Mi sentivo ormai tranquillo e fortunato, con uno stipendio sicuro. Volendo completare la mia formazione accademica per occupare posizioni più remunerative, continuai a frequentare corsi universitari di sera e d’estate per parecchi anni, ottenendo prima il diploma di insegnamento a livello superiore, e in seguito altre due lauree di specializzazione in lingue moderne: una all’Università francese di Montréal e l’altra all’Università inglese McGill, insegnando allo stesso tempo lingue romanze a tutti i livelli superiori e collegiali.
Il secondo Landed Immigrant
Sono trascorsi esattamente 48 anni dal giorno in cui passai attraverso il famoso Pier 21, che tra il 1928 e il 1971 accolse oltre un milione e mezzo di emigranti e di soldati che parteciparono alla Seconda Guerra mondiale. Una delle iniziative organizzate per i visitatori approdati a questo molo, è una breve ricostruzione della prima intervista fatta dagli ispettori dell’immigrazione, seguita dall’apposizione del timbro «Landed Immigrant» su un finto passaporto, come era accaduto al nostro primo sbarco. Notando che ero capace di rispondere correttamente alle domande propostemi in inglese e in francese, la mia guida-ispettrice mi chiese cosa avevo fatto nella vita. Accennando brevemente alla mia formazione accademica, risposi che avevo insegnato lingue moderne per 33 anni, e da quando ero andato in pensione lavoravo come guida, per passatempo, accompagnando gruppi di turisti in Europa e nel Nord America. Alquanto sorpresa della mia risposta, la ragazza mi chiese con un gran sorriso: «Sei contento di essere venuto in Canada?». «Mi ritengo molto fortunato per aver preso la decisione di venire e restare in questa nazione – risposi –. Il Canada mi ha dato l’opportunità di perfezionare la mia educazione e di trovare un ottimo impiego. Questo mi ha dato anche la possibilità di offrire ai miei quattro figli una solida educazione universitaria, di vederli sposati con altri laureati, e di operare come professionisti o imprenditori edili».
«Ti piacerebbe tornare a vivere in Italia?», aggiunse la signorina. «Sono tornato spesso in Italia, come guida turistica e come visitatore, senza mai stancarmi di ammirare le sue straordinarie bellezze artistiche e naturali. Io amo ancora l’Italia, e come ho fatto in passato, continuerò a farle onore. Però è stato il Canada ad accogliermi nel momento del bisogno, e quello che ho realizzato in questo Paese per me e per la mia famiglia, non l’avrei neppure lontanamente potuto ottenere nella mia patria d’origine. L’Italia è una bellissima nazione da visitare, ma il Canada adesso è la mia patria e la mia casa». E stampando il fatidico «Landed Immigrant» sul finto passaporto, la ragazza, compiaciuta, ripeté le parole pronunciate dall’ispettore in servizio nel lontano settembre del 1962: «Benvenuto in Canada, questo Paese ha bisogno di persone come te!».
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017