Sbarco alla capitale del Mediterraneo
È la seconda città di Francia, una città di mare, un luogo di frontiera. L’avete, forse, indovinato: Marsiglia. Vi arrivo un giorno di ottobre, di primo mattino, con un’ora di volo dal Veneto. Uscendo dalla bocca della metro, un primo saluto spruzzato in piena faccia: un fortissimo sapore di mare. È il suo abituale benvenuto. Il vieux port è il cuore pulsante della città. Qui la vita scorre tranquilla tra imbarcazioni, ristoranti, pescatori e turismo. Anche se Marsiglia non è una città per turisti. «La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere». Così lo scrittore Jean Claude Izzo, di origini italiane. Osservo curioso quello che mi circonda, cerco di capire la sua storia di ventisei secoli di ondate di emigrazioni, come funziona questa città, la più antica di Francia… Sembra una normale città di mare, ma nasconde una realtà ben diversa.
Raggiungo, così, la parrocchia del Bon Pasteur, dove sarò ospitato da p. Renato, scalabriniano, a soli dieci minuti dalla stazione centrale Saint Charles, blindata e protetta dopo gli ultimi avvenimenti. Qui un’altra sfaccettatura di questa meravigliosa città. La sicurezza e la tranquillità della vita cittadina si perdono. Lasciano spazio ad un quartiere differente. Per strada si parla arabo. I negozi, i bar, i magazzini di merce, invece, parlano di Africa. Un altro mondo. Un mondo in emigrazione dall’altra sponda del Mediterraneo, accampato qui. Vi sembrerà, così, di vivere a Tunisi o ad Algeri. Incontro, però, anche un pezzo di Sicilia, Sabina, venuta da Ravanusa (Agrigento) da più di quarant’anni. «Quando ti metti a emigrare è così. Agli inizi, quando di sera il buio scende sulla città, il buio ti entra dentro: ti senti persa» confessa timidamente. Ritrovare, poi, una parrocchia italiana, rue Jean Cristofol, l’ha salvata. Il senso di appartenenza ti fa vivere, ti fa sopravvivere. È la sensazione che percepisci nel volto delle persone che qui si incontrano come algerini, marocchini, comoriani, immigrati costretti ad abbandonare la propria terra. L’unica ricchezza rimasta, il senso di appartenenza ad una comunità. Sentirsi, così, un po’ a casa. Pur vivendo in un’altra terra.
Alla domenica, parrocchia Buon Pastore, ritrovi vecchi italiani, francesi, camerunesi, gabonesi… e i canti gospel di una corale di studenti universitari africani, come sottofondo alla celebrazione. Lanciano nell’aria un sapore di festa. Un senso di fraternità. Al momento della pace - lo si tocca con mano - tutte le persone si alzano e si stringono, molti si abbracciano come a dire «tu sei importante per me». Nonostante la povertà generale, il sentimento di fraternità e di comunità è forte. Palpabile. Marsiglia, infatti, prima di tutto è un luogo di storie, di incontri, di sguardi e di situazioni, le più inimmaginabili. Chiunque abita qui ha una storia da raccontare. Ha affrontato un viaggio per arrivarci. «Marsiglia è un’utopia. L’unica utopia del mondo - vi ricorderà ancora Izzo -. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: «Ci sono. È casa mia».
Alla sera, seduto al porto, con un sole lunghissimo che scende nell’acqua, mi godo una brezza che porta con sé il sapore del mare e profuma la città. Il sottofondo di un flauto rende magico questo istante. Osservo i calanchi, venti chilometri di spettacolare massiccio di roccia bianchissima alla periferia della città, che si tuffano direttamente nel mare, meta di camminatori tra profumi di Provenza e rosmarino selvatico. Ripenso ai volti delle persone che ho incontrato in questo viaggio, le mille storie in cui mi sono imbattuto. Victor, per esempio, un ragazzo sui 20 anni abbandonato dalla famiglia, incontrato ad un pranzo solidale in parrocchia, dove capoverdiani, africani, indiani portano qualcosa da condividere. Ed è uno di quei pranzi che ti fanno sentire a casa. Dove si respira una grande umanità, anzi il mondo. Aveva lo sguardo spento, ma occhi buoni, segnato da una vita di difficoltà e di violenza. Incontra qui uno strano spirito di famiglia, che ti guarisce dentro.
Marsiglia non è solo dolore. É anche speranza. Lo testimonia Alberto con la sua storia. Lo incontro per caso alla Cattedrale in riva al mare, strapiena di fedeli per una celebrazione di tutta la diocesi. Uomo distinto, ben vestito, un padre di famiglia dal volto disfatto dalla stanchezza. La sua è una storia che parte da Torino, alla ricerca disperata della figlia della quale non ha più notizie da mesi. Sono speranza e fede a dargli la forza di andare avanti. Dopo qualche giorno mi arriva la notizia… si sono ritrovati! Oppure (c'è la storia di) Marcella e Valeria, suore scalabriniane, che lavorano in un’associazione per i ragazzi e le famiglie musulmane del quartiere. Le trovi indaffarate dal mattino alla sera, senza sosta. E ti sembrano un miracolo di fede e di amore. Mi colpiscono queste persone. Accettano serenamente ciò che hanno, quello che la vita loro riserva. Forse lo si impara in una città di mare, dove tutto è mobile, provvisorio. Una città piena di contraddizioni come questa, terra di confine tra Europa e Africa. Un posto che racchiude speranza e disperazione, allo stesso tempo. Ma tanta umanità. E questo segna chiunque abbia il coraggio di guardare oltre le apparenze. Dove ogni osservatore esterno come me rimane incantato e disorientato… Sì, incanto e disorientamento. Non sarà questa un’altra lezione del mare?