Santità,

03 Febbraio 1998 | di
   
   
Avrei voluto iniziare questo carteggio sommessamente, scegliendo come primo destinatario un essere umile, nascosto e tuttavia vivo in mezzo a noi, così vivo da insegnarci che l'umiltà  è un dono misterioso e benefico. Ma nel ripercorrere nomi e volti sono stato sopraffatto da un'immagine, e ho la temerarietà  di dirle che quell'immagine è la sua. Mi si era precisata una domenica mattina, trascorsa davanti al televisore mentre lei celebrava in San Pietro. Non una domenica qualunque: era il giorno al cui tramonto, lo si sapeva, avrebbe lasciato i Palazzi apostolici per entrare al Gemelli dove sarebbe       stato sottoposto a un'operazione chirurgica del cui esito né lei né altri potevano essere certi. Vedevo anch'io, come tutti, che ogni suo gesto le costava fatica: la mano non impugnava il pastorale, ma vi si stringeva, il viso era rigido, lo sguardo fisso, la voce malferma. Un altro uomo rispetto a quello del solenne Te Deum nella Basilica vaticana, quando, appena eletto papa, aveva attraversato a grandi passi il sagrato per       avvicinarsi alla folla e, al momento della benedizione, levato in alto il pastorale tracciando un segno di croce.     

Un'immagine di grande vigore, che nella domenica di cui parlo era di segno opposto, a sottolineare una fragilità  e una sofferenza nuove. In quella pena, glielo confesso, avvertivo qualcosa che riguardava non solo la sua persona ma, in un modo che non riuscivo a       definire, tutti noi. E non appena afferrai il senso di quanto andavo osservando, il corso dei pensieri ne fu come rischiarato. Mi resi conto che da quel soffrire non trasparivano i segni della rassegnazione, bensì della volontà  di governarla, come accade a un atleta cui vengono meno le forze, ma non al punto di costringerlo a desistere; e mi tornarono alla mente le parole di Paolo, quando sentì approssimarsi il declino delle forze: 'Bonum certamen certavi, cursum consumavi, fidem servavi': ho gareggiato in una bella gara, ho terminato la corsa, ho salvato la fede.

     

Ora, voglio confidarle che l'ho avuta vicino - fino a sembrarmi essere lì solo per me - nelle domeniche d'Avvento, mentre pronunciava l' 'Angelus' e io, nello studio di 'A sua immagine', a Saxa Rubra, per settimane ho avuto l'incarico di ascoltarla e poi dire ai       telespettatori qualcosa di suscitato da lei. Ma come, con quali parole, dopo le sue? Con le sole possibili. Quelle, volenterose, di un laico che ha per il papa un sentimento fraterno - se è lecito farsi consanguineo, così a buon mercato, nientemeno di un pontefice! - e che, insieme, è preso dal volto di una chiesa fattasi con lui pellegrina di pace e di giustizia, esigente e partecipe, nel segno dell' 'ut unum sint', cioè di sé e di       tutti: fino a inginocchiarsi, essa stessa, davanti a coloro che ha offeso lungo la sua storia; a gridare che la miseria non nasce con Dio, ma dal nostro egoismo; a fare del bambino la prova dell'ostinato disegno di ritentare sempre, con ostinata fede nell'uomo; a scongiurare, ammonendola, quella scienza che pensa di replicarlo in laboratorio per non dovere più nulla al Creatore, senza però potersi assumere le responsabilità  di Dio.

     

Ecome non cogliere, Santità , proprio in quei bambini, e nell'immagine di lei che accingendosi a battezzarli vacilla sotto la volta solenne della Sistina, un segno ancora: l'acqua, quella del battesimo e quella delle lacrime, cioè il simbolo della nascita e della morte, richiamo a una condizione umana che lei non cessa di ricordare perché si apre alla promessa della redenzione. Lei lo ha detto: Gesù è venuto a liberare l'uomo non a convertirlo, a illuminarlo non a impaurirlo; ad annunciare, non a costringere, e scegliendo tutti, credenti e non credenti. Perché tutti, per la creazione, siamo e resteremo creature, e quindi popolo, di Dio.

     

In quello studio televisivo, per alcune settimane, ho avuto il privilegio di osservare, in diretta, ogni suo passo prima che arrivasse alla celebre finestra; e poi di leggerle, per così dire, le parole sulle labbra, quasi vivessi una contiguità  che, ovviamente, non c'era.

     

Ma la dimensione della scena, che giganteggiava sullo schermo, mi permetteva di cogliere cose che non avevo veduto prima così percettibili e nette: gli sguardi, i tremiti, i sospiri di un uomo sofferente, e non arreso. Al punto che oggi, chiedendomi quale potesse essere l'interlocutore simbolico, e perciò stesso esemplare, cui 'spedire' la prima lettera, proprio lei mi si è messo, spontaneamente, davanti. Non era, lo ripeto, l'immagine solenne, incontestabile, del più privilegiato degli uomini, cioè del Vicario di Cristo, ma la sua presenza semplicemente umana. Tanto che tra i molti titoli che appartengono al Trono di Pietro, mi è venuto in mente quello che più le somiglia: Servo dei servi di Cristo.

