Sentire o non sentire, questo è il dilemma

L’insidia della «menomazione che non si vede», la sordità progressiva, colpisce sempre più persone, complice l’innalzamento dell’età e il continuo bombardamento di decibel cui sono sottoposte le nostre orecchie.
25 Novembre 2009 | di

L’estate scorsa le rock star e i loro fan hanno protestato, ma il Comune di Milano ha tenuto duro. Non ha tutti i torti, infatti, a porre limiti al volume della musica nei concerti: occorre infatti cominciare a pensare all’inquinamento acustico nello stesso modo in cui si pensa a quello dell’acqua o dell’aria. Si calcola che la perdita di udito legata al rumore, una menomazione sempre irreversibile, colpisca più di trenta milioni di persone in tutto il mondo.

Uno studio pubblicato in agosto sull’American journal of public health, per esempio, ha preso in considerazione la quantità di rumore a cui sono esposti ogni giorno i cittadini newyorchesi che utilizzano i mezzi pubblici. I ricercatori della University of Washington e della Columbia University hanno così constatato che il picco di rumorosità si raggiungeva nella metropolitana, dove si registrano in media valori di 80 decibel con picchi di 100, equivalenti a quelli prodotti da una sega elettrica. «La maggior parte della gente – commenta Robyn Gershon, che ha coordinato la ricerca – sottovaluta gli effetti di queste continue stimolazioni, non solo sull’udito, ma anche sulla pressione arteriosa e sul cuore, sul rilascio di ormoni dello stress e sui disturbi del sonno, per non parlare delle difficoltà di apprendimento dei bambini, che sono state correlate a un ambiente rumoroso».
Una ricerca realizzata in Germania dal Dipartimento dell’ambiente su più di mille ragazzi dai 10 ai 14 anni ha dimostrato nel 12,8 per cento di loro la presenza di un deficit uditivo di una certa entità correlato al fatto di dormire in stanze rumorose. Anche l’Oms lo scorso ottobre è scesa in campo, pubblicando le Linee guida sul rumore notturno, dove si fissa a 40 decibel il limite di esposizione.
Contro il «rumore di sottofondo» cittadino, comunque, si può fare ben poco se non applicare alle finestre i doppi vetri o, come suggeriscono gli esperti statunitensi, dotarsi di cuffie o tappi per le orecchie quando si viaggia in metropolitana, un provvedimento che andrebbe adottato anche quando si va a caccia o si seguono gare di auto e moto. Infatti, mentre l’esposizione al rumore sul posto di lavoro è soggetta a una severa regolamentazione, per quella, per così dire, ricreativa, ognuno può contare solo sul proprio buon senso. Ci si lamenta di un vicino che muove mobili nelle ore notturne, ma difficilmente si considera pericoloso il rombo della propria moto o il volume della musica a un concerto, in discoteca o nelle cuffie del lettore mp3.


Gli auricolari? Sessanta e sessanta



Rumore ma non solo

Contro questa perdita c’è poco da fare: «Gli studiosi stanno cercando il modo di attivare le cellule staminali presenti nell’orecchio interno, che potrebbero rigenerare quelle distrutte, ma per ora reali prospettive di cura restano lontane». Attenzione però: non tutte le perdite di udito – in linguaggio medico «ipoacusie» – dipendono da stimolazioni acustiche eccessive. Possono essere chiamati in causa farmaci che danneggiano l’apparato uditivo, virus, otiti curate male, diabete, malattie autoimmuni o genetiche che si possono manifestare anche molti anni dopo la nascita.

