Sette perle incastonate nel Tirreno. Eolian Park

Colonizzate in epoca classica, centro di fiorenti commerci e di turismo, paradiso naturale di geologi e botanici, queste isole siciliane sono abitate da gente cortese, paziente ma orgogliosa.
01 Luglio 1998 | di
Panarea

Sono sette le isole che formano l'arcipelago eoliano. Ognuna di esse ha un segno inconfondibile: il vulcano o i resti archeologici, la fuga di terrazzamenti bianchi o la selvaggia natura, la zona di acque sulfuree o le cave di pomice che scendono verso il mare. Tutte insieme formano un immenso e spettacolare museo abbracciato dal mare Tirreno; un museo ricco di tesori naturali e di preziose tracce di un passato anche lontano: dai primi colonizzatori arrivati dalla Grecia per commerciare l'ossidiana e l'allume, ai romani che vi combatterono battaglie navali contro i cartaginesi, dai pellegrini che venivano per le reliquie dell'apostolo Bartolomeo ai pirati musulmani e ai corsari in cerca di schiavi nel Cinquecento. L'avvento della modernità  e le numerose migrazioni (molti eoliani vivono oggi in Australia, a Melbourne, dove si festeggia anche l'«Eolian Day») non hanno stravolto il senso della vita isolana, l'umore della gente che resta cortese e orgogliosa, educata alla pazienza, all'arte di aspettare e ascoltare, a far tesoro dell'acqua, del vitto e dello spazio.

La più grande isola delle Eolie è Lipari, per secoli attivo centro di commerci, come attesta la grande quantità  di anfore rinvenute nei numerosi relitti adagiati sui fondali. Lipari è solcata da una miriade di sentieri che, fino a quando la strada asfaltata non ha collegato tutti i centri dell'isola, venivano utilizzati dagli isolani per raggiungere le cave di pomice della costa settentrionale e orientale. Il Museo archeologico, con la ricchezza di materiali che conserva, costituisce l'introduzione migliore a una visita dell'isola. Nelle sale spiccano anfore greco-italiche e ceramiche dell'età  del bronzo, bellissimi vasi e crateri greci a figure nere e rosse, curiosi modellini fittili di maschere e personaggi della commedia greca. E, per congiungere storia e leggenda, il grande bothros di Eolo, un pozzo votivo, risalente al VI secolo a.C., del santuario dedicato al signore dei venti. Ma c'è una sorta di museo nel museo: è la rocca su cui sorge l'edificio vero e proprio. Si tratta di una formazione vulcanica in cui la successione stratigrafica, con i reperti delle antiche culture che vi sono imprigionate, si è conservata in modo eccezionale. Questo è dovuto a un particolare fenomeno vulcanico: l'accumulo delle ceneri trasportate dal maestrale. Il deposito, che raggiunge i dieci metri di spessore, è un prezioso archivio della preistoria e della storia dell'isola: la rocca, chiamata anche Acropoli, mostra chiaramente di essere stata scelta per millenni come luogo centrale delle varie ondate insediative. Così, vi si trovano sovrapposte o confinanti, strade ellenistiche e chiese cinquecentesche e barocche, torri normanne e cinte spagnole, capanne dell'età  del bronzo e una cattedrale d'impianto antico, forse bizantino.

Se Lipari è l'isola più grande e più frequentata dai turisti, Alicudi è la più occidentale, piccola e «selvaggia» delle Eolie. I suoi abitanti, fortunati ospiti di una terra perduta nell'azzurro del Tirreno, sono appena un centinaio. Gli arcudari (così si chiamano gli abitanti) non sono mai stati numerosi e i loro poveri averi non hanno mai suscitato le brame dei conquistatori che, invece, mettevano spesso a ferro e fuoco le altre, più ricche isole dell'arcipelago. Se si escludono i pirati saraceni, alla perenne ricerca di schiavi e di donne per i loro harem, erano davvero in pochi a turbare la quiete di questa lontana isola. Per la sua posizione decentrata, Alicudi ha sempre vissuto ai margini degli eventi che hanno scandito la lunga presenza dell'uomo nelle Eolie. Accade lo stesso anche oggi: Alicudi è rimasto l'unico luogo dove non esistono mezzi a motore di nessun genere. L'unico ausilio utilizzato sull'isola per muovere merci e rifornimenti ha una tradizione millenaria: l'asino. Le abitazioni, disseminate sui crinali rocciosi, formano uno splendido presepe di sapore mediterraneo e sono raggiungibili solo attraverso le scalinate di pietra lavica, costruite magistralmente a secco, secoli addietro, dagli isolani. Le case, dalla tipica architettura eoliana, sono formate da due o tre camere, cucina e piccoli locali di servizio utilizzati un tempo per gli animali e per le lavorazioni agricole. I greci chiamarono l'isola con il nome di Ericusa, per l'abbondanza di erica. Ma ad Alicudi crescono numerose altre specie botaniche spontanee: il nobile Luigi Salvatore d'Austria ne elenca ben 45 nel suo libro Alicuri, scritto nel 1896.

