Se cerchi bene, nessuno è sano
Enrico ha 65 anni ed è un avvocato di successo. Ha ricevuto a casa una provetta e l’ha rinviata all’Asl con un campione delle sue feci, nell’ambito di un programma rivolto a tutte le persone nella sua fascia di età, per la prevenzione dei tumori del colon. Risultato positivo, è stato invitato a sottoporsi al passaggio successivo, una colonscopia. Un po’ per la difficoltà di ritagliare in agenda il tempo necessario per effettuare l’esame, un po’ per la riluttanza nei confronti di un’indagine fastidiosa, continua a rimandare. Ma la voce gentile dall’altra parte del telefono non demorde, e cortesemente insiste. A quella voce senza volto Enrico deve molto: l’esame che alla fine si è convinto a fare ha rivelato infatti la presenza di un polipo, ancora innocuo ma destinato a degenerare nel giro di qualche mese in un tumore maligno. Lasciato a se stesso, per curarlo ci sarebbero voluti un intervento chirurgico e cure impegnative. Grazie al programma di screening, invece, come si chiamano gli esami condotti a tappeto su persone senza disturbi apparenti, la formazione è stata asportata già nel corso dell’esame, prima che potesse creare problemi, e il professionista è potuto tornare immediatamente alla sua vita di sempre.
I test genetici
«È indubbio che la diagnosi precoce, ottenuta attraverso i programmi di screening di cui è stata dimostrata l’efficacia, possa salvare la vita o preservarne la qualità» afferma Marco Zappa, direttore dell’Osservatorio nazionale screening. L’errore è pensare che questo sia un assunto universale, applicabile a ogni test e a ogni malattia. Una mentalità che ha portato la logica virtuosa della prevenzione a diversi eccessi. Paradossalmente, quegli stessi progressi della ricerca e della medicina che, almeno nei Paesi ricchi, hanno contribuito a migliorare il benessere generale in una misura che non ha precedenti nella storia dell’umanità, hanno alimentato nel contempo un clima in cui nessuno può dirsi veramente sano.
Se anche si sta bene, si può avere almeno un fattore di rischio; se manca pure quello, chiunque possiede comunque, tra gli anfratti del suo Dna, qualche gene che predispone a questa o quella malattia. E ormai non è né troppo costoso né complicato farseli cercare, tramite test genetici cui si accede facilmente nei laboratori privati o attraverso diversi siti on line. Il celebre 23andMe, per esempio, è il servizio finanziato da Google che, con poco meno di 100 dollari, dice quanto aumentato o ridotto rispetto alla media è il rischio di sviluppare più di duecento malattie come il cancro o l’infarto, ma anche qual è la probabilità di diventare calvi o di avere gli occhi azzurri. Ne vale la pena? «Assolutamente no» risponde Faustina Lalatta, responsabile del servizio di Genetica medica della Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena di Milano. «A differenza degli esami mirati, condotti sulla base di una precisa motivazione, per esempio la presenza di persone con una malattia genetica in famiglia, queste batterie di test, eseguiti alla cieca, difficilmente chiariscono la reale probabilità di sviluppare eventuali malattie. Generano, invece, preoccupazione o falsa sicurezza».
Gli esami per i neonati
La moda dei test genetici, molto diffusa negli Stati Uniti, e che sta prendendo piede anche in Italia, rispecchia in fondo il desiderio di controllare ogni aspetto della propria vita. Un atteggiamento che emerge anche dall’impressionante elenco di esami cui si sottopongono ripetutamente le donne in gravidanza, ben oltre quelli veramente necessari in una condizione del tutto naturale come la maternità. Si fanno per cercare in qualche modo la conferma che tutto andrà bene e che il bambino sarà sano. Una sicurezza che purtroppo ancora nessun esame può garantire.
