Se il grano non muore
Possiamo apparire noiosi, ma su certi temi è meglio ritornare per chiarire e allargare il dibattito. Ci stimola a questo un discreto numero di risposte inviateci a commento della «lettera del mese» di gennaio. In essa, nel poco spazio concesso dalla forma epistolare, affrontavamo il tema dell`identità cristiana del nostro Paese, minacciata dall`inedita presenza di altre fedi, dell`islam in particolare, ritenuto più di altri invadente e chiuso a qualsiasi dialogo.
L`identità di un popolo è data da un complesso di elementi che ne caratterizzano la vita, fatti di cultura e tradizioni, che sono, nel nostro caso, espressioni nel tempo di una fede che ha in Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto, il suo motivo di essere e di perpetuarsi. Tale fede ` dicevamo ` richiede un`adesione piena, anche nelle sue implicazioni morali e di comportamento. Certo, la morale non è tutto, ma alcune scelte sono decisive nell`identificare l`anima di un popolo. Credere in Gesù Cristo e vivere in modo difforme dal suo insegnamento ci pare il modo migliore per far apparire l`identità cristiana come una bella chiesa priva di tabernacolo.
Per questo nella nostra risposta sostenevamo che la maniera più efficace per neutralizzare la minaccia musulmana, fosse proprio il «riscoprire con umiltà , coraggio e determinazione il nostro essere cristiani, per poi sostenerlo con la testimonianza di una vita coerente in ogni occasione privata e pubblica». Una bella conversione, insomma, che è tutt`altro che un atteggiamento «buonista» o un cedimento. Un popolo fortemente radicato nella propria fede difficilmente si lascia conquistare e non teme il dialogo perché la fiducia in Gesù Cristo e nella sua Parola lo rende sicuro.
Oltre a lettere di adesione al nostro punto di vista, di persone disponibili al dialogo, ne abbiamo ricevute altre di gente sdegnata, per la quale solo un`opposizione tenace è difesa dei valori cristiani e ogni dialogo è un tradimento.
Certamente la presenza di musulmani crea problemi complessi: non ci nascondiamo dietro un dito. Tuttavia, ci pare giusto ribadire alcuni concetti. Lo scorso gennaio, nella Giornata della memoria, nel presentare un libro-testimonianza ` Siamo ancora vive, edizioni Emp, ` di un`ebrea sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, la veneziana Amalia Navarro, sua nipote ha usato questa bellissima espressione: «Per poter accogliere l`altro nella tua casa è importante che tu ti trovi bene nella tua, che la conosca e sappia abitarla».
Molti di noi soffrono il disagio di vedere la nostra «casa» (cioè la nostra cultura, le nostre tradizioni) violata, assediata. Viene spontaneo allora costruirvi intorno una recinzione, metterla al riparo da incursioni di intrusi con ogni sistema di allarme. Corriamo, però, il rischio che, nell`ansia di difenderci, non abitiamo più serenamente la nostra casa e che, trincerati nel fortino assediato, sacrifichiamo le relazioni e ogni spirito di umanità .
Non vorremmo che questa immagine fosse ancora una volta interpretata come espressione di ingenuità o di pretenzioso e superficiale «buonismo». I giornali li leggiamo anche noi, guardiamo la tv, giriamo il mondo e senza paraocchi. Ma se vogliamo abitare senza disagio la nostra «casa» e fare realisticamente i conti con chi è tra noi e ha fede e cultura diverse, anzitutto, dobbiamo conoscerla la nostra casa, dobbiamo sentirci a nostro agio con la nostra storia e la nostra cultura. Non è togliendo i crocifissi dalle scuole o trasformando il Natale di Gesù in chissà quale festa che faciliteremo il dialogo con gli altri, come qualcuno ha scioccamente invitato a fare, ma recuperando e ribadendo con serenità la nostra identità e vivendola in tutte le sue implicazioni, anche morali.
Nella nostra risposta ci siamo permessi di osservare, visto come stanno andando le cose, che il radicamento nella fede del popolo italiano lascia a desiderare e qualcuno ci ha accusati di aver dato il cristianesimo per morto. Non siamo così pessimisti. Tuttavia, «se il grano non muore, non porta frutto», è detto nel Vangelo. Probabilmente, il cristianesimo ha bisogno di «morire» a tante cose che non gli appartengono per ritrovare la verità delle origini, che è di un Dio che in Gesù si fa povero, umile, lava i piedi, soffre e muore, per poi risorgere ed essere fondamento e sostanza della nostra fede. Solo così, morti e risorti con Cristo, saremo lievito capace di fermentare la massa resa inerte dall`egoismo e dalla superbia.