Si riaccende la passione italiana
L’Italia si tinge di rosa. Lo farà dal 10 maggio al primo giugno per l’edizione numero 91 del Giro d’Italia. Da Palermo a Milano la carovana – all’insegna dello slogan «Si riaccende la passione» – percorrerà, in ventuno tappe, ben 3.423,80 chilometri attraversando sedici regioni italiane con uno sconfinamento in Svizzera.
Attento interprete, più di quanto si possa immaginare, della nostra storia vicina e lontana, il Giro toccherà quest’anno le zone colpite dai disastrosi incendi della scorsa estate e, insieme, i luoghi della Grande Guerra, a ricordo dei caduti di ogni conflitto. Dalla Sicilia alle Alpi, linguaggi, case, luoghi, città e paesi, monumenti e paesaggi, del tutto diversi tra loro, tornano ogni anno a essere protagonisti di una storia comune. È la storia di una grande passione popolare che non trova eguali in altri avvenimenti sportivi.
«Lo scorso anno sono state oltre sette milioni le persone che hanno seguito il Giro – spiega Angelo Zomegnan, patron della corsa dal 2004 –. Tra loro i fans dei vari club, ma anche tanti appassionati che si attrezzano con pullman e camper. Da Nord a Sud senza distinzione, a seguire questa corsa che unisce insieme passione, storia e tradizione, c’è sempre un lungo fiume di gente, di uomini, donne e bambini. Sette milioni di spettatori che corrispondono, per dare un’idea, a cinque stadi di San Siro stragremiti per il derby Milan-Inter; in altri termini, una media di cinque stadi al giorno solo per una tappa. Dato significativo se confrontato con la curva dell’audience che, sempre nel 2007, ha fatto registrare il 32 per cento di share con punte ancora più alte al momento dell’arrivo».
A partire dal 24 maggio, il Giro 2008 arriverà lassù, dove la terra incontra il cielo, sulle vette più alte, scenario di tante imprese epiche che vedono l’uomo misurarsi con lo sforzo e, prima di tutto, con se stesso. Saranno quattro le tappe di montagna, con tre arrivi in salite storiche delle Dolomiti (Passo Fedaia, Alpe di Pampeago e Monte Pora) e una cronoscalata verso Plan de Corones in mezzo allo splendore di un palcoscenico naturale mozzafiato. «Altro che 45 milioni di abitanti – riporta lo scrittore Dino Buzzati sul “Corriere della Sera” nel 1949, dopo la cronaca di una tappa tra le sue Dolomiti bellunesi –, se l’Italia fosse tutta come qui». Frase che racconta come, anche in ambito mediatico, si facesse a gara, non solo tra i giornalisti, per occuparsi del Giro. A commentare la corsa ci furono scrittori e poeti tra cui Vasco Pratolini, Alfonso Gatto, Buzzati appunto, e illustri giornalisti, da Indro Montanelli a Enzo Biagi fino a Sergio Zavoli, ideatore del primo «Processo alla tappa» nel 1962. Non a caso la storica corsa quest’anno sarà dedicata, per volontà di Carlo Verdelli, direttore della «Gazzetta dello Sport» – il giornale organizzatore – alla memoria di Enzo Biagi e celebrerà miti sportivi del calibro di Enzo Ferrari e Dorando Pietri che vinse, nel 1908, la maratona olimpica di Londra in una pagina di atletica passata alla storia.
Lo stesso Paese di quegli anni d’oro si ritrova ancora oggi quando quel turbinio di manubri e pedali scorre via, in un attimo, sotto il naso di una folla in attesa già dalle prime ore del mattino. Subito dopo è la volta delle auto multicolor degli sponsor dalle quali volano berrettini, caramelle e gadget. Poi, solo a corridori ormai lontani, il via alla ressa di bambini che si affannano a raccogliere tutto quanto trovano per terra. Un interesse, quello dei più piccoli, ben interpretato da «Biciscuola», iniziativa promossa nell’ambito del Giro, in accordo con la Presidenza del Consiglio, che coinvolge ogni anno più di centomila ragazzi.
Il primo Giro d’Italia parte il 13 maggio 1909 alle 2.53 del mattino dal rondò di Loreto a Milano. I concorrenti sono 127, solo 49 arriveranno al traguardo. Al seguito ci sono otto auto (quattro per le squadre, due per l’organizzazione e la giuria, due per i giornalisti). Nel 1924 nessun campione si presenta al via. Le Case degli sponsor fanno sciopero. Alle necessità dei 90 partenti provvede il Giro con 600 polli, 750 kg di carne, 50 kg di burro, 720 uova, 4800 banane, 4800 mele e arance, 2 mila bottiglie di acqua minerale, zabaione, biscotti e cioccolata.