Non c’è dubbio comunque che le continue sollecitazioni dei rumori e della musica si vanno ad aggiungere agli effetti dell’invecchiamento della popolazione, un fenomeno che porta già con sé un incremento nel numero di persone con difetti dell’udito. «Nel 1973 una ricerca effettuata da Demoskopea mostrava che erano sordi quattro italiani ogni mille – afferma Diego Zanetti, otorinolaringoiatra dell’Università di Brescia –. Dati Istat del 2000 stimano invece che in Italia il 18 per cento degli adulti (circa 8 milioni di persone) presenti un deficit uditivo, addirittura una persona su tre dopo i 65 anni». La sordità è quindi la seconda causa di disabilità dopo quelle motorie, e precede l’insufficienza mentale e la cecità.
Questo fenomeno per la società ha un rilevante costo economico, quantificato dall’Unione europea intorno ai 92 milioni di euro l’anno, che arriverà presto a 200 se continuerà l’incremento del numero dei casi. Per esempio, il 47 per cento delle erogazioni dell’Inail ai suoi assicurati è relativa a sordità da esposizione al rumore, con oltre 120 mila cittadini che hanno perso almeno in parte l’udito sul posto di lavoro. «E nonostante i casi di sordità grave e profonda restino una minoranza – precisa Cuda – anche le situazioni di minore entità sono comunque invalidanti».
La «menomazione che non si vede», come viene spesso definita, è infatti una condizione subdola che incide in maniera notevole sulla qualità di vita. «La cecità allontana le persone dalle cose; la sordità allontana le persone dalle persone» disse nel 1924 a un congresso, negli Stati Uniti, la sordo-cieca Helen Keller, dalla cui vicenda è tratto il libro e il film Anna dei miracoli. Soprattutto se non è grave, la sordità spesso non viene riconosciuta né da chi circonda il malato né dal diretto interessato, che tende ad attribuire ad altri la colpa della sua difficoltà di comprensione: «Parlano in fretta, si mangiano le parole» sostiene per giustificarsi chi ha difficoltà a capire. Negando l’evidenza, ma faticando a partecipare alle conversazioni, l’individuo tende a isolarsi, rinunciando alla partita di carte tra amici o al ristorante in compagnia: «Questo ritiro relazionale, che tinge tutto di grigio, può favorire la comparsa di una depressione, soprattutto negli anziani, in cui si somma ad altri disagi» sostiene Cuda. E Zanetti incalza: «Gli effetti sull’individuo dipendono da molti fattori (il tipo e il grado della sordità, la data di comparsa della menomazione, l’educazione della persona e la rieducazione a cui si è sottoposta dopo essere diventata sorda), ma in ogni caso l’aspetto deteriore è la difficoltà di comunicazione del sordo con chi sente, e viceversa».


Meglio prevenire

Che fare quindi? «Prima di tutto non sottovalutare i campanelli d’allarme – risponde Cuda –. Quando inizia un’ipoacusia in genere si riesce a seguire bene una conversazione in un ambiente silenzioso, ma si fa difficoltà in un ambiente affollato e rumoroso». In questi casi è meglio sottoporsi subito a un controllo dell’udito. «Se si inizia per tempo è possibile un miglior recupero – conclude Cuda –; quando invece sono passati molti anni dall’inizio dei disturbi, anche le aree del cervello deputate a ricevere ed elaborare i suoni possono essersi atrofizzate. In questi casi tornare a sentire bene è molto più difficile, anche avvalendosi di apparecchi acustici e protesi di vario tipo». Ancora una volta, quindi, prevenire è meglio che curare. Per questo le due cliniche di otorinolaringoiatria delle Università di Brescia e Verona, insieme con quella di audiologia dell’Università di Milano, e in collaborazione con le Terme di Sirmione, hanno promosso una campagna per sensibilizzare la popolazione sulle modalità per impedire danni all’udito. Un’iniziativa analoga, titolata Don’t lose the music (non perderti la musica), è stata lanciata già da qualche anno dal Royal national institute for deaf people (Rnid), l’associazione britannica degli audiolesi. Chiaro il messaggio rivolto ai giovani: se non vuoi rischiare di rinunciare alla musica per sempre, rassegnati ad abbassare il volume. «Anche i produttori di lettori mp3 hanno una certa responsabilità in tutto questo – ha dichiarato Angela King, audiologa dell’associazione –. Potrebbero fare di più per informare i giovani, attraverso l’impiego di avvisi speciali e adesivi inclusi nelle confezioni». Alcuni – tra cui uno dei leader del mercato, Apple, produttore degli iPod – hanno per fortuna già iniziato a muoversi in questa direzione.
E se il tentativo di convincere i ragazzi con le buone non basta, si può ricorrere ai modelli dotati di limitatore di volume: con questi, i genitori possono impostare il volume massimo del suono e bloccarlo grazie a un apposito codice di accesso.



Terapie. L’orecchio bionico e i dispositivi anti sordità


Gli impianti cocleari hanno restituito la speranza di tornare a sentire alle persone affette dalle sordità più gravi.


