Seminare il ritorno

Sull'altipiano di Srebrenica, in Bosnia, un gruppo di famiglie di agricoltori e allevatori sta cercando di trovare la strada del ritorno e la trama della memoria, a vent'anni dalla guerra. Rinnovando il legame necessario tra terra e umanità.
27 Agosto 2014 | di

Metà luglio in altipiano. L’aria è tersa. Tutt’intorno prati e boschi. Siamo tra i novecento e i mille metri. La regione è quella del Podrinje, Bosnia orientale, ai confini con la Serbia. Arrivati in cima, si schiudono all’improvviso tanti piccoli borghi. Spruzzati sulla piana come un arcipelago. Una manciata di passi l’uno dall’altro. E, dentro, tante piccole case. Ognuna con uno spazio aperto dove si scoprono con piacere l’orto, il frutteto, la corte per gli animali. Tutte affacciate su più lati ai terreni dei vicini e, su uno, al passaggio pubblico. Così è più facile, senza steccati, scambiarsi i frutti della terra e della cucina. Così è più semplice stare vicini.
 
Più in là, la Drina. Nei libri di storia il fiume è indicato come il confine tra l’Est e l’Ovest europeo, tra la civiltà orientale e quella occidentale. Più sotto, Srebrenica. Basta solo il nome, questo nome, per rievocare gli orrori della «pulizia etnica». Da allora, a partire dal 1992 e fino al genocidio del luglio del 1995, la storia di Srebrenica e della Bosnia si racconta solo con un prima e un dopo quel capitolo. E allora, prima dello strappo, nel 1991, Osmacˇe aveva 942 abitanti e Brežani 273. Dopo è il nulla: nessuno vi ha abitato dal 1993 al 2002. Oggi un centinaio di persone vive nei borghi di Osmacˇe, mentre alcune famiglie sono tornate nei borghi di Brežani. Tanti piccoli gruppi di case a formare due villaggi diffusi.
 
Quassù, vent’anni dopo, un pugno di agricoltori e allevatori sta cercando la strada del ritorno e la trama della memoria. Ha iniziato a ricostrui­re le case, a curare la terra, a riconquistare una condizione umana perduta. Terra da amare. Non solo per il profitto, ma per seminare, coltivare e raccogliere i frutti di una nuova convivenza. Temi al centro, peraltro, dell’Expo 2015 che sarà dedicato al cibo e ai prodotti della terra, cultura e identità di un popolo.
 
«Osmacˇe e Brežani sono solo due dei tanti luoghi che raccontano la Bosnia, da sempre esempio di Paese multietnico – spiega Andrea Rizza Goldstein della Fondazione Alexander Langer che sostiene il progetto –. Luoghi simbolo di una convivenza possibile. Oltre le etnie, il credo, la lingua». Una storia lunga secoli. Qui vivevano, vicini gli uni agli altri, serbi (in gran parte ortodossi), croati (in gran parte cattolici) e soprattutto bosgnacchi (termine coniato nel 1994 per indicare i musulmani bosniaci), oltre a ebrei e rom.
 
Durante la guerra finiscono per spararsi l’un l’altro, anche se prima erano vicini di casa. Il conflitto strappa la vita della comunità. Riduce in brandelli ogni convivenza. Disperde i sopravvissuti. Molti non torneranno. Troppo duro fare i conti con una realtà che ancora gronda sangue e odio.

Vent’anni dopo, a Osmacˇe e Brežani, la bellezza della natura fa a pugni con una guerra le cui ferite sono ancora visibili. E, allora, in questa metà di luglio, sull’altipiano sferzato dall’aria tersa, non si può fare a meno di ammirare, con stupore, alcune pennellate di bianco. È il grano saraceno, nel pieno della fioritura. Seminato a giugno, darà i suoi frutti a settembre. Sarà allora che verrà raccolto. Tra prati e campi minati. Tra case sventrate e case ricostruite. Dove c’è ancora spazio per un seme.
 