Tra gli anni ’50 e ’60, per assistere alla corsa, l’Italia si ferma, le fabbriche chiudono, gli insegnanti sospendono la lezione. È un Paese che si divide e si infiamma non solo per il ciclismo. Comunisti e cattolici si sono appena fronteggiati alle elezioni, così i laici tifano Coppi, i cattolici Bartali. «Ho conosciuto poco mio padre – racconta il figlio di Coppi, Faustino –. Era un uomo di poche parole, con me sempre gentile e pieno di attenzioni. L’ ho conosciuto attraverso le parole, le strette di mano, i sorrisi delle persone che, ancora oggi, mi fermano e mi parlano di lui. Alla fine, però, per la gente Coppi e Bartali, compagni di fatica e di imprese, divennero amici. Grazie, tra l’altro, a un gesto immortalato nella foto storica in cui mio padre, al Tour de France, passa la borraccia a “Ginettaccio”».
«Papà era sempre tanto impegnato, ma, appena poteva, tornava a casa per stare con la sua famiglia – ricorda la figlia Biancamaria –. Forse per questo, a differenza dei miei fratelli, non amo più di tanto il ciclismo. Non posso comunque dimenticare l’emozione provata al Giro, le volte in cui accompagnai papà – che ormai aveva appeso la bici al chiodo – quando, lungo le strade, la gente gli urlava “Bartali, Bartali” applaudendo più lui che i corridori in gara».
Altri tempi. Tempi «puliti» sui quali non gravava l’ombra del doping che ha messo in crisi questo grande evento come l’intero mondo del ciclismo. «Ricordo che cominciavano a circolare quei primi miscugli. Avrebbero dovuto farti viaggiare a mille – racconta Fiorenzo Magni, il “Leone delle Fiandre”, il “terzo uomo” dell’epoca d’oro del ciclismo italiano, degno rivale di Coppi e Bartali, vincitore di tre giri d’Italia nel 1948, nel 1951 e nel 1955 –. Il mio doping? Le uova, uova e ancora uova. Qualcosa, però, sta cambiando».
Il «doping» dei primordi, di cui parla Magni, porta un nome su tutti. È quello di Alfredo Binda. La pagina, divenuta leggenda nella storia del ciclismo, viene scritta nel 1926 al Giro di Lombardia. Binda vince, con un distacco abissale, una gara apocalittica battuta da pioggia, vento, frane e persino dallo straripamento del lago di Como. Il segreto? Il doping «nostrano» di quei tempi: prima della partenza il vincitore di cinque edizioni del Giro (1925, 1927, 1928, 1929 e 1933), record assoluto condiviso con Fausto Coppi ed Eddy Merckx, aveva bevuto 6 uova fresche e un’altra scorta l’aveva consumata durante la corsa per un totale di 34.
Contro l’ombra del doping è arrivata, proprio in occasione del Giro 2008, la risposta del numero uno della corsa, Zomegnan. Un richiamo forte a un nuovo rigore che ha scosso in profondità gli ambienti sportivi. Una presa di posizione netta e scomoda che invoca – per la prima volta e utilizzando, anche nel linguaggio, termini desueti per questo mondo –, «la necessità di principi etici».
Il Giro 2008 usa tre parole chiave: credibilità, qualità e internazionalità. «Mi auguro ci sia una svolta epocale – spiega Zomegnan –: servono trasparenza, pulizia e una serietà speciale rispetto a quella vista finora. La credibilità è l’elemento indispensabile per risalire la china, per uscire dal guado». La contropartita è una scommessa davvero alta. Il rischio è quello di perdere irrimediabilmente l’affetto che la gente comunque riserva a un evento che unisce un Paese pur tra mille diversità. «Bisogna avere il coraggio di stare, finalmente, al di sopra di ogni sospetto: sul fronte delle tentazioni rispetto al doping, ma anche per quanto riguarda sotterfugi finanziari illegali che determinano, ad esempio, l’entrata o meno in squadra del possibile vincitore – prosegue il patron del Giro –. Perché la situazione migliori bisogna far sì che la svolta sia perseguita da tutti, ciclisti, squadre e Federazione. Oggi è il principio etico che deve essere il più importante. Su tutto e su tutti».
Il Giro deve tornare, insomma, a essere il Giro. «È una corsa che mette insieme cultura, storia e tradizione – aggiunge Francesco Moser, ciclista con il maggior numero di successi, quinto assoluto a livello mondiale, vincitore del Giro nel 1984 –. È questo il suo grande fascino, un valore aggiunto che non possiamo permetterci di perdere».
