Ritorno alla condivisione
La mensola del bagno traballa e va fissata? Fino a qualche anno fa, senza pensarci due volte, saremmo corsi a comprare un trapano elettrico e una bella scorta di viti. Salvo poi, una volta concluso il lavoro, chiudere gli attrezzi in una scatola per chissà quanto tempo. L’idea di utilizzare il trapano del vicino o di condividere il proprio – ammortizzando così le spese e mettendo a frutto le risorse disponibili – con tutta probabilità non ci avrebbe sfiorato. Almeno fino a oggi. Secondo un’indagine Ipsos svolta su un migliaio di italiani tra i 18 e i 64 anni, il 75 per cento del campione ha sentito parlare di sharing economy e un intervistato su tre è pronto a sperimentarla.
Se fate parte di quel 25 per cento la cui memoria, alla voce share, confondendosi un po’, corre subito alla cotonatissima chioma della cantante statunitense degli anni ’80 (si scrive Cher, si legge scer) niente paura. Anche l’economia di condivisione – come si traduce letteralmente sharing economy – affonda le radici nel passato. Certo, non parliamo di qualche decennio fa, bensì di un millennio indietro, quando il baratto spopolava nei mercati e lo scambio in natura era alla base della sopravvivenza. Tempi duri, più di quelli che – piegati dalla crisi economica, politica e sociale – stiamo affrontando oggi. Non c’è da stupirsi, quindi, che le strategie per superarli indenni si ripresentino ancor oggi, pur sotto nuove spoglie. Qualche esempio? La vacanza alletta ma il portafoglio langue: ecco pronto uno scambio casa a costo zero. L’ufficio dista molti chilometri da casa e il viaggio in macchina è troppo costoso e soporifero: con un altro passeggero a bordo potremo spartire le spese e fare pure quattro chiacchiere. Da questi due semplici casi già si intuisce che il ritorno alla condivisione per necessità ha come effetto immediato anche la riscoperta delle relazioni.
Fenomeno esplosivo
Grazie al supporto delle nuove tecnologie e del web, allo sviluppo dei social network e alla diffusione di smartphone e tablet, in pochi anni l’economia collaborativa ha dato vita a un business mondiale che supera il miliardo di dollari ogni anno. «La vera novità offerta dalla sharing economy è quella di mettere in relazione persone diverse, rendendole allo stesso tempo consumatori, ma anche “proprietari” di un certo bene» spiega Marta Mainieri, autrice del libro Collaboriamo (Hoepli) e fondatrice del portale Collaboriamo.org che aggrega oltre cento siti di servizi di condivisione. Consulente di marketing digitale, Marta Mainieri ha scoperto la sharing economy nel 2011. «In quel periodo ero prossima al parto e cercavo di scorgere un po’ di luce alla fine del tunnel della crisi economica: quel nuovo modello di servizio adattabile un po’ a tutti i mercati mi sembrò una speranza per il futuro». Allora il fenomeno stava per esplodere negli Usa, ma in Italia le startup fondate sul principio della condivisione si contavano ancora sulle dita di una mano. Sono bastati tre anni perché gli effetti della «bomba sharing» attecchissero anche qui.
«Oggi in Italia sono circa centotrenta le startup che offrono servizi collaborativi on line» continua Marta Mainieri, che è anche tra gli organizzatori di Sharitaly, il primo evento dedicato alla sharing economy.
Dopo l’esordio nel 2013, l’appuntamento è fissato al primo dicembre per fare il punto sugli aspetti economici e normativi del fenomeno, e soprattutto sul suo futuro. Tra gli ambiti più promettenti spicca quello del turismo in tutte le sue declinazioni: dall’accoglienza alla ristorazione fino ai trasporti.
«Sogno una sharing economy al servizio non solo delle grandi città e dei grandi eventi come l’Expo – aggiunge Marta Mainieri –, ma soprattutto al servizio del territorio, in grado di collegare le periferie e di arrivare dove di solito non si arriva. Per riscoprire le tradizioni, valorizzare il Paese e portare aiuto, per esempio, nelle aree colpite da terremoti e alluvioni».