     

Chi è il bravo servo, Santità ? Chi crede, come lei, in una chiesa che va verso il grande giubileo nel segno della conversione interiore, non dell'avvedutezza storica; dell'unità  invocata da Cristo,  non degli opportunismi particolari e solitari; della rivelazione, non       della sopravvivenza. Lei sarà  affaticato e indebolito, finché si vuole, ma questo traguardo è là  ad aspettarla con le sue promesse, i suoi impegni e le sue profezie. Il bravo servo, dunque, richiama tutta l'anima e tutto il corpo per servire degnamente il padrone, cioè Dio; anche se per noi, protési comunque a dare un senso alle cose, qui, e adesso, non può che essere l'uomo, con le sue miserie e le sue grandezze, i suoi tradimenti e le sue dedizioni, le sue paure e i suoi coraggi.

     

Pensare a lei, Santità , è divenuto, così, inevitabile: sempre in corsa, per dir così, mai prudente o parsimonioso nello spendersi anima e corpo. È un atteggiamento nei confronti della vita che possono intendere solo coloro i quali l'hanno intensamente vissuta attraverso gioie e dolori, dubbi e consolazioni, struggimenti e certezze; e che solo vivendola intensamente sono stati capaci di darle un senso pieno persino nei cedimenti che pure attardano, prima o poi, anche gli atleti più generosi. In questa corsa, l'unica esperienza che tutti gli uomini portano impressa sulla loro carne è, inevitabilmente, quella del dolore. Nella felicità  si è tutti diversi, solo il dolore ci fa uguali.

     

Un tema aspro e una domanda che interpella ognuno di noi, specchio com'è di un'inquietudine mai risolta: perché una storia che porta il segno della redenzione resta una storia di dolore? Allora, anche il laico vede nello stesso patire del Papa, il disegno di esplorare, 'sine pietate', la storia indomabile, qui, proprio del dolore. Di ciò, in un       modo che non saprei definire, lei si è fatto carico, lasciando che la croce di un tempo come il nostro venisse caricata sulle sue spalle. Non l'ha respinta né delegata, se l'è presa addosso.

     

Non so quale lezione, teologicamente, possa trarsi da questo incontestabile fatto; tuttavia, mi pare che esso racchiuda il senso del 'segno' primo affidato da Cristo a Pietro: essere fondamenta di un edificio per il quale non conteranno abbellimenti, decorazioni, trionfi, consistenza e tenuta, cioè il luogo su cui si poserà  la croce di ciascuno e di tutti. È dalle sue basi che si misura la solidità  della casa, e la storia del suo pontificato è già  lì a dimostrarlo; basti pensare a come si è calato negli orrori del mondo, ai gesti compiuti per condannarli e respingerli, agli accenti usati - in questo Occidente avaro di memoria - nel ripercorrere, coraggioso e leale, gli errori stessi della chiesa. Lei le ha conferito ulteriore grandezza morale usando parole chiare e severe, umili ma risolute; sapendo, come volle dire da Assisi, che non c'è un inginocchiatoio da cui una preghiera autentica salga più in alto.

     

È grazie a questo suo essere nella storia dell'uomo che, a mio avviso, la chiesa ritrova il suo gregge: nei paesi alienati dall'opulenza come in quelli in cui la parola profetica si fonde con l'urlo della fame, dove cioè il sangue di Cristo ha ancora per calice le mani degli afflitti. Nessun potente ha mai visitato e conosciuto le realtà  umane, sociali, spirituali del pianeta più e meglio di lei, instancabile nel proporre la visibilità  di Gesù, e questo è accaduto dal primo dei suoi viaggi fino al più recente, quello a Cuba mostrando un Cristo di misericordia, certamente, ma anche un Cristo che alle beatitudini ha       legato indissolubilmente quel 'guai a voi' cui lei ha dato nuova tensione. Io non sono in grado di dirle, Santità , se in tutta la sua opera debba leggersi il segno della provvidenza e se il suo intero viaggio manifesti tutto il disegno di Dio. È un terreno che non mi appartiene e, per certi versi, mi inquieta. Ma se l'essere uomini ha un significato, esso può stare solo nella combinazione di dolore e parola, di gesto e speranza che fanno insieme la nostra nudità  di viventi. È un travaglio di fragilità  e di forza, di peccato e di redenzione, in cui di continuo si misura e rigenera una condizione umana che comprende tutti, chi crede o non crede, chi dubita o è indifferente. Poi, ci sarà  sempre chi vivrà  più di un'esile farfalla, e meno di una maestosa quercia. È il segno della nostra finitezza terrena. Una lezione che lei ci offre ogni giorno, con il tremito delle mani e il tremore della voce, ma anche e soprattutto col pastorale piantato in terra, quasi a voler proclamare la più semplice e,  al tempo stesso, abbagliante delle verità : il nostro essere fatti per la       vita.

     

Di tutto questo, e di ben altro, la ringrazio.

   
   
     
     
               
         
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017