Il padre dell’orecchio bionico, a ben guardare, è stato addirittura Alessandro Volta. Mentre sperimentava la pila che lo ha reso noto, avvicinando i fili elettrici ai lati della testa, il famoso scienziato registrò nei suoi diari di aver avvertito non solo una scossa, ma anche dei suoni. È su questa osservazione, adeguata alle conoscenze di oggi, che si basano gli impianti cocleari, i dispositivi che hanno restituito la speranza di tornare a sentire alle persone affette dalle sordità più gravi, presenti alla nascita o acquisite nel corso della vita per varie ragioni, genetiche o accidentali. «Sono costituiti da due parti – spiega il professor Diego Zanetti, responsabile del programma degli impianti cocleari alla clinica otorinolaringoiatrica dell’Università di Brescia –. Una si applica all’esterno, l’altra è impiantata dal chirurgo in profondità nell’orecchio interno, da dove trasmette al nervo acustico i suoni sotto forma di impulsi elettrici».

Questi interventi, molto costosi sebbene coperti dal sistema sanitario nazionale, sono riservati ai casi più gravi ed eseguiti solo in centri specializzati. Nella maggioranza dei casi, alla perdita di udito si può ovviare con dispositivi che si limitano ad amplificare i suoni elaborandoli, da indossare all’esterno (i classici apparecchi acustici) oppure da inserire in parte o in toto nell’orecchio, tramite un intervento chirurgico meno invasivo di quello necessario per gli impianti cocleari (protesi semi-impiantabili).

«Purtroppo, in tutto il mondo, solo una minoranza delle persone che ne avrebbero bisogno portano gli apparecchi acustici – commenta il professor Cuda –. Nei Paesi più poveri il problema può essere il costo, ma anche in quelli più avanzati la quota di chi li utilizza non supera il 30 per cento». Ciò in passato dipendeva dal fatto che questi strumenti, pur utili, potevano essere molto fastidiosi, amplificando anche i rumori di sottofondo oltre ai suoni e alle parole. «Oggi però sono tutti digitali e, se applicati non appena il disturbo si presenta, possono dare ottimi risultati». Inoltre, anche dal punto di vista estetico, si è fatto tutto il possibile per renderli quasi invisibili. Una parte esterna, comunque, resta anche nelle protesi semi-impiantabili: «Si applicano con una calamita, mentre la componente inserita nell’orecchio medio con l’intervento chirurgico permette di ottenere un segnale meno distorto rispetto agli apparecchi esterni». Questa metodica è utilizzata da una decina di anni, per cui ormai se ne conoscono bene limiti e vantaggi.
«Ancora ai primi passi invece sono i dispositivi totalmente impiantabili all’interno dell’orecchio» aggiunge Zanetti. Una soluzione che può sembrare senz’altro preferibile soprattutto per chi accetta malvolentieri la presenza di un apparecchio, per quanto ridotto, visibile all’esterno. «Con questi, invece, non ci sono parti visibili e pure la pila può essere ricaricata dall’esterno pur restando dentro l’orecchio» dice Cuda. I vantaggi sono anche pratici: per esempio la protesi non deve essere tolta quando si dorme o si va in acqua. «Ma ci sono anche degli inconvenienti – puntualizza Cuda –. A oggi sono disponibili due modelli: uno prevede un microfono sottopelle, che al contatto può scatenare rumori fastidiosi; con l’altro bisogna asportare chirurgicamente uno degli ossicini che trasmette il suono dalla membrana timpanica all’orecchio interno. L’apparecchio lo va a sostituire, ma se per qualunque ragione in un secondo tempo bisogna rimuoverlo, alla sordità di base si andrà ad aggiungere quella provocata dalla nuova menomazione». Questi prototipi non sono ancora coperti dal servizio sanitario nazionale.
Ogni soluzione, quindi, ha i suoi pro e i suoi contro, che vanno discussi nei singoli casi tra medico e paziente. «Allo stesso modo – conclude Cuda – non esiste una soglia oltre la quale si raccomanda l’uso dell’apparecchio o un intervento: ogni persona, in relazione alla sua attività professionale o al suo stile di vita, può trovare più o meno tollerabile un difetto dell’udito di qualsiasi entità esso sia. È quindi dal colloquio tra medico e paziente che emerge la migliore strategia individuale».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017