«Utilissimi, invece, sono i programmi di screening sui neonati» spiega Marco Spada, direttore del Centro malattie metaboliche della Clinica pediatrica dell’Università di Torino, presso l’Ospedale infantile Regina Margherita. «Con una sola goccia di sangue si possono cercare, in tutti i bambini appena nati, malattie potenzialmente gravi se ignorate, ma di cui si possono evitare le conseguenze con provvedimenti semplici e poco costosi». Le prime furono l’ipotiroidismo congenito e la fenilchetonuria, già dagli anni Sessanta: una volta individuate alla nascita, basta un trattamento sostitutivo a base di ormoni per bocca in un caso, e una dieta attenta nell’altro, per cambiare drasticamente la sorte di moltissime persone prima destinate a condizioni di grave disabilità e ritardo mentale. Le innovazioni tecnologiche che si sono susseguite da allora consentono oggi, sempre con un’unica goccia di sangue, di individuare alla nascita decine e decine di altre malattie metaboliche ereditarie. Alcune però sono rarissime: conviene cercarle? Per altre ancora, invece, non esiste una terapia efficace: è giusto in questi casi segnalarle da subito alla famiglia?
A queste domande è stata data diversa risposta da Regione a Regione, ognuna delle quali sceglie autonomamente a quante e quali malattie dare la caccia. D’altra parte, anche negli altri Paesi europei lo screening non è esteso a tutte le malattie genetiche che si potrebbero scovare; anzi, in Gran Bretagna e Svizzera è assai più limitato che da noi. «A Torino – prosegue Spada – siamo stati i primi a ricercare una particolare categoria di patologie, dette “malattie lisosomiali”. Ma è problematico informare correttamente i genitori su condizioni di cui a volte è difficile prevedere l’evoluzione e che potranno dare segno di sé anche solo a partire dall’adolescenza». Conoscerle in anticipo consente di intervenire ai primi segni di danni agli organi, prima che questi diventino irreversibili. D’altra parte, questa informazione pesa come un macigno sulla serenità delle famiglie, e lo fa inutilmente nei casi che col tempo si riveleranno più lievi. «Per questo – propone il direttore del centro torinese – la strategia da seguire per definire su quali e quante malattie concentrare lo screening dovrebbe essere affidata a gruppi di pediatri esperti, e poi essere uniformata sul territorio nazionale. Gli screening per fenilchetonuria e ipotiroidismo sono stati paradigmatici per la medicina preventiva moderna, perché consentono con provvedimenti semplici e poco costosi di evitare al 100 per cento conseguenze gravissime». Lo stesso principio vale, sempre nei neonati, per la visita o tutt’al più l’ecografia mediante la quale si può individuare la displasia dell’anca, che a quell’età si tratta facilmente. Ed è questa la logica che dovrebbe guidare i programmi di screening rivolti ai sani, tutt’altra cosa rispetto agli esami cui è bene sottoporsi quando si manifesta un qualche disturbo.
Il successo del Pap test
Un altro dei più importanti successi in questo campo è stato quello ottenuto con il semplicissimo Pap test. Spiega Marco Zappa: «La sua diffusione nei Paesi più evoluti ha permesso una delle più importanti vittorie della medicina contro il cancro, perché con poca spesa e poco disagio ha drasticamente ridotto la mortalità per tumore del collo dell’utero, prima altissima». Ma anche qui non mancano gli eccessi. «Come ha dimostrato uno studio pubblicato qualche anno fa sul «Journal of the American Medical Association», la metà delle donne americane a cui è stato asportato l’utero continuano comunque a sottoporsi all’esame» racconta Gianfranco Domenighetti, docente di Comunicazione ed economia sanitaria presso l’Università della Svizzera italiana. E non è sempre facile per il pubblico capire il senso dello screening. «Un’indagine condotta dal mio gruppo di ricerca ha dimostrato che l’80 per cento delle donne italiane è convinto che il sottoporsi regolarmente alla mammografia eviti o riduca il rischio di ammalarsi di cancro al seno, mentre in realtà la diagnosi precoce consente solo un trattamento meno invasivo e maggiori speranze di guarigione».
Precisa Zappa: «Il parametro di cui tener conto per valutare l’efficacia delle iniziative a tappeto non è il numero di tumori trovati, che può trarre in inganno, ma la capacità del programma di ridurre la mortalità per una determinata malattia. E questo si stabilisce non solo in relazione al tipo di test, ma anche alla popolazione da controllare».
