Roberto Brigo atleta in carrozzella

La passione per lo sport gli ha permesso di superare i postumi, fisici e psicologici, di una brutta avventura. Primo alla Maratona di Sant’Antonio e tra i migliori atleti in assoluto nella sua specialità
06 Luglio 2001 | di

Il primo a tagliare il traguardo della Maratona Sant`€™Antonio, categoria disabili (è il caso di dire diversamente abili) è stato Roberto Brigo, un giovanottone di Anguillara Veneta abituato ormai, con la sua filante carrozzella da competizione, a ottenere risultati da grande atleta. I 42 chilometri e 192 metri, da Vedelago, nel trevigiano, a Padova, Prato della Valle, li ha percorsi in un`€™ora e 31 minuti: un tempo superiore al primato italiano, tenuto dal milanese Enzo Masiello, che aveva intenzione di battere, ma `€“ spiega `€“ "non avevo avversari con i quali confrontarmi e, senza i dovuti stimoli, quando sopraggiungono gli inevitabili momenti di crisi, tutto diventa più difficile". Ma le premesse e la stoffa per centrare il bersaglio ci sono: a Varese di recente ha corso i 21 chilometri di una maratonina in 46 minuti e 2 secondi.

Ma Roberto, oltre che sulle strade asfaltate dove si corrono le maratone, si cimenta sui lucidi anelli delle piste, facendo tempi di assoluto valore: 53 secondi e 64 centesimi sui 400 metri a Cagliari; un minuto e 46 secondi sugli 800 metri, in Svizzera.

Solo per un`€™inezia non ha fatto il tempo richiesto per la partecipazione alle Paraolimpiadi di Sidney. "Mi sono però rifatto moralmente vincendo la corsa dimostrativa del Giubileo alla presenza del Papa, che poi mi ha ricevuto: il suo sguardo pieno d`€™affetto e il suo sorriso hanno valso per me più di una medaglia olimpica" mi dice mostrandomi con motivato orgoglio la foto che la ritrae insieme a Giovanni Paolo II.

Roberto ha sempre amato lo sport. Prima di finire sulla sedia a rotelle, inseguiva la gloria sportiva gareggiando con la bicicletta. Poi, un maledetto giorno del 1987, durante una competizione è incappato in una di quelle rovinose cadute di gruppo che lasciano sull`€™asfalto un groviglio di bici sfasciate, e sui corpi degli atleti segni di brucianti ferite. Sembra un`€™ecatombe, ma il più delle volte in pochi attimi tutti riescono a rimettersi in sella per inseguire il resto del gruppo che intanto ha accelerato verso il traguardo.

Anche quel giorno tutti si erano rialzati e, più o meno malconci e doloranti, avevano ripreso la corsa. Tranne uno, Roberto, appunto: la bici lo aveva sbalzato oltre la strada, facendolo ricadere con la schiena su un ceppo di vite. L`€™ambulanza, subito accorsa, aveva raggiunto l`€™ospedale a sirene spiegate (la gravità  del caso fu subito chiara). Poi la perizia e la buona volontà  dei medici non sono riuscite a fare il miracolo. Con un trauma a livello midollare è impossibile, allo stato attuale della scienza medica, rimettere in piedi qualcuno: quella metà  del corpo, dal busto in giù, che il trauma ha staccato dalla centrale "nervosa" del cervello, non c`€™è verso di riattivarla e resterà  per sempre una parte inerte e disarticolata. Con tutti i disagi e le conseguenze fisiche e psicologiche che si possono immaginare.

La voglia di ricominciare. Roberto aveva allora diciassette anni e frequentava l`€™istituto tecnico industriale di Rovigo. Dalla vita si aspettava tutt`€™altro. Eppure ha trovato in sé la voglia e il coraggio di riprendere la scuola e lo sport da dove era rimasto, sostenuto dall`€™affetto e dall`€™appoggio di una straordinaria famiglia (papà  Mario, la mamma e la sorella Daniela). Gli ci volle un anno, tra terapie e riabilitazione, per essere in grado di farlo. Ha completato il corso diplomandosi; ha preso la patente e ha trovato un lavoro come assistente amministrativo in una scuola media. E poi lo sport, che è diventato nella sua vita elemento importante, vitale, fattore insostituibile di sviluppo fisico, personale e sociale.

"Facendo sport a certi livelli `€“ dice Roberto `€“ ho avuto l`€™opportunità  di girare un po`€™ il mondo, di conoscere persone, ambienti, tradizioni e culture diverse. Per me, per natura chiuso e solitario, è stato il massimo. Lo sport mi ha anche irrobustito fisicamente. Il rischio per uno in carrozzella, se non fa qualcosa, è di ingrassare e questo complica tutto. Gli allenamenti e la necessità  di adattare la respirazione al ritmo della gara hanno, ad esempio, innalzato la mia capacità  polmonare (il diaframma funziona a metà ) da 3 a 5 litri, come una persona "normale". Ho un peso forma invidiabile e una robustezza di muscoli, nelle parti ancora attive, tale da riuscire a spostarmi da solo dalla carrozzina all`€™auto e così via... Sono diventato autonomo e posso girare il mondo senza essere accompagnato. Lo sport fa bene e dovrebbero essere gli stessi ospedali, dove avvengono le riabilitazioni, a suggerire ai giovani che incappano in questi guai a praticare lo sport. Ma non succede".