Mio, tuo, nostro…
Una bicicletta, la rete wifi, il trapano, una stanza per dormire. Magari pure la casa intera. Ecco – secondo una ricerca Doxa Duepuntozero del 2013 – le cose che gli italiani presterebbero più volentieri ai turisti attesi a Milano in occasione dell’Expo 2015. Evento a parte, i beni d’uso quotidiano rappresentano sempre il fulcro della sharing economy. Da condividere non sono solo biciclette e case, ma anche automobili e scooter, cibo e indumenti, idee e tempo libero. Se è vero – come riporta Ipsos – che la crisi ha influito sui consumi per l’86 per cento degli italiani, nulla ha potuto sulla loro capacità di adeguamento: i bisogni restano, quel che cambia è il modo in cui vengono soddisfatti. Paradigmatico, in questo senso, è il successo che siti come Airbnb.it e Blablacar.it hanno riscosso nel giro di pochi anni. Portale nato nel 2008 per condividere o prenotare a poco prezzo alloggi privati, il primo ha veicolato oltre 800 mila annunci da 190 Paesi e accontentato più di 17 milioni di ospiti. Supera invece i 10 milioni di iscritti Blablacar.it, piattaforma on line che mette in contatto automobilisti e passeggeri con una stessa destinazione. Questi due colossi, però, sono solo la punta dell’iceberg. Dietro di loro si staglia un’infinita schiera di siti sharing in erba. Prendiamo E-vai.it, che offre il noleggio di veicoli elettrici a cinque euro l’ora, o Sendilo.it, che permette ai camionisti di «affittare» spazi nel proprio mezzo durante i tragitti di ritorno. Dal trasporto al turismo, tappe obbligate in Rete per gli amanti dei viaggi sono i siti di scambio casa Guesttoguest.com e Homelink.it. Non ultimo Wwoof.it: è sufficiente registrarsi e selezionare una regione d’Italia per accedere alla lista di aziende agricole che offrono soggiorni gratuiti in cambio di manodopera.
Entusiasmo e sudore, carburante e tempi morti, via web si condividono anche passioni e hobby. Se su Swapclub.it e Mysdroom.com si barattano e si noleggiano abiti, scarpe e borse, complici i numerosi programmi di cucina sempre più in voga alla tv, in Rete impazzano anche i social network dedicati alla tavola. Tra i più gettonati Gnammo.it, una community per organizzare cene domestiche tra buongustai, e Ifoodshare.org, piattaforma che consente di donare il cibo in eccesso con una semplice inserzione on line.
Sharing economy, dunque, è solidarietà e lotta agli sprechi, ma anche convivialità e voglia di aprirsi al prossimo. Una miniera di occasioni che serba inevitabilmente qualche lato oscuro, in primis il problema della deregolamentazione e il conseguente rischio di generare concorrenza sleale. Ne sanno qualcosa i tassisti di mezza Europa che lo scorso maggio hanno protestato contro Uberpop, applicazione con cui guidatori senza licenza offrono passaggi a bordo della propria auto a prezzi contenuti. Per Mario Agostino Maggioni, docente di politica economica all’Università Cattolica di Milano, la sharing economy è un’arma a doppio taglio, «un interessante fenomeno da monitorare, che non va però caricato di aspettative. L’amministrazione pubblica non deve soffocarlo, ma neppure concedergli troppa libertà». Del resto, quando si ha a che fare con una tendenza ancora poco conosciuta la cautela è d’obbligo: «Non esistono stime precise sull’effetto moltiplicativo e demoltiplicativo causato dalla sharing economy – continua l’economista –. E se, riducendo il consumo di certi beni, andassimo incontro al rallentamento di un altro pezzo di economia?». In attesa di sapere come la questione si evolverà, non resta che guardarsi intorno in cerca d’ispirazione. Tra i primi Paesi ad aver affrontato con successo l’economia di condivisione ci sono gli Stati Uniti. «La tradizione giuridica delle Commonlaw permette di normare un comportamento adottato dalla società senza doverlo far derivare da una serie di principi primi (come invece prevede il diritto romano) – conclude Maggioni –. Negli Usa, inoltre, ogni Stato adotta normative diverse in materia di consumo e produzione: col tempo, in un’ottica di coevoluzione, i modelli più efficaci emergono e vengono adottati anche da chi aveva scelto altre strategie». Come sempre, imparare dai propri errori e condividere i successi è il modo migliore per crescere. E allora: benvenuta sharing economy. La sfida è appena iniziata.
