Sessantotto alla prova del nove
Il quarantennale del ’68, in una società nella quale i mass media lavorano come un tritatutto e per di più d’anticipo, è già stato celebrato a dovere. Molti hanno sparato ad altezza-uomo contro un bersaglio fin troppo facile da colpire, anche duramente, per gli eccessi che tutti ricordiamo. Altri hanno rinnovato la memoria di un evento mitizzato e collocato al di là del bene e del male, rilanciando la mobilitazione per gli eterni insegnamenti scaturiti da una data quasi sacralizzata. Ma il bianco e il nero, si sa, sono colori che non si danno quasi mai nella loro integrale purezza, e il più delle volte la realtà si dispone su di un’ampia gradazione di grigi. Questo vale, a maggior ragione, per quelle date-simbolo che non hanno bisogno di didascalie e che si sono appesantite di letture ideologiche, a senso unico in una direzione o nell’altra. Quel che è vero è che l’anno fatidico del ’68 ha diviso la storia del XX secolo e oltre in un prima e in un poi, facendo da spartiacque tra due segmenti temporali di segno diverso. Come un cuneo che si interpone tra due mondi, che li spacca mentre li tiene ancora uniti.
Veniamo ora ad alcune letture del ’68, per forza di cose schematiche e forzate. Ho l’impressione che oggi siano in molti a giudicare il periodo inaugurato in Europa dall’inquieto maggio parigino a partire dal dopo, dalle conseguenze, da quanto è avvenuto successivamente: il collasso dell’autorità con il trionfo del «vietato vietare», il ripudio del padre e di ogni continuità nella forma della tradizione, la perdita secca di credibilità di una certa politica e la velleità di mandare l’«immaginazione al potere», la riabilitazione della soggettività femminile, l’assemblearismo estenuante e spesso inconcludente che dà a tutti e a vanvera la parola, il montare di utopie distruttive, il dileguarsi e il dissiparsi della morale dominante, e molto altro… Una continuità, forse troppo presidiata e non vantaggiosa per molti, veniva spazzata via e messa in balìa delle piazze e delle folle. Di giovani, bisogna subito aggiungere, perché la miccia è stata innescata da questa particolare e allora emarginata (come d’altronde anche oggi) categoria sociale.
Se il «dopo», con le sue propaggini contemporanee, è più facilmente leggibile, ci vuole uno sforzo di memoria per ricordare il «prima». Abbozzo: un’autorità che spadroneggiava, una tradizione ribadita anche quando stantia, una politica ingessata e pedante, una femminilità declassata, una partecipazione ridotta e formale, una morale non raramente di facciata.
Per quanto riguarda la Chiesa, alla rivoluzione del ’68, che ha prodotto non pochi scossoni, qualche maligno aggiunge l’aggravante del concilio Vaticano II, che avrebbe già prima contribuito a indebolirla. Lettura superficiale, perché senza il vento in poppa del Vaticano II la barca di Pietro avrebbe rischiato ancora di più: lo dice il cardinale Roger Etchegaray (J’ai senti battre le coeur du monde, Fayard 2007, p. 88). Inoltre va ricordato che in Italia il ’68 è anche l’anno di nascita della Comunità di Sant’Egidio, un tempo di crogiolo per molti preti di strada (uno per tutti don Ciotti col «Gruppo Abele») e comunità cristiane che cercano la propria via al Vangelo (la fraternità di Bose, nata nel 1965, muove i suoi primi passi), e che nel crinale tra la fine del 1968 e l’avvio del 1969 don Giussani dà inizio al movimento di Comunione e Liberazione. Tempo fecondo di incubazione, quindi, per la Chiesa italiana tutta.
Ma torniamo al punto centrale del nostro discorso. Del ’68, oltre naturalmente agli esecrabili esiti violenti, non rimpiangiamo l’acritico abbandono della tradizione nel senso migliore, e neppure quel protagonismo che si è poi trasformato in assolutismo della soggettività. Ci manca, quella sì, la passione del ricominciare, insieme, nella direzione del futuro.