I bambini son tornati
«Come si fa a non tornare nel luogo dal quale ti hanno mandato via?». Muhamed Avdic´ è uno dei tanti bambini della guerra. Bambini costretti a scappare, a lasciare la casa, la terra, gli affetti. Di notte, con pochi abiti addosso e poche cose. «Ero un bambino quando fui costretto ad andarmene. Finii a Srebrenica. Poi, con mia madre e le mie sorelle, riuscimmo a salire su un camion dell’Alto Commissariato per i rifugiati. Finimmo in un campo profughi a Tuzla. Mio padre rimase in città. Non riuscì a mettersi in salvo. Fu ammazzato mentre tentava di scappare. È tra i 2 mila 500 morti mai più ritrovati». Muhamed ha trascorso un’infanzia felice, a Osmacˇe. «Ho ricordi belli. In questi anni, però, ho incontrato persone che non hanno alcuna intenzione di tornare. Sono rimasto incredulo di fronte alle loro parole e mi son detto: “come si fa a non voler tornare nel posto dal quale ti hanno mandato via?”. Io ci sono talmente legato che, se non fossi tornato, avrei comunque il desiderio di farlo, almeno di tanto in tanto. Immagino non sia facile per chi ha vissuto una storia così terribile. È una continua lotta tra ricordi positivi e negativi». Muhamed aveva 11 anni. Vent’anni dopo è tornato tra questi boschi e questi prati. Ha messo su casa. E pure famiglia. Da un paio di mesi è diventato papà. I bambini di ieri e quelli di oggi stanno restituendo memoria e umanità a questi luoghi lacerati prima dall’odio e poi dall’abbandono. Insieme a Muhamed c’è anche Velibor Rankic´. Allo scoppio del conflitto, la sua famiglia fuggì in Serbia. I due si conoscevano da prima della guerra. Il padre di Muhamed era il preside dell’istituto comprensivo. Oggi quella scuola, che accoglieva 500 alunni, è abbandonata. Velibor è tornato a Brežani. Con Muhamed sta realizzando il progetto «Seminando il ritorno».
 
Osmacˇe e Brežani hanno vinto il Premio internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, XXV edizione, promosso dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche. Un Premio che propone, e coordina, azioni utili alla salvaguardia di luoghi in cui il lavoro, intellettuale e manuale, miri a valorizzare i patrimoni autentici di natura e memoria. «La verità è che a vincere è il bisogno di radici, di identità, di memoria» spiega l’architetto Domenico Luciani, presidente del Premio. A sostenere il progetto, Agronomi e Forestali Senza Frontiere (ASF); la Fondazione Alexander Langer; la Tavola Valdese; l’associazione di Cooperazione e Solidarietà (ACS) e la cooperativa agricola biologica El Tamiso, entrambe di Padova; il Centro Pace del Comune di Venezia, l’associazione Buongiorno Bosnia, Dobardan Venecija e il gruppo Adopt Srebrenica.
 
Piante pioniere
«Siamo stati ospiti di questa gente. Abbiamo ascoltato le loro storie, abbiamo visto i terreni e ci siamo resi conto della scarsità di mezzi – spiega Luca Michieletto, agronomo della cooperativa El Tamiso e membro di ASF –. Ma abbiamo gustato, ancor di più, l’ospitalità aperta e genuina. Le giovani famiglie hanno avviato un’attività agricola che dovrà fornire il reddito sufficiente al loro mantenimento, malgrado la scarsa superficie aziendale. Nel 2010 un contributo giapponese ha consentito l’acquisto delle sementi per i terreni di sette famiglie. Nel 2011 le stesse famiglie hanno messo a coltura 13 ettari, utilizzando parte delle sementi raccolte nell’anno precedente. Oggi le famiglie sono dodici».
 
La curiosità riguarda il tipo di coltura. Perché proprio il grano saraceno e non il frumento, l’orzo o l’avena? «La scelta riassume da sola l’intero progetto – prosegue Michieletto –. Questa coltura era già presente in passato nell’area di Srebrenica. In più predilige le zone montane e, a differenza di altre coltivazioni, non viene mangiata dagli animali selvatici, soprattutto cinghiali. Inoltre, fa una sorta di lavoro “sporco”. Prepara il terreno per altre coltivazioni. La terra, particolarmente argillosa, era diventata difficile da lavorare. Il grano saraceno entra, poi, in una rotazione “larga” con un cereale (grano, avena).

Dopo la raccolta, il terreno viene utilizzato come pascolo per capre e pecore. Insomma questa coltivazione fa tornare a vivere la terra e consente di produrre altre colture. Il tentativo è quello di recuperare l’agricoltura tipica di un territorio. Così come le famose patate di Osmacˇe. O un’altra primizia: i lamponi. Fino all’ultima sfida. Abbiamo trovato delle piante officinali spontanee. Si vorrebbe iniziare a prendersene cura e a coltivarle. Tutto a piccoli passi».
 
Qui, intanto, in questo luglio sull’altipiano, ci sono i fiori. E ce ne saranno altri. Perché, come ha detto Franjo Komarica, dal 1989 vescovo di Banja Luka, città plurietnica a maggioranza serba, in Croazia: «Un prato con molti fiori diversi è più bello di un prato dove cresce una sola varietà di fiori».
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017