Scuola a portata di clic
Sempre aperta, on line, per tutti. È la piattaforma web per l’apprendimento Oilproject, www.oilproject.org. Una community in cui, a differenza di altri siti per studenti, non si condividono appunti, bensì lo studio vero e proprio. Una scuola digitale gratuita (si finanzia con la pubblicità) in cui è possibile imparare a qualsiasi ora, dovunque ci si trovi, da Torino a Siracusa, dal pc di casa o dal proprio smartphone. La piattaforma risponde alle domande più frequenti, e non solo. Lo fa attraverso corsi (più di 150), articolati ciascuno in videolezioni, testi ed esercizi di matematica, storia, chimica, biologia, inglese, filosofia, fisica e scienze della Terra, letteratura italiana, economia e business. Tra i fondatori, Marco De Rossi, 24 anni (nella foto, il quinto da sinistra). Ne aveva 14 quando, con altri coetanei, ha creato la startup. «Ci siamo incontrati in un forum on line di tecnologia – racconta –. A uno mancavano i soldi per iscriversi a un corso di programmazione, un altro non vedeva l’ora di insegnare a usare programmi di fotoritocco, un terzo era esperto di sistemi Linux, l’ultimo creava siti web. Oilproject è nata sul tavolo di un soggiorno, ma da due anni abbiamo una sede, a Milano. Per confrontarci è molto meglio guardarsi in faccia». Il sito è stato progettato per adattarsi ai dispositivi mobile. «Un allievo su tre utilizza Oilproject in mobilità, la mattina sull’autobus, andando a scuola, oppure la sera sul divano». La piattaforma prevede un sistema social per cui gli studenti possono seguirsi tra loro e ricevere notifiche. «Ognuno può fare una domanda su un argomento – spiega Marco – e il sistema lo ripropone sia agli amici che agli allievi che stanno studiando argomenti simili». Oggi in Oilproject lavorano in nove, età media 27 anni: il più vecchio ne ha 31, il più giovane è Marco. Una cinquantina i prof coinvolti. Tra loro docenti universitari, intellettuali, imprenditori, scrittori e scienziati. Nel 2013/2014 sono stati ben 2 milioni gli studenti (al 60 per cento delle superiori, al 30 universitari, il rimanente 10 per cento persone che volevano rinfrescare la propria cultura) che hanno avuto una media di tre accessi alla piattaforma. Erano 250 mila tre anni fa, 1 milione nel 2012/2013. Prossimi obiettivi? «Vorremmo coinvolgere gli insegnanti – conclude Marco – . Per diventare lo strumento di una flipped classroom, una scuola rovesciata, in cui la classe non sia più il luogo di trasmissione delle nozioni, bensì uno spazio di lavoro e discussione dopo l’esplorazione autonoma da parte dello studente».
Nicoletta Masetto
SOCIAL EATING
Aggiungi un posto a tavola
Non è Master chef, il popolare programma televisivo, anche se potrebbe essere benissimo una trasmissione tv di successo. Ma lo scopo di Gnammo (http://Gnammo.com), questo il nome del social eating network, è ben altro. Molto più di una buona cucina. Nato da un’idea di Gian Luca Ranno, cofondatore insieme a Cristiano Rigon e Walter Dabbicco, Gnammo è il primo portale italiano dedicato al social eating. Lo scopo: ridefinire il concetto di mangiare condividendo, creando o prendendo parte a eventi gastronomici in case private o in altri luoghi, dove il cibo diventa veicolo per una particolarissima esperienza di relazione. «Tutto nasce dal desiderio del viaggio, dalla curiosità, dalla capacità di dialogare e imparare da tutti», sottolineano i promotori. Gnammo è on line da giugno 2012, grazie a una felice collaborazione tra Nord e Sud Italia. Basta iscriversi sul sito, decidendo se si è cuochi oppure gnammer. Il cuoco organizza la cena: stabilisce giorno, menù e numero di persone da invitare e fissa il prezzo, accessibile a tutti. Lo gnammer si informa sulle novità e poi aderisce.
L’originalità dell’esperienza non sta tanto nel soddisfare il palato degli ospiti con ricette di varie località, ma nella capacità di creare un’atmosfera familiare, come tra vecchi amici. Ad attirare è anche la possibilità di risparmiare: condividendo alcuni costi, si spende meno. «Il risultato di questi primi due anni – spiega Ranno – è ottimo: oltre alla pagina Facebook con più di 12 mila “mi piace”, abbiamo raggiunto circa 20 mila utenti, e portato a tavola migliaia di gnammer in diciassette regioni italiane». Protagonisti: uomini e donne con un’età compresa tra i 25 e i 45 anni.
«All’attivo – spiega Ranno – abbiamo collaborazioni con brand importanti e la realizzazione della più grossa rassegna di food raising con l’associazione Emergency. La crescita è diventata esponenziale anche grazie a una nuova versione del sito, con valutazioni sui cuochi e sugli ospiti in modo da poter aiutare le persone a orientarsi meglio». Le prossime sfide? «Lanciare il network nei ristoranti, aiutare con le brand pages il patrimonio agro-alimentare italiano a raggiungere le tavole di Gnammo e farci conoscere nella community».
Claudio Zerbetto