Sharon e Barak
In febbraio gli israeliani andranno alle urne. Le elezioni hanno acquisito il tenore di un referendum pro o contro la pace. Un ritratto dei due contendenti e i loro programmi. |
L' Ariel Sharon, il falco I pellegrini che percorrano la «Via dolorosa» a Gerusalemme, a un certo punto potrebbero scorgere una bandiera israeliana sventolare da un appartamento. È un' abitazione che Sharon ha voluto acquistarsi in pieno quartiere arabo per ostentare il «diritto» degli ebrei ad abitare ovunque nell' «Eretz Israel» (l' Israele dei tempi biblici). E lui stesso, con un altro gesto ostentato, la visita alla «spianata del Tempio» - dove oggi sorgono però le mosche musulmane di Omar ed El-Aqsa - è da molti indicato come la causa scatenante della nuova «intifada» araba, dal 28 settembre dello scorso anno.
Le vittorie militari di Barak Ehud Barak non ha nulla da temere quanto a confronti sulle glorie militari (anche se le sue sono state meno spettacolari). Se Sharon ha comandato la «compagnia 101», celebre per le azioni di commandos, infiltrandosi in mezzo alle linee nemiche, Barak ha diretto un' unità speciale altrettanto agguerrita, la «Sareyet Mahtal», ed è l' ex generale più decorato della storia d' Israele. Ma è anche il politico già «sponsorizzato» da Leah Rabin, la vedova del primo ministro assassinato nel 1995 da un estremista israeliano perché stava guidando verso la pace con i palestinesi. A 58 anni, Barak appare certo più rappresentativo delle generazioni montanti di Israele che l' ultrasettantenne Sharon, fortemente ancorato al passato. Ha dimostrato di essere un politico freddo e razionale, ha azzeccato la prima parte dell' azzardo delle elezioni anticipate, ma oggi occorre qualcosa di più. Se è esatto il giudizio che di lui ha dato il navigatissimo Kissinger: «È il politico più intelligente che io abbia incontrato», deve attingere a un supplemento d' intelligenza e anche far appello a più passione e più coraggio per vincere la sfida della pace. Per fare accettare alla maggioranza del suo popolo, e non solo agli intellettuali e alla parte più avanzata, un compromesso certo difficile, forse lacerante per molte coscienze, ma indispensabile alla pace. E alla giustizia, che richiede la nascita di uno stato palestinese non antagonista ma convivente con Israele.
In Israele il panorama politico è alquanto frammentato (come in Italia, d' altronde). Accanto ai due maggiori partiti, il Marach (laburista) di centro-sinistra e il Likud (unità ) di centro-destra, c' è una miriade di partitini di ispirazione religiosa o a base etnica (come quello dei russi, recenti immigrati) che quasi sempre diventano l' ago della bilancia per il governo. Che è quindi sottoposto continuamente alle loro richieste di ordine corporativo, con contraccolpi negativi sulla stabilità . Per questo, si è deciso di bilanciare la Knesset (il parlamento) con un premier forte, eletto direttamente dal popolo (l' idea è circolata anche in Italia per favorire la governabilità ).
Barak si è dimesso, ma non altrettanto ha fatto la Knesset: si sa che i deputati preferiscono finire la legislatura, perché non è sicura la rielezione. E così Barak ha tagliato la strada al suo più pericoloso oppositore, quel Benyamin Netanyahu, che, travolto dagli scandali pubblici e personali, aveva largamente battuto alle elezioni del 1999, ma che ora appariva in decisa rimonta. Netanyahu non era automaticamente ricandidabile se la Knesset non si auto-scioglieva, e ha quindi preferito rinunciare a scendere in lizza.
Sul versante opposto, Barak aveva un possibile concorrente all' interno del suo stesso partito in Shimon Peres. È considerato la «colomba» dello schieramento, uno dei pochi politici che sa unire la concretezza ad accenti profetici, ispirati a Isaia e ad altri profeti biblici. Ma Peres non ha trovato nessun partito disposto a sponsorizzarlo - come richiede la legge elettorale - anche i pacifisti hanno dato ascolto all' ammonimento (e alle mosse dietro le quinte) di Barak, di «non dividere il campo della pace». E così, infine, Barak si è trovato a fronteggiare proprio l' oppositore che preferiva, quell'Ariel Sharon considerato, dentro e fuori Israele, come il «capo politico dei falchi».
Una delle «nuove colonie» piantate in mezzo al territorio della Cisgiordania, futuro stato palestinese, una colonia esemplare con alberghi per visitatori, si chiama «Ariel», non tanto in memoria dell' angelo quanto in onore di Sharon. La sua biografia è ricchissima di eventi militari: giovanissimo, già militava nell' organizzazione ebraica di autodifesa ai tempi del dominio coloniale inglese, poi si è distinto in tutte le battaglie che Israele ha dovuto affrontare per la sopravvivenza. Il suo capolavoro risale però alla «guerra del Kippur» (ottobre 1973) quando l' esercito egiziano, approfittando della festa religiosa ebraica, aveva attaccato di sorpresa, sfondando le linee israeliane, che allora si trovavano lungo il Canale di Suez. Sharon, che era smobilitato, immediatamente riveste la divisa di generale, riprende il comando di un' unità , attacca a sua volta nella zona dei Laghi Amari, dove il canale si allarga in distese d' acqua naturali che sembrano formare una barriera naturale. Questa viene, invece, superata di slancio dagli anfibi in una «offensiva-lampo» che taglia in due le linee egiziane, capovolgendo la situazione.