L’edizione numero 91 si conclude il primo giugno a Milano. Il giorno dopo già si ricomincia. Per i cento anni dalla nascita, nel 2009, il progetto è ambizioso: «Cento anni d’Italia attraverso il Giro d’Italia». È da subito, allora, che il ciclismo, se vuole lasciare un segno, è chiamato a voltare pagina.
Paolo Bettini. «Il Giro? Una festa. Io adoro esserci»
Al via, al 91º Giro d’Italia, anche Paolo Bettini, il «grillo», campione olimpico in carica di ciclismo su strada e due volte campione del mondo (2006 e 2007) di specialità.«Pur non essendo una corsa esattamente tagliata per le mie caratteristiche – afferma Bettini –, il Giro d’Italia è uno dei momenti più belli della mia stagione. Adoro correre con il nostro pubblico a bordo strada. Sono tornato al Giro nel 2005 dopo alcuni anni di assenza. L’affetto della gente è stato meraviglioso. L’anno precedente avevo vinto l’Olimpiade, mi sembrava giusto rendere partecipi i tifosi della mia gioia. La vittoria nella tappa di Tropea e poi la maglia rosa sono state le ciliegine su una torta già fantastica».
Per il pluricampione iridato il Giro è divenuto un appuntamento fisso: «Non me lo perderei per nulla al mondo. Nel 2007 ho anche leggermente modificato la mia maglia da campione del mondo per ringraziare i tifosi. Ho aggiunto, infatti, uno stivale tricolore, isole comprese. Voleva essere un omaggio a tutto il pubblico italiano. Insomma, il Giro è una festa popolare e io adoro esserci. Il risultato sportivo è in secondo piano rispetto alla gioia di percorrere in lungo e in largo l’Italia! Ho solo un cruccio. Durante le lunghe e durissime tappe dolomitiche non ho mai il tempo di alzare la testa per guardare lo spettacolo che mi circonda! Troppa fatica! Quando smetterò, di sicuro, tornerò in quei luoghi da turista».
Il Giro si lega anche all’infanzia del «grillo». «Ho molti ricordi di quando ero bambino. Per anni ho abitato lungo la via Aurelia. Vedevo sempre passare i corridori, sia per il Giro che per altre competizioni. Con mio fratello, anche lui ciclista, andavamo spesso a vederli, anche un po’ più lontano da casa. Mi piacevano i colori e i suoni del gruppo, ne ero affascinato. Per un bimbo la bicicletta è il primo strumento di libertà e conoscenza. A ogni “giratina”, come diciamo noi in Toscana, cerchi di spingerti un po’ oltre i confini conosciuti. Veder passare tutti quei corridori assieme, mi regalava l’esatta sensazione di libertà».
Sui mali del ciclismo e sulla necessità di invertire la rotta – a cui si appella il direttore del Giro, Angelo Zomegnan – Paolo Bettini conclude: «I corridori hanno fatto e stanno facendo ancora molto, sebbene la strada sia ancora lunga. Probabilmente, in questo momento, i problemi risiedono altrove».
Il numero nero. La storia «italiana» di Giovanni Pinarello
Lo scopo? Ritrovare la magia dell’ultimo, faticatore come e più degli altri, che conclude comunque la gara. Da quel suo essere fanalino di coda «Nani», ottavo di dodici fratelli, trae una grande lezione di vita. A 15 anni apprende i primi rudimenti come costruttore di bici. A 17, con materiale preso in prestito, comincia a correre nelle categorie minori. Oltre 60 i successi da dilettante. Nel ‘47 «Nani» inizia a creare le bici che portano il suo nome. Telai grezzi sportivi e per bici da città, assemblaggio, verniciatura, tutto viene fatto artigianalmente in un vecchio capannone di famiglia, sfruttando la passione e l’esperienza di atleta. Nel ‘52, la svolta. «Nani» deve lasciare il Giro. La sua squadra, la Bottecchia, vuole lanciare un nuovo corridore. Il compenso per la rinuncia forzata è di 100 mila lire. Quei soldi gli serviranno per aprire il primo negozio in piazza del Grano a Treviso. Pinarello intuisce che quel marchio può crescere. Oggi è tra i più famosi al mondo. Fino a pochi anni fa «Nani», che ha 86 anni, passava in bici a salutare gli operai in fabbrica. Il suo negozio è tappa obbligata per ciclisti, professionisti e non. Con loro parla dei grandi miti del passato con i quali ha avuto la fortuna di correre. Stessa scena allo scorso Giro: professionisti ed ex atleti si fermano per una foto con uno dei simboli della storia del ciclismo. «Se corressimo in pochissimi, i più bravi, nessuno verrebbe ad applaudirci – afferma un vincente come Eddy Merckx –. Il ciclismo vive anche di gente che va in fuga quando non te l’aspetti e, talvolta, arriva in fondo».