La sovradiagnosi da evitare
I programmi di screening previsti a livello nazionale (vedi box) consigliano quindi di effettuare gli esami sicuramente utili per la diagnosi dei tumori solo in determinate fasce di età in cui il beneficio è stato dimostrato. «È invece non solo inutile, ma addirittura dannoso diagnosticare una malattia che non si ha modo di guarire o di cui non si può cambiare la storia naturale» spiega il direttore dell’Osservatorio nazionale screening. Per questa ragione non ha senso sottoporsi a test cognitivi per scoprire in anticipo che la propria smemoratezza non è dovuta allo stress, ma a un Alzheimer incipiente. «Allo stesso modo – prosegue Zappa – non si può trarre alcun vantaggio dal riconoscere precocemente una patologia che ha basse probabilità di manifestarsi, magari perché a decorso così lento che non minaccerà mai la vita della persona».
Questo fenomeno, detto di «sovradiagnosi», è impossibile da verificare nel singolo caso prima che la malattia faccia il suo corso, ma, sulla base dei grandi numeri, spiega le riserve che molti esperti hanno sull’ipotesi di sottoporre tutti gli ultracinquantenni al dosaggio del Psa per la ricerca del tumore della prostata, o tutti i fumatori alla Tc spirale per scovare ogni nodulino al polmone.
Per non parlare dei rischi intrinsecamente legati ad alcuni esami: la biopsia da eseguire se il dosaggio del Psa risulta elevato è un’indagine invasiva; le Tc espongono a un’alta dose di radiazioni. È un fattore di cui tenere conto anche quando la Tc si chiede «per dare un’occhiata alle coronarie». «Un adulto che sta bene dovrebbe solo farsi misurare la pressione del sangue non più di un paio di volte l’anno e dosare i livelli di colesterolo una volta nella vita, tra i 40 e i 50 anni» dice Marco Bobbio, primario di cardiologia all’Ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo e autore del libro Il malato immaginato: i rischi di una medicina senza limiti (Einaudi, 2010). «I vantaggi di sottoporsi regolarmente a esami del sangue “di routine”, ad altre indagini periodiche o, peggio, a check up completi, non sono mai stati dimostrati». Anzi, Screening can seriously damage your health, ovvero «Lo screening può danneggiare gravemente la tua salute» titolò alcuni anni fa il «British Medical Journal», parafrasando le scritte che compaiono sui pacchetti di sigarette. L’espressione, che sembra paradossale, ha un suo fondo di verità.
Come sapere quando un esame si presta a un’indagine a tappeto su persone senza disturbi evidenti? La scelta è guidata da criteri ormai ben codificati:
-il test deve permettere di individuare la malattia prima che dia sintomi;
-devono esistere trattamenti efficaci capaci di modificare radicalmente l’andamento naturale della malattia;
-l’esame deve essere affidabile, sufficientemente sensibile da riconoscere un’alta percentuale di casi precoci di malattia e sufficientemente specifico da non allarmare senza motivo chi non ce l’ha;
-l’indagine deve essere innocua oppure, se presenta rischi (per esempio a causa dell’esposizione a radiazioni), questi devono essere ben bilanciati dai benefici che ci si può attendere in cambio;
-il programma deve essere mirato alla fascia di popolazione che, per età o altri fattori di rischio, potrà trarne maggiori benefici.
Su questa base, il Piano nazionale screening, per quanto riguarda la prevenzione oncologica, ha stabilito l’opportunità di sottoporre la popolazione ai seguenti esami, che possono essere proposti con modalità leggermente diversa da Regione a Regione:
DONNE
-dai 25 ai 64 anni, Pap test ogni 3 anni per la prevenzione del carcinoma del collo dell’utero.
-dai 50 ai 69 anni, mammografia ogni 2 anni per la diagnosi precoce del tumore al seno.
UOMINI E DONNE
-dai 50 ai 74 anni, ricerca del sangue occulto nelle feci ogni 2 anni (oppure rettosigmoidoscopia una volta nella vita e comunque non più di una volta ogni 10 anni).