Anche Filicudi affascina per la sua selvaggia bellezza. Compiendo il periplo dell'isola si possono ammirare le bizzarrie geomorfologiche della costa: archi naturali, scogli come Canna, un faraglione alto 70 metri, e grotte dalle acque terse come quella del Bue Marino. Il porticciolo di Filicudi è chiuso da un promontorio, dove all'inizio dell'età  del bronzo vennero a istallarsi nuove genti, forse proprio gli eoli delle leggende greche. I resti delle abitazioni occhieggiano sulla cima piatta di Capo Graziano, tra i terrazzamenti che parlano di una dura agricoltura ormai abbandonata.

Le sagome delle montagne gemelle di Salina, indussero gli antichi a battezzare l'isola con il nome di Didyme (dei monti gemelli appunto). Oggi, Salina è l'isola più verde e coltivata dell'arcipelago. I suoi sapori si identificano in due prodotti che vengono esportati in tutto il mondo: capperi e vino Malvasia. La più alta concentrazione della coltivazione del cappero, che non è un frutto bensì il fiore della pianta, si trova nel magnifico scenario di Pollara. Un altro angolo magico dell'isola è il monte Fossa delle Felci. Il sentiero che s'arrampica sulla montagna più alta dell'arcipelago è un viaggio nella macchia mediterranea che si trasforma, passo dopo passo, fino al cratere del vulcano addormentato.

Che Vulcano sia un'isola ancora «calda» di attività  vulcaniche secondarie lo si vede già  in porto, con una zona lungo la spiaggia che ribolle di fumarole sottomarine. Nell'isola del vulcano per antonomasia tutto parla dell'incandescente anima del cratere (500 metri di diametro): in vetta gas e cristallizzazioni di zolfo creano un ambiente infernale. Vulcano è l'unica delle Eolie ad aver risentito della speculazione edilizia, ma fortunatamente questa si concentra in una piccola porzione dell'isola, tra Vulcanello e il porto.

 

Stromboli consiste praticamente nell'immenso cono del suo vulcano in perenne attività  (esplosioni regolari ogni venti minuti con lancio di lapilli e magma). L'attività  eruttiva è segnalata anche di giorno dalle frequenti frane che scendono al mare lungo i fianchi del monte. La Sciara del Fuoco è il colatoio del vulcano originato dalla lava nella sua incandescente discesa verso il mare tra Piscità  e Ginostra. Da qui, si può osservare la reale e imponente dimensione del vulcano, la cui vetta sfiora i 924 metri.

Lasciata Stromboli con le sue fumate e i suoi boati si arriva a Panarea. Dello stesso antichissimo complesso vulcanico di Panarea, fanno parte lo scoglio di Dattilo, una piramide biancorossiccia di 100 metri d'altezza e l'isolotto di Basiluzzo, sulle cui rive si stanno cercando le tracce di una darsena romana. L'isola offre il meglio di sé all'arrivo, quando si fiancheggiano le acque smeraldo di cala Junco, tra scogliere animate dai gabbiani. Sulla cima pianeggiante di punta Milazzese si intravedono le basi ovali delle capanne della media età  del bronzo. È la traccia tangibile e suggestiva di una delle tante, remote fasi di occupazione umana delle Eolie su quella che è geologicamente l'isola più antica.

 

 

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017