Correre per vincere. Sport comunque, perché fa bene. Roberto però preferisce farlo "a certi livelli" e con spirito agonistico. Lo confessa: "Per ora lo sport lo intendo come competizione, come occasione per misurarmi con gli altri e batterli, se possibile. Correre per me stesso, per non impigrire, non basterebbe a giustificare gli allenamenti quotidiani, i tanti sacrifici e la intensa preparazione fisica e psicologica, del corpo e della mente, che mi consentono di correre e portare a termine una gara con i migliori risultati possibili".

Con questo spirito, cioè per vincere e per migliorare i propri tempi, Roberto partecipa a tutte le gare nazionali e internazionali che può, soprattutto in Svizzera, Inghilterra e Germania, dove sono più numerosi, rispetto all`€™Italia, i disabili che amano confrontarsi sulle strade o sulle piste a bordo delle loro agili carrozzella. E dove questi sport godono in generale di maggiore considerazione. Ora la sua società , l`€™Aspea, lo vorrebbe portare alla prossima maratona di New York.

Un profano `€“ e siamo in tanti in questa categoria `€“ quando vede questi atleti correre, di solito inseriti in una maratona, forse neppure si accorge che la carrozzella da gara è molto diversa da quella abitualmente usata da un disabile: è più lunga, filante, con un "ruotino" davanti e due ruote più grandi dietro. E, sempre il profano (cioè quasi tutti noi), pensa che non ci voglia granché a far correre quall`€™aggeggino: un paio di spinte sulle ruote e il gioco è fatto. Ma perché quelle spinte riescano a tramutare una passeggiata in un gesto atletico ci vuole una preparazione pari, anzi superiore, a quella che serve a un atleta "normodotato". Roberto, ad esempio, è seguito da un preparatore atletico che cura l`€™alimentazione, gli insegna a regolare la respirazione, a perfezionare le tecniche di spinta, coordinando forza e frequenza delle spinte (in una maratona ne fanno in media 120 al minuto) con i ritmi della respirazione.

Poi vengono gli allenamenti: chilometri e chilometri ogni giorno. Roberto ne macina dai venti ai trenta, filando per strade di campagna (papà  Mario sempre dietro in sella a una bicicletta) poco frequentate che attraversano i campi che fino a qualche anno fa appartenevano alla Veneranda Arca del Santo: un lascito dei Carraresi, nel Quattrocento signori di Padova, per sdebitarsi degli oggetti d`€™oro requisiti alla basilica per sostenere la guerra contro la Serenissima. Su quei campi si coltivano le "patate meriche", le patate dolci, per le quali Anguillara Veneta è nota, e con le quali si fanno ottimi piatti, dalle torte agli gnocchi.

Mezzi e costi. Anche il mezzo ha la sua importanza. E i suoi costi: ogni carrozzina, in alluminio, deve essere adattata alle esigenze di ciascuno e non è possibile produrle in serie. Le veloci carrozzelle da competizione non vanno confuse con le handybike, o "cicloni", che sono mosse da una catena azionata da "pedali a mano" e che non sono omologate per le gare. "Le carrozzelle da corsa le costruisce la ditta "Vilnai" di Villa del Conte `€“ mi informa Roberto `€“. La spinta viene data su due cerchioni posti esteriormente sulle ruote posteriori. Per non finire con la mani malconce, bisogna indossare un paio di guanti particolari e molto costosi".

Le ruote posteriori, leggermente divaricate, possono montare, come le normali bici da corsa, cerchioni ad alto profilo, essere lenticolari o a razze: dipende da dove si gareggia (se su strada o in pista) e quali distanze si percorrono (velocità  o fondo). In pista per distanze brevi, va meglio una ruota ad alto profilo, e una posizione tale sulla carrozzina (inginocchiati) che consenta una partenza bruciante. Per una maratona vanno meglio le ruote lenticolari, più dure da far partire, ma più adatte nel corso della gara perché, avendo un effetto volano, "tirano" anche quando gli atleti si concedono una piccola sosta per riprendere fiato.

Per curvare rapidamente, soprattutto nelle gare su pista, accanto al piccolo manubrio ci sono due congegni intervenendo sui quali con leggere percussioni, rapportate all`€™inclinazione della curva e alla velocità , si riesce a regolare agevolmente la direzione del mezzo. Non sempre l`€™operazione riesce e la carrozzina può ribaltarsi.

Si tratta di una vera e propria disciplina sportiva che richiede, come si è visto, grande tecnologia e preparazione individuale fisica e psichica. Questo sport merita sicuramente maggior attenzione e una adeguata promozione anche per dare un giusto riconoscimento a tutti gli atleti disabili che, come Roberto, cercano nello sport occasioni di vita e di maturazione.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017