A 72 anni Sharon è ingrassato e appesantito, ma in lui nostalgici, conservatori, nazionalisti continuano a vedere la figura del «capo invitto». Ha cercato di ammorbidire la fama di super-falco incontrando, negli anni passati, degli stretti collaboratori del leader palestinese Arafat. Ma in segreto, non pubblicamente. E gli incontri non hanno avuto alcun seguito, non hanno ammorbidito la sua linea intransigente pro-colonie palestinesi in Cisgiordania e sulla indivisibilità di Gerusalemme, dove vuol continuare a ostentare casa in pieno quartiere arabo. Anche se è prevedibile che, in campagna elettorale, cerchi di apparire più possibilista, non per vera convinzione, ma per raccogliere i voti dei moderati che cercano sì la sicurezza, ma anche la pace.
Qui ho tracciato il ritratto di due ex generali che concorrono alle elezioni in due campi diversi. Ma le elezioni, se la tensione con i palestinesi non diminuisce, se la nuova Intifada si inasprisce, se Arafat rigetta il «piano di pace Clinton», potrebbero condurre a un esito inatteso: non alla vittoria di un campo sull' altro, ma all' alleanza fra Barak e Sharon, chiunque sia il vincitore, nel nome di un' «unione sacra» nazionale di fronte al «pericolo comune». Così si può concludere che molto dipenderà dalle mosse di Arafat, del leader palestinese: se si muoverà con decisione verso il dialogo, allora darà un sostegno decisivo al «campo della pace» israeliano. Altrimenti, l' intransigenza favorirà altra intransigenza, e non resta che attendere il peggio.
A lla fine di dicembre, quasi al termine del suo mandato, l' ex presidente americano Clinton ha presentato una «bozza» di accordo per la pace fra israeliani e palestinesi in dieci punti.
I principali: - il 5 per cento dell' attuale Cisgiordania, dove sono più addensate le colonie ebraiche, verrà annesso a Israele (comprendendo 150 mila coloni su 175 mila). Le altre colonie saranno abbandonate, eccetto dei piccoli insediamenti a Hebron, attorno alla «tomba dei patriarchi», che verrebbero ffittati dallo stato palestinese per vent' anni. - Il futuro stato palestinese, in cambio, otterrà un territorio israeliano del deserto del Negev adiacente alla striscia palestinese di Gaza. - Gerusalemme diventerà la «capitale di due stati», spartita in due: Gerusalemme-est (con 180 mila abitanti) allo stato palestinese, mentre i nuovi quartieri ebraici che la circondano (con 200 mila abitanti) saranno ricongiunti a Gerusalemme-ovest, già israeliana. - I profughi palestinesi che vivono in diaspora dal 1948 (in Libano, Giordania, Siria) potranno tornare solo nel futuro stato palestinese e non in Israele. Inizialmente erano 800 mila, ora per incremento demografico raggiungono i 4 milioni. Oppure cercare di inserirsi dove vivono, fruendo di un cospicuo indennizzo (che è stato calcolato in 40 milioni a persona). È la forma di lotta di massa dei palestinesi, organizzata dall Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) nei territori occupati da Israele nel 1967 (Cisgiordania e Gaza). Iniziata nel 1987, si caratterizza per forme di disobbedienza civile, manifestazioni illegali (esposizione della bandiera palestinese) accompagnate dall' uso di armi improprie, lancio di sassi, soprattutto, nei quali sono particolarmente addestrati bambini e ragazzi. Ripresa in forma massiccia e violenta lo scorso anno, ha già fatto alcune centinaia di vittime in poco tempo.
L A «PROPOSTA CLINTON» PER LA PACE
La parte più sofisticata dell' accordo riguarda il nucleo storico, la «città santa», che verrà anch' essa divisa: i quartieri musulmano e cristiano ai palestinesi, quello ebraico e parte dell' armeno agli israeliani. La spianata dove sorgeva il Tempio ebraico (distrutto da Tito nel 70 d.C.) o Monte Moria («della luce») per gli ebrei, ma dove ora sorgono le moschee di Omar e El Aqsa (Haram a-Sharif per i musulmani, il «nobile santuario»), passeranno in superficie allo stato palestinese, che non potrà però effettuare scavi nel sottosuolo (dove rimangono le fondamenta del tempio ebraico).
Il nuovo presidente, George Bush jr., ha detto di aver fatto sua la proposta. Ma è probabile che, se essa dovesse essere rigettata da una o da entrambe le parti, cercherebbe un approccio più graduale e meno globale al problema, che non si vede però dove potrebbe condurre, se non a un disimpegno da parte della diplomazia statunitense.
INTIFADA